Scritto da Raffaello Lupi • mar 2024
Lo scritto analizza i limiti, emersi negli ultimi decenni, dell’editoria cartacea come strumento di selezione della qualità della saggistica accademica negli studi sociali. Si rileva come la diminuzione dei costi abbia alimentato il tasso di autoreferenzialità della produzione accademica rispetto agli interessati ai temi sottostanti nell’opinione pubblica. Si individuano quindi una serie di opportunità offerte dalle pubblicazioni in accesso aperto, per redazione congiunta di volumi che mettano gradualmente a fuoco i relativi temi e superino gli attuali inconvenienti della revisione tra pari.
The article analyzes the limits, emerged in recent decades, of paper publishing as a tool for selecting the quality of academic social studies. It is noted that the reduction in costs has fueled the rate of self-referentiality of academic production with respect to people interested in the underlying themes in public opinion. The paper therefore identifies some opportunities offered by open access publications, for the joint editing of volumes that gradually focus on the relevant themes and overcome the current drawbacks of peer review.
1.
Non ho mai avuto particolare simpatia, come ho scritto circa sette anni or sono su questa rivista (n. 4 - 2017, Valutazione dei saperi e diritto, tra tecnica e scienza sociale delle pubbliche funzioni) per una selezione universitaria sbilanciata sulle pubblicazioni, che mette in secondo piano l’interlocuzione diretta coi loro autori. Le mie perplessità riguardavano la possibile utilizzazione di c.d. ghostwriter, preferenze e ostruzionismi delle direzioni delle riviste di classe A, mortificazioni del dibattito interno alle comunità scientifiche, mancanza di controllo sociale tramite prove orali accessibili a terzi. Il rammarico oggi cresce, sia perché le nuove tecnologie consentirebbero di rimediare ai suddetti inconvenienti, sia perché i ghostwriters potrebbero essere facilmente sostituiti dall’intelligenza artificiale; quest’ultima riesce infatti ad assemblare in tempo reale le pubblicazioni vagamente in tema, ma senza un reale contenuto di cui diremo più avanti (sull’argomento anche par. 2.3 del mio Studi sociali e diritto, in open access al link https://romatrepress.uniroma3.it/libro/studi-sociali-e-diritto/).
Questo problema si collega ad altre criticità del reclutamento accademico, come il difficile controllo dei titoli (svolgimento di seminari, relazioni a convegni, ricerche interne ai dipartimenti, etc.), il carattere formalmente non comparativo dell’ASN, con rischio di appiattimento al ribasso; anche per l’impossibilità di chiarire coi candidati passaggi contraddittori, ambigui od oscuri delle pubblicazioni presentate; ne consegue la tendenza a interpretazioni benevole pro bono pacis verso chi ha apprezzabili referenze accademiche.
Rinviamo però questi aspetti a uno scritto focalizzato sull’accademia, concentrandoci qui sull’editoria come forma di comunicazione. L’editoria scientifica deve infatti confrontarsi con l’estensione dei saperi, ormai nazionali o sovranazionali, rispetto alle entità locali rappresentate dagli atenei. Essi costituiscono l’antico luogo fisico dove la vicinanza consentiva interlocuzioni tra tutti i saperi, rese dal concetto stesso di Università. Erano prassi tipiche di quando i saperi erano molto più ristretti, e teologia, filosofia e matematica erano trattabili, in modo fortemente interconnesso, dai medesimi studiosi, influenzando persino le tecniche, come la medicina o il diritto. Nell’Università come luogo fisico, i saperi si valorizzavano a vicenda attraverso l’interazione orale, essendo all’epoca molto più ristrette le odierne interlocuzioni dirette a distanza. L’unica possibile all’epoca era infatti quella epistolare, comunque asincrona, ed era molto importante quindi la circolazione del pensiero tramite la scrittura. La riproduzione a stampa, a partire dal Cinquecento, aprì quindi la strada alla diffusione di nuovi contenuti, criteri valutativi e modalità comunicative, di cui ai prossimi paragrafi.
2.
La riproduzione a stampa ha moltiplicato le potenzialità della comunicazione scritta, con cui si erano già stratificati e trasmessi nel tempo pensieri complessi; non a caso si associa alla scrittura l’uscita dalla Preistoria e l’inizio della Storia, per la possibilità, attraverso di lei, di organizzare, coordinare e trasmettere riflessioni, a partire da quelle metafisiche, filosofiche ed esistenziali.
Queste riflessioni venivano in genere rese interessanti collocandole in narrazioni romanzesche, epiche, poetiche, etc…, come indicato nelle pp. 4 e ss. del mio Studi sociali e diritto, cit. Da quest’intrattenimento letterario indirettamente derivavano mappe cognitive della realtà, sistemi di valori e indicazioni comportamentali per la vita pratica. Gli scritti circolavano nella piccola minoranza alfabetizzata dell’era preindustriale, il cui bagaglio culturale, salve poche sfumature, era omogeneo; la parte non alfabetizzata della popolazione, per quanto non assorbita dalle necessità di sussistenza, si dava rudimentali spiegazioni di cultura popolar-religiosa, riti religiosi e rappresentazione di miti tramite le arti figurative.
L’editoria a stampa fu un passo verso la costruzione di un’opinione pubblica molto più numerosa, e tematicamente articolata, come spiego ne L’era aziendale, volume disponibile liberamente su Didatticaweb dell’Ateneo di Tor Vergata. Alla narrazione a stampa si è poi affiancata quella cinematografica, radiofonica, televisiva e tramite internet, in parallelo all’evoluzione della socialità. Quest’ultima è diventata molto più articolata e per comprenderla non bastano più le suddette narrazioni letterarie. Servono quindi studi sociali, che però sono privi del suddetto fascino emotivo della letteratura, e di una storia in grado di interessare il lettore.
È del tutto normale che l’editoria delle c.d. scienze dure, dedite allo studio sperimentale della materia, circoli all’interno di un ristretto circuito di iniziati, cui è riconosciuta una competenza riservata nel settore. Negli studi sociali, come l’economia, la sociologia, la politologia e altre analoghe prospettive, la letteratura dovrebbe invece rivolgersi in buona misura all’esterno, verso gli interessati al tema nella pubblica opinione, secondo le loro varie curve di attenzione e sensibilità culturali. Anche tali discipline si sono invece rivolte in prevalenza al proprio interno, col c.d. monismo metodologico, ispirato alle scienze della materia (Studi sociali e diritto, cit. p. 25 e oltre in quest’articolo); la ricerca di legittimazione presso il proprio ristretto circuito di cultori (par. 1.5 di Studi sociali e diritto) fa trascurare gli interessati alle proprie tematiche nella pubblica opinione (Studi sociali, cit. par. 1.6). Alla fine l’unica utilità della pubblicistica negli studi sociali diventa quella di essere utilizzata da altri studiosi sociali per scrivere altri articoli, in un circolo vizioso di autoreferenzialità. Il risultato è l’isolamento rispetto alla discussione pubblica sui diversi temi della socialità e una circolazione nei ristretti circuiti di materia, con le loro gelosie, rivalità, polemiche, ma soprattutto indifferenze. L’impatto sulla pubblica opinione è pressoché zero mentre continuano a tener banco le narrazioni letterarie e di costume, variamente combinate e quelle giornalistico-politiche dei mass media; è in altri termini del tutto normale che nello spazio lasciato vuoto dalle spiegazioni degli studiosi sociali si siano inseriti giornalisti, politici, romanzieri e registi, nonché varie tipologie di personaggi pubblici con doti comunicative per rendersi visibili. Anch’essi usano di frequente i libri come strumento reputazionale, ma si tratta spesso di pamphlet a vocazione generalista. Essi non si rivolgono cioè agli interessati, ma cercano di sensibilizzare chi non lo è, rendendoli socialmente dei fuochi di paglia, utili al massimo a supportare per un po' la visibilità mediatica dell’autore, senza impatto durevole sugli effettivi interessati. Questa ricerca, nella discussione pubblica, di audience mediatica e consenso politico, indebolisce il controllo sociale e fa prevalere nell’attività di governo la comunicazione politica (propaganda) sulla sostanza. Vedremo ai prossimi paragrafi cosa potrebbero fare gli studi sociali per fronteggiare questa tendenza e svolgere il proprio ruolo.
3.
Quando fu inventato il libro stampato, esso fu temuto dal potere politico e religioso, in quanto capace di incidere sulle ristrette opinioni pubbliche del tempo. Basta pensare alla censura, all’imprimatur burocratico e all’Indice dei libri proibiti per capire quest’antica importanza culturale, e quindi politica. I libri avevano una forte capacità di penetrazione rispetto alle narrazioni orali, col paradossale punto di forza della loro relativa scarsità. I loro notevoli costi fissi di composizione erano una barriera d’ingresso, un indizio indiretto di qualità, una legittimazione reputazionale degli autori e delle loro opere. I costi di pubblicazione di un volume erano talmente elevati da richiedere all’editore una valutazione di qualità, in termini di possibilità di vendita. L’editore garantiva cioè i potenziali lettori, come un valutatore anticipato del possibile gradimento dei testi nel pubblico di riferimento, oggi chiamato target. All’interno di quest’ultimo, la pubblicazione era quindi un accreditamento in sé; essa garantiva, da parte dell’editore, il previo svolgimento di una funzione di filtro, apertura di credito che indirettamente legittimava l’autore, e costituiva un biglietto di presentazione del libro.
Pubblicare era quindi sinonimo di autorevolezza sociale e simbolo di cultura, come confermano molteplici e convergenti indizi: si pensi all’espressione parla come un libro stampato, alla dignità di stampa con cui si elogiano le migliori tesi di laurea e alle antiche sinergie tra editori e pensiero giuridico (il Foro italiano, Giustizia civile, Enciclopedia del diritto ecc.). Inversamente i roghi dei libri sono usati come simbolo di negazione della cultura, come nel distopico libro Fahrenheit 451, che probabilmente si ispirava ai roghi nazisti dei libri contrari alle idee del regime. Oggi i libri più pericolosi, che andrebbero bruciati, non sono quelli con idee sbagliate, ma quelli senza idee di cui diremo più avanti, scritti per dire di averlo fatto e guadagnarsi il prestigio che in varie sedi ne deriva. Ecco perché occorre riflettere sul ruolo dei prodotti editoriali nella selezione universitaria, fronteggiando la comprensibile tendenza della burocrazia accademica a procedure uniformi per la valutazione di saperi molteplici, che avvantaggiano proprio il suddetto uso dell’editoria, come strumento per comunicare ad organi burocratici di avere scritto. Quanto sopra è confermato dal fatto che nell’attuale contesto sociale nessun libro come tale fa più paura, salvi i rari casi in cui diventa un simbolo politico presso settori dell’opinione pubblica (che di solito neppure l’hanno letto). È un riflesso della proliferazione dei libri, dovuta all’insieme di circostanze indicate al paragrafo successivo.
4.
La perdita d’impatto sociale dei libri, come tali, dipende sia dalle già indicate dimensioni enormi dell’opinione pubblica, sia da diverse e più immediate modalità d’interazione (cinema, TV, social networks), sia dalla proliferazione stessa dei libri. Quest’ultima ha ragioni economiche, per l’elaborazione elettronica dei testi e la loro facilità di impaginazione e stampa. Ne consegue una riduzione dei costi che fa svanire la suddetta funzione di filtro dell’editore, quale primo valutatore della qualità dei volumi da lui pubblicati. La diminuzione dei costi editoriali consente cioè a un numero crescente di autori di finanziare le proprie pubblicazioni, per acquisire a pagamento i vantaggi reputazionali indicati al paragrafo precedente. L’attenzione degli editori s’è quindi sempre più spostata dalla comunità dei potenziali lettori a quella degli autori, delle loro istituzioni di appartenenza o dei loro finanziatori, spesso intenzionati ad accreditare una qualche narrazione politico-sociale. Persino i costi per realizzare la dignità di stampa delle tesi (paragrafo precedente) sono sempre più alla portata economica degli studenti e delle loro famiglie. In questo modo gli editori, come indicato nel titolo del paragrafo, diventano sostanzialmente degli stampatori. Diventa così possibile, caduta la suddetta barriera economica all’ingresso, pubblicare libri allo scopo di autolegittimarsi, per avere un titolo da spendere a fini professionali, accademici o di visibilità politico-giornalistica.
Già solo per questo, l’antico prestigio dei libri, descritto al paragrafo precedente, è molto diminuito, ma non scomparso. Da una parte, questa caduta delle barriere economiche alla pubblicazione amplia la scelta a disposizione dei lettori, consentendo loro di valutare i volumi che preferiscono, sia come contenuti sia come forma espositiva. D’altra parte però il tempo dei lettori per scorrere e consultare un determinato volume è rimasto esattamente identico rispetto al passato, nonostante un certo aiuto di internet, dov’è possibile almeno visionare gli indici, se non degli estratti. La diffusa lamentela secondo cui si legge di meno non dipende solo dalla concorrenza delle suddette altre forme di comunicazione (mediatica e social), ma anche dalla quantità di libri pubblicati; in altri termini la percentuale di lettura dei libri pubblicati è minore, rispetto al passato, anche perché si pubblica molto di più. Magari alcuni libri vengono anche venduti, o regalati dagli stessi autori, senza però che l’acquirente o il donatario abbia il tempo per poterli adeguatamente valutare, e men che meno per leggerli. A questo contesto si addice la battuta dal film Il portaborse, di Nanni Moretti non ho mai letto un libro tutto intero in vita mia Mai! Però le introduzioni, i risvolti di copertina, le prefazioni non le ho dimenticate. Le barriere rappresentate dalla disponibilità di tempo dei lettori infatti rimangono, nonostante la caduta dei costi di pubblicazione, con ulteriori inconvenienti su cui il prossimo paragrafo.
5.
Purtroppo la vecchia barriera all’ingresso, un tempo rappresentata dai costi editoriali, non è stata sostituita da altre modalità di selezione e controllo sociale dei contenuti, rispetto alla presenza sempre più diffusa di libri senza idee, nati per essere spesi come titoli. Anzi, la suddetta trasformazione degli editori in stampatori peggiora le cose, spingendoli a pubblicare di tutto per aumentare la clientela che paga per pubblicare, a detrimento di quella che paga per leggere. Invece dell’antica barriera all’ingresso, basata sulla qualità in funzione delle vendite, gli editori incentivano a pubblicare qualsiasi cosa, in modo da aumentare il numero di clienti-autori. La stampa cartacea, dopo aver agevolato per secoli la circolazione del pensiero, rischia quindi oggi paradossalmente di ostacolarla, proprio per la prevalenza della quantità rispetto alla qualità, e per la responsabilità accademica di dover dimostrare vitalità scientifica col publish or perish, anche se l’impatto di quel che si scrive è zero. La proliferazione degli scritti, senza adeguati controlli di qualità, avvia un circolo vizioso in cui gli scritti di studi sociali, redatti per accreditarsi all’interno delle comunità scientifiche, non sono letti neppure da chi ne fa parte; anche lì, al massimo, i libri si scorrono, guardando gli indici e facendo carotaggi. In questo contesto, come sopra rilevato, è inevitabilmente conveniente andare a peso, cioè fare volume con riempitivi, giri di parole vagamente in tema, esibizioni di erudizione fini a sé stesse, ma fuori contesto. L’esperienza dell’ASN, per quanto ho potuto constatare, conferma che, con i dovuti supporti nella comunità scientifica, questo genere letterario, nonostante lo scarso valore aggiunto, è nel complesso pagante. È infatti impossibile contestare nel merito scritti vagamente in tema asseritamente diretti ai circuiti accademici, proprio perché un effettivo contenuto manca, o è disperso tra espressioni ambigue, paludate, tortuose e prolisse (Studi sociali e diritto, pag. 87). Dimostrare la mancanza di senso di questi scritti è una fatica improba, ben superiore sia a quella necessaria a redigerli, sia a quella necessaria a scrivere, in proprio, scritti con impatto sugli interessati al tema. Non c’è alcun incentivo, quindi, ad impegnarsi a destrutturare tali scritti, ricavandone solo le antipatie dei relativi redattori e capiscuola. Rivolgersi invece agli interessati, fuori dall’accademia, svolgendo il ruolo cui sono chiamati gli studi sociali, espone paradossalmente ad accuse di imprecisata divulgatività; si tratta di vischiosità del già esaminato monismo metodologico, la distinzione tra scientificità e divulgatività si addice alle scienze dure e alle tecniche, ma è del tutto fuori luogo negli studi sociali (Studi sociali e diritto, cit. p. 28, e L’era aziendale, cit. par. 4.3). Contribuisce al circolo vizioso anche per il preconcetto, derivante dal suddetto monismo metodologico, che l’incomprensibilità vagamente in tema dimostri scientificità. Del resto giri di parole vagamente in tema sono una frequente necessità, nella prassi politica, giornalistica, professionale e anche giudiziaria, per gestire situazioni imbarazzanti, in cui si deve difendere l’indifendibile, per contingenze istituzionali, si hanno le idee confuse o poca voglia di approfondire. Fatto sta che si moltiplicano i libri scritti solo per far vedere di averlo fatto, per acquisire punteggi nella suddetta autoreferenzialità di ristretti gruppi accademici, con un misto di materiali normativi, riferimenti dottrinali o formule di economia matematica. Il controllo di qualità sui prodotti editoriali, per usare il linguaggio ANVUR, si indebolisce in quanto coincide con le stesse comunità accademiche, in un cortocircuito di autoreferenzialità. Tutto ciò non fa alcuna presa sugli interessati al tema nella pubblica opinione in quanto persino i revisori effettuano le peer review stancamente, spesso per mera cortesia accademica verso i colleghi che le richiedono, o dando sfogo a compiaciuti sadismi culturali.
L’editoria accademica sugli studi sociali si riduce così ad accessorio della didattica e dei concorsi universitari, con gli editori che s’informano solo di quanti volumi verranno adottati, cioè fatti comprare agli studenti, o acquistati direttamente dall’autore.
I correttivi della classificazione delle riviste e delle peer review, per come sono stati concepiti, sono del tutto inadeguati al raggiungimento di una sufficiente qualità, proprio perché anch’essi ispirati al monismo metodologico delle scienze fisiche, senza una riflessione sulle suddette specificità degli studi sociali. In queste ultime, come appena rilevato, è infatti fondamentale la socializzazione (c.d. interlocuzione esterna alle accademie) e la rendicontazione delle valutazioni (accountability), anziché l’anonimato irresponsabile su cui purtroppo s’è assestata la prassi delle peer review, anche positive. Mentre infatti ha senso che le revisioni negative restino anonime, chi ha avallato un determinato scritto dovrebbe metterci la faccia accettando di essere indicato, a posteriori, sul medesimo, quale revisore, sia per valorizzare l’opera sia per assumersi le proprie responsabilità scientifiche.
In conclusione, l’impatto delle moderne tecnologie sull’editoria e i processi valutativi è stato quindi più negativo che positivo; la suddetta editoria sovvenzionata dagli autori o dalle loro istituzioni si è rivelato una sorta di moneta cattiva che scaccia quella buona. Oltre agli inconvenienti già indicati, si aggiunga la possibilità di sostituire ai vecchi ghostwriters l’intelligenza artificiale, in grado di produrre rapidissimamente una quantità illimitata delle suddette espressioni vagamente in tema, ma senza effettivo filo logico. Anche questo conferma che anche in materia di editoria non bastano le scienze e le tecnologie, ma servono idee per utilizzarle, come le riflessioni propositive del prossimo paragrafo.
6.
Rispetto alle criticità di cui ai paragrafi precedenti sono però possibili anche circoli virtuosi, in cui la tecnologia del presente rilancia tradizioni del passato, per una migliore discussione sui vari temi della socialità.
Prima di tutto si tratta di valorizzare, tramite le tecnologie, quanto di buono la comunicazione scritta può dare rispetto a quella audio-video. Ovviamente i codici, le banche dati, i commentari e le monografie sulle problematiche tecniche, consultate a proposito di temi specifici, anziché lette per trarne spiegazioni generali, sono più fruibili online e in PDF. Su quest’ultimo è anzi possibile cercare per parola, mentre la carta non è navigabile; non a caso i volumi cartacei, che richiedono laboriose ricerche in biblioteca, sono sempre più ignorati a favore dei testi reperibili in PDF, tanto che le opere giuridiche più valide o prestigiose del passato vengono meritoriamente digitalizzate.
La digitalizzazione impone un ripensamento sul ruolo delle riviste in generale, comprese quelle telematiche. Le riviste, infatti, si giustificavano per la circolazione cartacea del pensiero, in un efficiente assemblaggio, su ogni numero, di tematiche tra loro diversissime. Quest’aggregazione di scritti eterogenei ottimizzava infatti costi di composizione, stampa e distribuzione tipici dell’era cartacea. L’unico filo conduttore tra questi scritti diversi era solo la periodicità di pubblicazione, tramite la quale erano affidati alla tradizionale circolazione cartacea. Anche con la rivista telematica permane quest’eterogeneità dei contributi pubblicati, dispersi su tematiche differenti e le riviste diventano al massimo una garanzia di qualità per i lettori. In esse le direzioni hanno infatti un maggior peso rispetto agli editori, sempre ansiosi di dare alle stampe libri pagati dagli autori, come sopra rilevato.
È uno spunto per valorizzare il ruolo degli autori nel rimpiazzare le antiche funzioni di filtro degli editori aiutando i lettori ad orientarsi (par. 4 in fine) nell’enorme massa di scritti reperibili in rete. L’opportunità offerta dalla tecnologia, per il circolo virtuoso suddetto tra autori e lettori, è oggi la facilissima sostituibilità e integrabilità dei testi pubblicati. Ciò crea spazi per volumi tematici, che partono da un’idea iniziale, già sufficientemente articolata per essere presentata, e si arricchiscono strada facendo. Quest’arricchimento avviene con ulteriori variazioni sul tema e sfumature, sia da parte degli autori originari, sia da altri che si aggiungono. È un po' la rivisitazione della modalità espositiva sperimentata da chi scrive, dal 2003 al 2015, coi limiti del supporto cartaceo, sulla rivista Dialoghi tributari. La pubblicazione online in accesso aperto consente oggi di lanciare organici argomenti di discussione, in modo già articolato, ma aperti a una specificazione “in progress”. Essi sarebbero un punto di partenza e al tempo stesso un polo di aggregazione per riflessioni ulteriori sul tema; penso a integrazioni con prospettive diverse, dati sociali, comparazioni spazio-temporali, eventi sopravvenuti. Lo scritto potrebbe così rimanere la punta di diamante di quel determinato argomento. Questi scritti “sociali” sarebbero pienamente compatibili con la certezza della paternità dei contenuti, rilevante sul piano della valutazione della ricerca, dell’originalità e degli altri parametri amministrativi (ANVUR e simili istituzioni). L’accesso aperto offre anzi, all’interno delle comunità scientifiche e tra gli interessati all’argomento, un controllo sociale molto superiore ai triti formalismi, commentati al par. 5, delle peer review anonime. In pratica si tratta di una peer review estesa alla generalità degli studiosi del tema e degli interessati. La messa a disposizione preliminare degli scritti a una platea vasta di studiosi, anche indicando il nome dell’autore, consente di esprimere motivate opinioni sull’esistenza di una sostanza, sulla sua completezza, correttezza etc. Sarebbe possibile cioè sdrammatizzare i giri di parole apparentemente in tema ma senza filo logico, di cui al par. 5, chiarendo quelli involontari e gestendo al meglio quelli volontari, per ridurne i danni. Questa socializzazione della trattazione è particolarmente utile su tematiche troppo sfaccettate per essere affrontate proficuamente da un unico autore, come dovrebbe essere la regola negli “studi sociali”. Questa denominazione spiega non solo l’oggetto cui essi si dedicano, ma anche l’inevitabile affinamento con interazioni multiple, anch’esse appunto sociali.
La possibilità tecnica di formazione successiva degli scritti oggi consente di raggiungere questi obiettivi. Si può così valorizzare la comunicazione scritta rispetto ad altre audio-video, cinematografiche, televisive e social (par. 5 in fine), più immediatamente fruibili e incisive; solo la scrittura consente però gli affinamenti graduali dei contenuti indicati sopra, con rielaborazioni e integrazioni cui neppure un maestro di montaggio audio-video potrebbe arrivare. Il testo scritto consente infatti una continua contestualizzazione, e coordinamento, di spunti e riflessioni, con un rapporto costi-benefici alla lunga molto migliore dei suddetti supporti televisivi. Una volta affinate le idee, e raggiunta un’esposizione letterariamente interessante, si potrebbe sugellarla con una pubblicazione cartacea. Quando lo scritto ha cioè raggiunto una fase avanzata di elaborazione, una fluidità espositiva che lo rende gradevole alla lettura, al testo in open access può benissimo affiancarsene uno cartaceo. L’editoria cartacea, del resto, non soffre particolari crisi nelle narrazioni letterarie in senso classico, come poesie e romanzi. Non è solo un omaggio sentimentale alla tradizione secolare dell’editoria cartacea, ma al piacere della lettura, maggiore sulla carta, se ben scritta, persino secondo gli studenti.
Questa pluralità e gradualità di esposizioni serve però soprattutto a migliorare il livello della discussione pubblica, rispetto all’emotività letteraria e all’improvvisazione mediatico-politica di cui al par. 2. Poco importa delle vendite, in quanto per lo studioso sociale non rileva l’acquisto del libro, ma la sua lettura. Tuttavia le vendite di volumi cartacei, organici e letterariamente gradevoli, consentono quantomeno di coprire i costi. Visto che nessun pasto è gratis, si tratta di spendere lo stesso, o poco più, per pubblicare, ma con un impatto sociale, e un’interazione tra studiosi, di gran lunga migliori, grazie all’attuale tecnologia. Quest’ultima consente cioè un’editoria in economia, a costi fissi zero, non spinta dal suddetto bisogno degli editori di stampare qualsiasi cosa a pagamento per tenere in equilibrio i conti. Ciò consente agli autori di essere editori di sé stessi, recuperando il rapporto coi lettori attraverso possibilità d’interazione senza precedenti. L’importante è affiancare alla socialità dei contenuti una forma espositiva gradevole, che intercetti il bagaglio culturale degli interlocutori di oggi, e possibilmente di domani. Ulteriori approfondimenti di quest’editoria tematica in accesso aperto su www.fondazionestuditributari.com.
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