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Fair taxation in the sharing economy (prima parte)

Scritto da Emanuela Di Rauso • giu 2022

Sintesi

Negli ultimi decenni l’economia ha subito una trasformazione a livello globale: Internet e le nuove tecnologie hanno contribuito al fenomeno della digitalizzazione delle imprese tradizionali nonché all’emersione di nuovi modelli di business. Ciò ha avuto un forte impatto non soltanto sul modo di svolgere l’attività di impresa ma è anche “di riflesso” sulla disciplina fiscale del reddito d’impresa. Per comprendere le cause che stanno portando a ripensare le regole che disciplinano la tassazione dei redditi transnazionali, è necessario fare un passo indietro ed analizzare le caratteristiche peculiari della digital economy che la differenziano dai modelli tradizionali d’impresa. L’avvento di Internet e il rapido sviluppo delle tecnologie digitali hanno rappresentato i fattori di sviluppo dell’Economia mondiale. L’economia digitale, è connotata da un alto tasso di mobilità dei profitti, e flessibilità così come emerge altresì dall’analisi dei modelli di business in cui si estrinseca. Proprio in virtù delle caratteristiche peculiari che la contraddistinguono, gli strumenti negoziali tipici della digital economy mal si prestano a rientrare nelle categorie civilistiche “tradizionali”, con conseguenze com’è ovvio anche sul piano fiscale, esasperando i fenomeni di erosione della base imponibile e della diversione dei profitti. Fiscalmente si ha difficoltà sia di determinare il quantum da assoggettare a tassazione sia di individuare il Paese cui spetta l’esercizio del potere impositivo. Le regole che disciplinano la tassazione dei redditi transnazionali poggiano su due principi fondamentali: Il world-wide taxation principle e il source-based taxation principle. Per eliminare i fenomeni di doppia imposizione che potrebbero derivare dalla combinazione dei principi anzidetti, ciascuno Stato attraverso la stipula di accordi con altri Paesi e l’adozione di norme fiscali interne prevede l’esenzione dei redditi di fonte estera ovvero il riconoscimento di un credito d’imposta per le imposte assolte all’estero. Si tratta di un sistema di imposizione “personale”, che fa prevalere la potestà impositiva dello Stato di residenza del contribuente su quella dello Stato della fonte del reddito; allo Stato estero dove è localizzata la fonte del reddito dell’impresa multinazionale, infatti, è riconosciuta una potestà impositiva limitata al reddito attribuibile alla fonte. Come è intuibile, la realtà economica attuale non corrisponde più al modello a cui si ispira il Modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni: l’impianto normativo sull’allocazione delle basi imponibili è inadatto a tassare i redditi prodotti dalle digital companies nel Paese della fonte, qualora manchi un collegamento “fisico” con il territorio di tale Paese che ne giustifichi la pretesa impositiva.

Abstract

In recent decades the economy has undergone a global transformation: the Internet and new technologies have contributed to the phenomenon of digitalization of traditional businesses as well as the emergence of new business models. This has had a strong impact not only on the way in which business activity is carried out, but also, and "reflexively", on the fiscal discipline of business income. To understand the causes that are leading to a rethink of the rules governing the taxation of transnational income, it is necessary to take a step back and analyze the peculiar characteristics of the digital economy that differentiate it from traditional business models. The advent of the Internet and the rapid development of digital technologies have represented the development factors of the world economy. The digital economy, is characterized by a high rate of mobility of profits, and flexibility as also emerges from the analysis of business models in which it is expressed. Precisely by virtue of the peculiar characteristics that distinguish it, the negotiation tools typical of the digital economy do not lend themselves to fall within the "traditional" civil law categories, with obvious consequences also on the fiscal level, exacerbating the phenomena of erosion of the tax base and the diversion of profits. From a fiscal point of view, it is difficult to determine the amount to be taxed and to identify the country which is responsible for exercising taxation powers. The rules governing the taxation of transnational income are based on two fundamental principles: The world-wide taxation principle and the source-based taxation principle. In order to eliminate the phenomena of double taxation that could arise from the combination of the above principles, each country, through the stipulation of agreements with other countries and the adoption of internal tax regulations, provides for the exemption of income from foreign sources or the recognition of a tax credit for taxes paid abroad. This is a system o "personal" taxation, which gives precedence to the taxing power of the State of residence of the taxpayer over that of the State of the source of the income; the foreign State where the source of the income of the multinational company is located, in fact, has a taxing power limited to the income attributable to the source. As can be seen, the current economic reality no longer corresponds to the model which inspires the OECD Model of the convention against double taxation: the regulatory framework on the allocation of tax bases is unsuitable for taxing the income produced by digital companies in the source country when there is no "physical" connection with the territory of that country which justifies the tax claim.

Contenuto

1. Premessa

La sharing economy è un’economia in continua evoluzione anche nell’ ambito della tassazione di essa. Questo articolo mette in luce il percorso svolto dai veri stati per ottenere un modello equo di tassazione1 nell’ambito della sharing economy. Dal punto di vista fiscale, gli Stati nazionali dovrebbero semplificare e chiarire l’applicazione della normativa fiscale all’economia collaborativa, laddove comunque le piattaforme dovrebbero cooperare appieno con le autorità nazionali per la registrazione delle attività economiche che sulle stesse si svolgono, agevolando anche la riscossione delle imposte. L’Economia collaborativa è un’area, a tassazione agevolata, i cui limiti dovrebbero essere individuati, settore per settore, in maniera differenziata a seconda delle loro caratteristiche peculiari, come suggerisce anche la Commissione europea, risultando inevitabilmente errata in difetto o, a seconda dei casi, in eccesso, una misura unica valida per tutte le aree della sharing economy. La previsione di un regime giuridico2 e fiscale più leggero e di favore per i soli operatori non professionali della Sharing, che quindi tenda a mantenere la disciplina ordinaria per gli operatori professionali ed i gestori dei servizi, permetterebbe, del resto, di rendere meno conflittuali i rapporti tra l’economia tradizionale e l’economia collaborativa, riducendo, sia in termini quantitativi che qualitativi, la concorrenza tra i due sistemi. La stessa Commissione europea, nella sua comunicazione più volte citata, dopo aver raccomandato di differenziare regimi fiscali a seconda della concreta attività svolta, ha evidenziato inoltre che una delle caratteristiche interessanti dell’economia collaborativa è, sotto il profilo fiscale, la possibilità delle piattaforme di tracciare le transazioni dei prosumer. Nel seguente articolo si tende quindi di definire in maniera dettagliata i seguenti tratti salienti.


1.1. Metodologia, Criterio di Ricerca, Fonti e domanda di ricerca

La metodologia utilizzata per il seguente lavoro è la revisione sistemica della letteratura, prendendo in considerazione tutte le fonti dal e in poi, le banche dati utilizzate sono Juris, Research Gate, Scopus, Google Scholar. La revisione sistemica della letteratura è stata svolta in questo modo:

  • Raccolta degli articoli attraverso le banche dati;

  • Attenta analisi degli articoli;

  • Mettere in evidenza tutte le componenti che forniscono una panoramica chiara per poter rispondere in modo esaustivo alle domande di ricerca poste nel corso del seguente lavoro.


La domanda di ricerca posta è la seguente:

1) Come dovrebbe essere l’equa tassazione nell’ambito dell’economia collaborativa?


1.2. Digitalizzazione e ICT

La trasformazione digitale3 nelle funzioni riguardanti la tassazione appare sempre più necessaria. L’idea e l’esigenza di creare una piattaforma digitale condivisa di deposito e segnalazione fiscale comporterebbe i seguenti vantaggi: diminuzione di spese, possibilità di individuare opportunità in differenti stage della value chain per effettuare investimenti mirati e redditizi, semplificazione ed automatizzazione dei processi , rapporti rapidi e diretti tra contribuenti in termini di ottimizzazione della propria strategia di portafoglio (oneri/benefici) riguardanti fornitura, operazioni e performance. Il sistema di tassazione internazionale (International tax planning) risente dei cambiamenti della dimensione socio-economica che si verificano a livello globale: le imposte sulle società erano, in passato, progettate e indirizzate verso business che vendevano beni materiali tangibili, caratterizzati dall’esistenza di strutture aziendali fisiche e che quindi avevano un riflesso sulle attività legate all’economia reale, favorendo la tracciabilità sui prodotti venduti e sull’onere fiscale4 generato da tali vendite. Le spinte trasformatrici della globalizzazione e della digitalizzazione, agli inizi degli anni ’90, hanno avuto un impatto sulla dimensione socioeconomica, la quale ha risentito fortemente del progresso tecnologico manifestatosi nella forma delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (information and communication technology, o “ICT”). L’espressione Information and Communication Technologies è ormai entrata nel linguaggio comune e sta ad indicare “quel complesso di scienze, tecniche e strumenti funzionali alla raccolta, all’elaborazione e, soprattutto, alla trasmissione delle informazioni”. Internet5 è solo il più rivoluzionario prodotto dell’ICT, a cui si affiancano e si sovrappongono i software e gli hardware, i dispositivi mobili, i sistemi satellitari, le infrastrutture della telefonia fissa e mobile: tutti strumenti funzionali al sistema economico, atti a concentrare informazioni e dati, a garantirne la circolazione e di conseguenza finalizzati a rimodellare le procedure di creazione del valore per le imprese che immettono sul mercato i propri prodotti disponibili online. Il fenomeno della digitalizzazione è considerato infatti uno dei più importanti cambiamenti all’interno dell’economia ma anche, in generale, nell’accezione sociale, uno dei cardini e promotori di sviluppo e innovazione. L’ICT può quindi essere considerato come il fondamento della nuova rivoluzione culturale e industriale, per aver introdotto il concetto di società dell’informazione ed inciso in maniera significativa sulla comunicazione, soprattutto economica, di massa. All’interno del panorama economico delle nuove società di informazione di massa, Daniel Bell, ordinario di sociologia ad Harvard, concettualizza e motiva l’esistenza di un’economia digitale: “Una società moderna, giunta al culmine del processo di industrializzazione, deve – per continuare a crescere – concentrare i propri sforzi verso la produzione non più di beni materiali bensì di servizi immateriali. Ma solo negli anni ’90 il concetto di digitalizzazione venne considerato come tecnologia rivoluzionaria e liberamente implementabile da chiunque. Internet quindi, concepita originariamente come una rete dedicata alle comunicazioni all'interno della comunità scientifica e tra le associazioni governative e amministrative, divenne così una rete universale, cui chiunque poteva accedere. Nello stesso periodo, il fenomeno del commercio elettronico e delle vendite online ha apportato nuovi contenuti alla definizione di economia digitale, dall’introduzione sul mercato di nuovi prodotti della comunicazione e dell’informazione alla diffusione di dispositivi, soprattutto mobili, che hanno rafforzato e migliorato l’interconnessione. Un nuovo gergo venne usato per indicare le nuove modalità di vendita digitali: Electronic commerce, Digital delivery of goods and services e Retail sale of tangible goods. A tal fine ci si avvale di processi di datafication (traduzione di fenomeni in dati), digitalization (conversione di entità analogiche in entità digitali), virtualization (separazione dei processi dall’infrastruttura hardware) e generativity (riprogrammazione e ricombinazione di tecnologie).


1.3. Business Digitali e tradizionali: L’influenza dell’ICT nella scelta dei modelli organizzativi

L’impatto dell’ICT sul business varia da impresa a impresa; da una parte la maggior parte delle attività utilizzano la digitalizzazione6 di una o più fasi della loro produzione dall’altra le restanti sono ancorate a un’economia tradizionale. I settori altamente tecnologici sono stati identificati come quelli nei quali le attività di ricerca e sviluppo insistono in maniera determinante sulla catena del valore; in questi la progettazione e la produzione possono essere gestite centralmente e gli step industriali della creazione del valore possono essere frammentati e distribuiti ovunque. È dunque possibile distinguere tra:

- imprese che nascono con un digital core e si sviluppano grazie alla digitalizzazione (core digital);

- imprese che non mutano il proprio core business ma modificano il proprio modello organizzativo, massimizzando le possibilità dell’evoluzione tecnologica;

- imprese che adottano modelli di business tradizionali e digitalizzano alcune fasi della produzione, senza cambiare la propria natura (si parla di economia digitalizzata, digitalized economy).

L’OCSE ha codificato la più recente definizione di economia digitale7 finalizzata ad analizzare tale fenomeno e contrastare le relative problematiche fiscali originate da: un’inconsueta consistenza economica dei beni immateriali, dall’impiego continuo dei dati, dalla presenza di modelli di business multilaterali e dalla capacità derivante dalla fornitura gratuita di prodotti e servizi di catturare esternalità di consumo. Tale Organizzazione argomenta sull’interconnessione tra le nozioni di “economia tradizionale” ed “economia digitale”, in quanto quest’ultimo concetto è una derivazione del primo e “refers to an economy based on digital technologies (sometimes called the internet economy). Increasingly the digital economy has become intertwined with the traditional economy making differences between them less clear” (Cfr. Bukht R., Heeks R., Defining, Conceptualising and Measuring the Digital Economy, university of Manchester). Il concetto di digital economy non riguarda quindi un settore dell’economia separato, né un mercato economico autosufficiente o indipendente, bensì un modo strategico-operativo di intendere l’economia stessa, che fortemente risente dell’influenza di internet e, più in generale, dell’ICT. In questo senso, evidentemente, l’economia digitale completa e integra l’economia “tradizionale”, che ben può digitalizzarsi ove scelga di sfruttare le tecnologie dell’informazione nei processi produttivi.

1.4. Il concetto di stabile organizzazione: art 162 TUIR e successive modifiche

L’espansione dell’economia digitale ha portato il sistema fiscale8 internazionale a dover fronteggiare diverse tematiche: identificare le principali criticità e sviluppare modalità dettagliate e mirate a fronteggiare tali problematiche è il principale obiettivo dell’Action Plan del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting). Le questioni da analizzare riguardano l’abilità delle imprese di possedere una presenza digitale significativa nell’economia di un Paese terzo, evitando: la tassazione, l’esatta identificazione quantitativa del valore generato dall’impiego di dati di natura commerciale, la valutazione del reddito prodotto dai nuovi modelli di business, il rispetto delle relative regole di determinazione della fonte e dell’effettivo incasso delle imposte su consumi e sulle forniture transazionali. L’analisi compiuta dalla TFDE ha individuato diverse caratteristiche comuni o key features fiscalmente rilevanti nei modelli di business digitalizzati il cui studio risulta essere propedeutico per fronteggiare tali criticità, quali: la trasferibilità degli asset immateriali, degli utenti e delle attività effettuate nelle imprese grazie a processi di automazione, l’utilizzo dei dati legato alla creazione del valore, la presenza di effetti rete ovvero meccanismi per i quali le decisioni di un soggetto hanno effetto verso i comportamenti altrui, l’impiego di modelli di business multilaterali tramite piattaforme online al fine di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di beni e servizi, l’attitudine verso modelli di monopolio e oligopolio grazie alla presenza dei già richiamati effetti rete, e infine l’assenza di barriere all’ingresso per i nuovi operatori e la presenza di tecnologie con prospettive evolutive sempre maggiori conferiscono volatilità al mercato di riferimento. È compito delle amministrazioni finanziarie per il tramite dei legislatori fiscali andare a circoscrivere tali business digitali, prevalentemente liquidi ed eterei, identificabili con siti internet personali e negozi virtuali volti a gestire e controllare i propri dipendenti/collaboratori ed evitare la cosiddetta presenza tassabile: in questo contesto le normative domestiche e quelle internazionali (convenzione contro le doppie imposizioni) non sono in grado di intervenire su tale fattispecie. Infatti, qualora un gruppo di imprese operasse in un business di un altro paese tramite sito internet questo non configurerebbe come stabile organizzazione eludendo la tassazione. All’interno del panorama riguardante la tassazione9 internazionale dei profitti di impresa, il concetto di stabile organizzazione ha avuto la funzione di segnalatore del livello di interazione economica. In questa circostanza, lo stato della fonte, indipendente dalla residenza e per il quale il reddito soggetto a imposizione (costituito da utili derivanti da proprietà immobiliari, SO e remunerazioni da lavoro dipendente) trae origine da fonti localizzate nella sua giurisdizione, in deroga al principio di residenza, è sufficiente ad innescare il potere impositivo (regola del nesso). In particolare, i profitti dell’impresa di uno stato contraente devono essere tassati solo in tale stato, a meno che l’attività sia svolta nell’altro Stato mediante stabile organizzazione. In generale si definisce stabile organizzazione quella “sede fissa di affari attraverso cui l’impresa conduce, in tutto e in parte la propria attività in un’altra giurisdizione, ovvero nella dimensione personale avvalendosi della funzione di un agente dipendente dall’impresa, che conduce abitualmente contratti per conto di questa nell’altra giurisdizione” (art. 216 TUIR). Essendo il concetto di SO particolarmente articolato, è difficile attribuire gradi di rilevanza ed effettuare giudizi di valutazione per quanto riguarda le funzioni di natura preparatoria-ausiliaria-strumentale al core business di un’impresa non residente: queste, infatti, pur influendo sulla produttività di quest’ultima, non sono direttamente collegate a stabilire un vincolo economico adeguato a derogare al principio di residenza. Le trasformazioni tecnologiche hanno contribuito a sfumare il confine tra ciò che era considerato ausiliare all’attività di impresa e ciò che oggi può risultare centrale e di importanza fondamentale per l’operatività di modelli di business digitalizzati: la rigidità con cui le regole del sistema di tassazione internazionale vengono aggiornate, creano uno stato di incertezza interpretativa mettendo in crisi il corretto funzionamento del concetto di stabile organizzazione. L’OCSE e le amministrazioni fiscali stanno cercando di arrivare all’implementazione di un modello condiviso di tassazione per tassare i giganti del web10 e le loro giurisdizioni: sono infatti cambiati i canoni per “fare” business. In questo senso, negli ultimi anni si è cercato di andare ad allargare il concetto e la definizione di stabile organizzazione e quindi di andare a riscontrare e rilevare una presenza tassabile in maniera più ampia della precedente normativa domestica (modifiche art. 162 TUIR introdotto con la legge di bilancio del 2018, passaggio da casi specifici ad aleatori, a discrezione dell’agenzia delle entrate). Nonostante ciò, un singolo sito internet non rappresenta una stabile organizzazione: anche se un grande operatore(multinazionali)configurasse una stabile organizzazione palese piuttosto che occulta, il fisco può tassare una quantità di reddito in base a funzioni, asset e rischi che la stabile organizzazione svolge in quel mercato (tali componenti risultano comunque limitati in fase di pianificazione ed è quindi difficile quantificare il reddito imputabile). La soluzione sarebbe tassare il giro di affari all’interno di un mercato, prescindendo dalla presenza tassabile (SO), evitando il calcolo dei requirements, misurando su precise soglie i ricavi originati in base ai big data e alle transazioni effettuate, al fine di arginare l’evasione e garantire che i grandi e redditizi gruppi multinazionali, incluse le società digitali, adempiano ai propri obblighi fiscali in qualsiasi luogo in cui queste abbiano significativi vincoli diretti con i consumatori e in base ai loro profitti. Fondamentalmente, il diritto di imposizione sarà determinato da un lato dal volume generato, e dall’altro da un sistema fondato sugli utili residuali del gruppo in cui vengono riallocate le quote di utili nei paesi in cui vengono realizzate le vendite. In riferimento alle economie arretrate dei paesi sottosviluppate, le multinazionali vendono i loro prodotti e servizi non fornendosi di alcuna presenza fisica; in questo caso sarebbe necessario tassare le attività di distribuzione dei prodotti, assumendo una quota minima di guadagno realizzato sul dato mercato. Il criterio, tuttavia, necessita di una rivalutazione da parte dell’OCSE per stabilire la soglia di fatturato e le dimensioni delle multinazionali che fanno applicare la tassazione. In generale quindi, a parità di redditività, le imprese digitali pagano meno tasse rispetto ai business tradizionali. Attualmente, secondo le vigenti normative, un’impresa può essere tassata sui profitti che genera in un determinato paese se questa è fisicamente presente (stabile organizzazione) e non tramite mezzi digitali. Sicuramente tale situazione non risulta equa nei confronti degli altri business: le aziende digitali11 beneficiano infatti degli stessi vantaggi e infrastrutture dei business tradizionali ma non contribuiscono allo stesso modo non pagando la stessa quota fiscale. Ciò si riflette sull’economia reale e in particolare, non pagando le tasse, le imprese digitali si arricchiscono allargando la loro quota di mercato competitiva, creando ulteriore economia sommersa, elevando la pressione fiscale (aumentano i prezzi sopportati per coprire i maggiori costi) a discapito della copertura della spesa pubblica, della modernizzazione, dei finanziamenti verso gli investimenti nei fondi indirizzati all’istruzione, alla sanità ,ai trasporti e, quindi, in generale, al benessere comune, sottraendo risorse di primaria importanza. Allineare tramite modifiche le regole di tassazione internazionale alle problematiche socio economiche per imporre adeguate nuove leggi fiscali e ripristinando condizioni di parità, è uno degli scopi più importanti perseguiti dall’International Monetary Fund (IMF), dalla Commissione europea, dall’OCSE e in generale dai ministri delle finanze, garantendo allo stesso tempo supporto alle spinte innovative e monitorando che imprese piccole e grandi, digitalizzate e tradizionali contribuiscano allo stesso modo verso la società odierna e quindi verso il benessere comune. Tutto ciò al fine di costituire e sviluppare, soprattutto nella situazione attuale in cui lo smart-working è stata una risorsa fondamentale durante la crisi sanitaria, un’economia più digitale (e quindi una digital tax), equa e inclusiva, con l’obiettivo che questa possa essere considerata uno dei punti cardine del piano di rilancio dei Paesi e creare così fiducia e stabilità nel sistema.


1.5. Le tax challenges: (Questioni del nesso, dei dati e della caratterizzazione)

Di conseguenza è possibile affermare che la base imponibile per la fiscalità diretta e indiretta nella digital economy sia di difficile quantificazione. L’OCSE classifica le tax challenges come segue: la questione del nesso, vista come la possibilità di condurre business12 senza la necessità di operare mediante una presenza fisica, evidenzia come l’innovazione sul piano tecnologico non abbia inciso sulla natura delle attività svolte ma ne abbia variato le modalità di svolgimento in quanto grazie alla digitalizzazione vi è stata una riduzione dei requisiti di prossimità territoriali (in passato indispensabili per l’esecuzione di un’attività economica in una giurisdizione); in merito ai dati è stata sottolineata la difficoltà per la quale si attribuisce valore a tali sia da un punto di vista economico che fiscale attraverso la raccolta e l’utilizzo di informazioni personali su scala globale; per quanto riguarda la caratterizzazione, la creazione e lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi digitali vi è il pericolo che vi si possano creare delle aree grigie nella connotazione fiscale dei relativi pagamenti e nella soluzione di cloud computing. L’OECD, il G20 e la TFDE hanno individuato una serie di contromisure presenti nel BEPS report on action 1 del 2015, nella cornice dei principi di Ottawa quali: l’introduzione di nuove regole volte ad ampliare il concetto di nesso tassabile, incentrato sul significato di presenza significativa (PES) per la quasi si ritiene fiscalmente rilevante la presenza di un’impresa non residente quando “sorretta da fattori che indichino un’interazione volontaria e continuativa con l’economia13 (quali redditi conseguiti localmente grazie a servizi digitali e indicatori relativi all’utenza locale) di un’altra giurisdizione anche in assenza dei tradizionali presupposti materiali; l’impiego di una ritenuta alla fonte per alcune tipologie di pagamenti effettuati da soggetti residenti o non residenti per l’acquisto online; e infine l’introduzione di un prelievo di perequazione (imposizione indiretta) finalizzato a ridurre ed eliminare le diversità di trattamento tra imprese residenti e non dotate di PES e creare quindi un sistema di tassazione più omogeneo.


1.6 L’esercizio della sovranità fiscale (substantive and enforcement tax jurisdiction) alla base della progettazione e dell’implementazione della destination-based corporate tax (residence vs source based taxaction)

Gli Stati esercitano la propria sovranità fiscale in virtù di poteri di natura sia territoriale che personale su tutti i tipi di contribuenti (persone fisiche e imprese), garantendone l’oggettività: si determinano quindi da una parte il campo d’azione di ciascuno Stato e dall’altro la qualità coercitiva della pretesa impositiva. Quando tale potere assume una connotazione sovranazionale, si possono definire due distinte situazioni: il potere impositivo può essere applicato sia su soggetti che hanno un legame personale con lo Stato (stabilito dal diritto interno e dall’individuazione della residenza fiscale) ma risultano al di fuori dei confini della giurisdizione nazionale e sia verso coloro che non possiedono un collegamento personale con lo Stato ma operano nel suo territorio. Per quanto concerne l’esercizio del potere impositivo sui soggetti fiscalmente residenti, sussistono due metodi differenti: la tassazione su scala mondiale (world wide taxation14) in cui il prelievo avviene sul reddito complessivo indipendentemente dalla sua origine (tale approccio è di difficile applicazione ed è sostituito da meccanismi ibridi che posticipano il prelievo su redditi di fonte estera al momento in cui questi vengono rimpatriati), e la tassazione su scala territoriale, in cui il potere impositivo è esercitato esclusivamente ai soli redditi che i soggetti percepiscono in virtù di attività svolte all’interno dei confini del territorio nazionale. Da ciò è facile riscontrare come i profitti esteri di un’impresa residente in uno stato potrebbero essere ritenuti imponibili in un’altra giurisdizione che mostri gli stessi vincoli di natura territoriale. In questo senso le giurisdizioni provvedono ad eliminare l’eventuale doppia imposizione riconoscendo al contribuente un’esenzione o comunque un credito d’imposta per il prelievo subito all’estero. In un regime competitivo sulla tassazione, la digital economy15 accentua il problema dell’erosione della base imponibile, offrendo opportunità elusive anche nei confronti e a discapito dell’economia tradizionale: riflesso di tale situazione è che tale competizione ha portato l’aliquota fiscale ad essere vicina allo zero. A causa delle sue peculiarità, riscontrabili secondo prospettive di dematerializzazione delle operazioni e di frammentazione di funzioni economiche asset, rischi, la progettazione fiscale deve fronteggiare diverse avversità quali la ripartizione della base imponibile, l’entità del valore che deve essere soggetto a tassazione e le modalità di prelievo. Le imposte sul valore aggiunto sono imposte interne che colpiscono sia le forniture domestiche, ma anche quelle transfrontaliere: l'imposta deve essere riscossa nella giurisdizione in cui si ritiene che la fornitura abbia luogo. Nel caso di una fornitura transfrontaliera, ciò può essere "all'origine", vale a dire nella giurisdizione del fornitore, o "a destinazione", vale a dire nella giurisdizione del cliente. Si applica pertanto un'imposta all'origine sulle forniture nazionali e le esportazioni, mentre l’imposta basata sulla destinazione viene riscossa sulle importazioni. La scelta della giurisdizione in cui l’imposta è incassata, ha conseguenze economiche e politiche significative, in quanto determina quale giurisdizione benefici delle entrate dall'imposta16 e quale invece abbia diritti fiscali sui consumatori: è essenziale che l'intero valore delle esportazioni siano soggette all'imposta nazionale e che venga concesso un credito per il valore delle importazioni. A livello internazionale, la tassazione diretta si basa sia sul residence che sul source criteria: nel primo caso, le problematiche emergono nel prevenire l’elusione delle imposte sul reddito delle società attraverso modalità in grado di sfruttare meccanismi di transfer pricing e di profit shifting in regimi a tassazione favorevole (paradisi fiscali). Nel secondo caso, le multinazionali digitali17 senza una stabile organizzazione eludono la tassazione sugli utili, a causa della difficile definizione del confine che esiste tra ciò che si produce e ciò che si esporta. Nonostante ciò, nei paesi di destinazione di beni e servizi digitali, gli utenti di piattaforme contribuiscono in maniera attiva o passiva alla creazione di valore e profitti: in tale contesto, le istituzioni nazionali ma soprattutto internazionali sottolineano la necessità di effettuare uno sforzo comune per implementare un sistema armonizzato e coordinato di libera competizione, in contrasto con le decisioni unilaterali dei singoli Stati. Tuttavia, non è stato raggiunto un accordo sulla questione: il termine per la decisione sulle raccomandazioni finali è stato spostato al 2020. In risposta al lento movimento all'interno dell'OCSE, la Commissione europea ha pubblicato due proposte di direttiva correlate:

a) Un'imposta provvisoria del 3% sulle entrate di transazioni digitali di società che onerano oltre 750 milioni di euro di entrate in tutto il mondo e 50 milioni nell'UE e:

(b) Una proposta a lungo termine per l’applicazione dell'obbligo fiscale nei confronti delle stabili organizzazioni, che ne modifica l'attuale requisito. Ciò comporterebbe responsabilità fiscale se una società ha, ad esempio, un predeterminato numero di utenti o volume delle vendite in una giurisdizione dell'UE.


1.7. La DST

In questa prospettiva viene implementata una tassa sui servizi digitali (DST) che viene applicata verso larghi gruppi di multinazionali ad un determinato turnover di fatturato (almeno 750 milioni), a ricavi provenienti dal mercato europeo di almeno 50 milioni e un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali conseguiti nel territorio dello Stato non inferiore a 5,5 milioni di euro: il gettito fiscale è comunque assegnato a ciascun stato membro in base alla quota nazionale degli utenti digitali globali. La DST, proposta dalla Commissione Europe18a e operativa dal 1° gennaio 2020 con modifiche e integrazioni approvate dalla legge di bilancio del governo Gentiloni, ha l’obiettivo di incrementare il livello di prelievo sui servizi digitali in quanto sottotassati: questa consiste in un’aliquota del 3% sull’ammontare dei ricavi tassabili conseguiti nel corso dell’anno solare e comporta una triangolazione tra le autorità di tassazione nazionale, le negoziazioni tra aziende contribuenti che forniscono servizi e i clienti che li acquistano, e gli utenti digitali che forniscono dati e informazioni. Tale framework costituisce l’origine del valore aggiunto (creazione di valore) e ha la funzione di essere visto come riferimento della ripartizione del gettito fiscale tra i paesi membri dell’UE. L’imposta viene applicata sui ricavi realizzati nell’anno solare: si prevede un versamento dell’imposta entro il 16 febbraio dell’anno solare successivo a quello di riferimento, e una dichiarazione annuale presentata dalle imprese interessate sull’ammontare dei servizi tassabili forniti entro il 31 marzo dello stesso anno. Per le società che fanno parte di uno stesso gruppo è nominata una singola società che deve adempiere agli obblighi derivanti dalle delibere corrispondenti all’imposta sui servizi digitali. La Digital Services Tax ha le caratteristiche di un’accisa sui servizi digitali, data la sua applicazione concentrata su determinati operatori (utenti acquirenti), la sua natura indiretta, la dimensione monofase della sua attuazione e la determinazione della base imponibile.19 Più di facile impiego, da un punto di vista qualitativo, è invece il tema attinente alla territorialità, che reca con sé gli inevitabili profili riguardanti la compliance specifica dell’imposta. Se la Digital Services Tax ha trovato la sua giustificazione nel tentativo di contrastare efficacemente forme di erosione della base imponibile al fine di riallineare il potere di imposizione con il luogo di creazione del valore dei servizi in circolazione attraverso la rete, è però altrettanto vero che una volta redistribuito all’interno dell’Unione il gettito del tributo, il passaggio successivo impone una sua suddivisione (un apportionment) fra i diversi stati, in ragione della presenza sul territorio dell’uno o dell’altro di quegli stessi produttori-consumatori che concorrono alla catena del valore del servizio erogato. La Commissione in questo contesto ha adottato l’unica soluzione tecnicamente possibile: da Bruxelles, infatti, è giunta la proposta di considerare come elemento idoneo alla localizzazione del destinatario di beni o servizi (Pro-sumer) e conseguentemente fattore di rilievo nell’ allocazione del gettito del tributo fra stati, l’indirizzo IP (Internet Protocol)20 di accesso alla rete. Questo parametro sarebbe inteso come proxy adeguata all’individuazione dell’effettiva residenza dell’individuo (customer location proxy): il riferimento all’accesso e all’IP dell’utenza rimane pur sempre un parametro oggettivo, che permetterebbe un alleggerimento significativo degli oneri nei confronti degli operatori economici, e consentirebbe anche un miglior utilizzo del MOSS.


1.8. La destination based corporate tax on cash flow e la distinzione tra “enforcement and substantive jurisdiction”

L’attuale sistema di tassazione internazionale basato sui criteri di residenza e origine non risulta adatto a fronteggiare l’avanzata della digitalizzazione e, in generale, della globalizzazione del mondo economico. A tal proposito, la destination based cash flow tax secondo è stata proposta come valida alternativa per tassare le organizzazioni in uno scenario di regolamentazione internazionale: bisogna focalizzare la propria attenzione su un’ottica in cui tutti i paesi tendono a cooperare per implementare tale sistema e conseguentemente massimizzare il benessere sociale collettivo. Per valutare ciò dobbiamo disporre di due criteri: il primo riguarda la capacità di identificare una location in grado di limitare: le distorsioni dei comportamenti degli operatori economici, l’utilizzo improprio di asset e non alterare il livello competitivo all’interno dello stesso mercato; il secondo riguarda la possibilità di localizzare un territorio(stato) che abbia la facoltà(sovranità) di tassare una giurisdizione. Si distinguono a tal fine la prospettiva sostanziale (substantive jurisdiction) che giustifica la legittimazione dello stato a pretendere la riscossione dell’imposta mentre la seconda, in un’ottica più operativa e pratica (enforcement jurisdiction) connessa all’abilità dello stato di riscuotere le tasse, attuando la politica fiscale in base a mezzi legali e meccanismi concreti che ha a disposizione. La chiave per individuare una location appropriata e volta a minimizzare le distorsioni economiche risiede nell’identificare la mobilità dei differenti fattori presenti nell’attività economica e che generano profitti: la possibilità di operare su diversi mercati costituisce un vantaggio competitivo difficilmente tracciabile ed è quindi importante chiedersi da dove derivino tali utili. Non tutte le attività sono equamente mobili: per esempio gli shareholders e i clienti di aziende multinazionali non hanno l’incentivo a cambiare il loro posto di residenza, contrariamente alle imprese che localizzano le loro attività (e quindi anche i loro profitti) in giurisdizioni a basso potere impositivo. È quindi importante notare come il prelievo della destination based tax non avvenga nella location in cui il bene-servizio viene consumato, ma piuttosto nel posto dove l’attività rilevante risulta essere fissa: questa non provoca distorsioni riguardanti gli investimenti finanziari, il pricing, né influenza o condiziona il processo decisionale delle multinazionali. Le caratteristiche principali della DBT riguardano l’inclusione di afflussi finanziari netti nel calcolo della base imponibile e l’applicazione di un tasso di interesse nullo per quanto riguarda le esportazioni (presente invece nelle importazioni). Quest’ultima proprietà costituisce la caratteristica principale per l’applicazione dell’IVA: i ricavi provenienti da un’esportazione sono tassati nella giurisdizione nella quale il cliente acquista il bene o servizio piuttosto che dove questo è prodotto. Lo Stato, attraverso deduzioni per le spese, diventa azionista e promotore di tale tassa, contribuendo a condividere e quindi a spalmare tutti i costi e oneri al fine di raccogliere la stessa percentuale di profitti: le spese, quindi, ricevono sgravi fiscali nei luoghi in cui vengono sostenute. Ciò potrebbe indurre le imprese a localizzare le spese in posti ad elevata tassazione: in realtà non è così poiché l’onere fiscale21 sui beni domestici o importati è compensato in ugual misura: il prezzo è innalzato dalle tasse sostenute e non vi è quindi distorsione tra beni di provenienza locale e quelli importati. L’applicazione e il funzionamento di questa imposta dipendono quindi dalla determinazione della giurisdizione utilizzata. L’altra fondamentale caratteristica da analizzare è la base imponibile e gli elementi che la costituiscono: trattandosi di una cash flow tax questa trova applicazione sulle rendite economiche che traggono profitto oltre la soglia minima del tasso di rendimento richiesto e risulta essere composta da prestiti e tassi di interesse attivi ricevuti che vengono aggiunti alla base imponibile, mentre rimborsi e tassi passivi sono deducibili: tutto ciò ha l’effetto di provocare un effetto netto che consiste nel tassare gli istituti di credito che ricevono un tasso di rendimento positivo dagli investimenti effettuati. Essa costituisce quindi un sistema di tassazione per le imprese che si basa solamente sul flusso di cassa in entrata e che non grava più sul reddito: sostanzialmente si paga un'aliquota fissa indipendentemente dalle prospettive di guadagno. Vengono evitati quindi il calcolo di deduzioni, elusioni e profit shifting nei paradisi fiscali. Tuttavia, l’elemento-scopo della tassa di destinazione è quello di essere applicata a tutti i modelli di business attraverso una soglia simile a quella IVA con il pericolo che questa potrebbe far incorrere in una doppia tassazione riguardo i soggetti non costituiti in società per i quali è applicabile, in aggiunta, la personal income.


1.9. Il problema della doppia imposizione: l’economic allegiance (Musgrave, tassazione come metodo di distribuzione del reddito, equità internazionale), il concetto di stabile organizzazione e l’action VAT plan, Vat Package

Poiché le principali società digitali sono imprese multinazionali, la discussione sulla fiscalità digitale ha portato alla necessità di un accordo internazionale per modificare le norme attuali, evidentemente inadatte a regolare lo scenario che si sta evolvendo. Senza un accordo multilaterale, è probabile che la natura duale della sovranità possa dare input a singole, concorrenti e contrastanti politiche nazionali sul prelievo dei medesimi redditi all’interno di due o più giurisdizioni producendo forme di doppia imposizione: ciò avrebbe un effetto negativo per lo sviluppo delle relazioni economiche transazionali. Per evitare tale situazione, gli Stati coordinano il loro potere impositivo nel panorama del diritto internazionale, concordando e stipulando accordi e convenzioni fiscali. I modelli attualmente più rilevanti sono quelli predisposti dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e quello elaborato dalle Nazioni Unite. Sebbene esistano differenze sostanziali tra i due modelli, questi poggiano la loro ideologia su uno schema definito dalla società delle nazioni (League of Nations) all’inizio degli anni 20 del secolo scorso: in un periodo di crescita esponenziale degli scambi transfrontalieri, il problema della doppia imposizione divenne un tema centrale da analizzare per individuare principi e strumenti atti a prevenirlo. Il gruppo di economisti presentò il proprio rapporto nel 1923, basandosi sulla teoria dell’“economic allegiance” definita come la soluzione ideale per una ripartizione dei poteri impositivi tra i diversi Stati (Confindustria (giugno 2019), Osservazioni e proposte:” Principi fiscali internazionali e digitalizzazione dell’economia, osservazioni per un’equa fiscalità”). Tale teoria aveva fondamento principalmente su relazioni di tipo politico (fedeltà economica) tra contribuente e Stato, in grado di dare risposta verso le criticità legate alle teorie dello scambio (costi e benefici) al fine di proporre e garantire un livello di applicazione del prelievo impositivo in funzione della capacità contributiva complessiva dei soggetti (ability to pay). Il dovere contributivo di uno Stato attiene a quattro fasi: creazione, localizzazione, tutela e fruizione della ricchezza. Propedeutiche e di rilevanza fondamentale ai fini fiscali sono considerate le fasi relative alla creazione e alla fruizione del valore ma tutte e quattro contribuiscono a creare uno scenario di ripartizione del potere impositivo basato sul principio della fonte (creazione del reddito) e su quello di residenza (fruizione del reddito). I profitti di impresa22 erano quindi inquadrati secondo diverse prospettive e in riferimento alle tipologie di attività economiche svolte (legate al territorio e commerciali), finalizzate ad avere una manifestazione essenzialmente fisica del valore: queste riguardavano le attività immobiliari, imprenditoriali, mobiliari, tangibili, localizzabili e non, finanziarie e professionali. Rispetto a tali categorie, una quota significativa in cui il potere impositivo risulta suddiviso è affidata al principio di origine, in grado di causare una distorsione minore in confronto al principio di residenza. Per quanto riguarda le modalità per evitare la doppia tassazione, il gruppo elaborò un modello caratterizzato da una reciproca esenzione dei redditi destinati all’estero: con tale approccio le giurisdizioni alla fonte sarebbero state dispensate dal tassare23 redditi creati nel loro territorio ma fruibili altrove. Ciò generò da una parte diversi benefici in termini di afflussi di capitali esteri e sviluppo delle regioni più arretrate, mentre dall’altro punto di vista tale idea venne considerata come un tentativo di favorire sul piano tributario i paesi più sviluppati, per la presenza maggiore di imprese e contribuenti residenti, a discapito dei paesi sotto sviluppati fornitori di materie prime e che quindi risultavano esclusi nei processi di creazione e fruizione della ricchezza: si è quindi creata una spaccatura collegata alla duplice natura della sovranità per la quale i paesi in via di sviluppo sono favorevoli ad una tassazione alla fonte, mentre le giurisdizioni più sviluppate ed esportatrici sostengono il principio di residenza. Da questo discorso è possibile ravvisare come l’equità sia necessaria come regola e principio per stabilire la giurisdizione fiscale. In passato, la teoria neo-classica dell’allocazione ottimale delle risorse (“pareto - efficiente”) affermava che la collettività (lo Stato), qualora fosse inappagato di tale distribuzione e in base alla propria funzione e concezione del benessere sociale poteva modificarla: tutto ciò in un’ottica indipendente dal concetto di equità e ridistribuzione delle ricchezze, in modo da non interferire con i processi dei liberi e perfetti mercati concorrenziali (arm’s lenght principle), Tale redistribuzione deve avvenire attraverso interventi di tassazione e trasferimento in somma fissa, ed, a livello personale, attraverso imposte patrimoniali e trasferimenti ereditari, e non con imposte progressive sul reddito che presumibilmente distorcerebbero gli incentivi del mercato alle scelte “efficienti” degli operatori economici. In quest’ottica Musgrave inquadra l’equità all’interno degli obiettivi della politica economica (tripartizione di Musgrave: efficienza24 equità e stabilità con riguardo all’importanza dello Stato nella politica di bilancio e nelle funzioni di allocazione, distribuzione e stabilizzazione) e la analizza sotto due dimensioni: dal punto di vista prettamente giuridico e con riferimento alla nozione dell’equità tra nazioni: L’obiettivo dell’equità riguarda la distribuzione del reddito e della ricchezza desiderabile dal punto di vista sociale, in prospettiva futura. Secondo il profilo giuridico, Musgrave legittima e giustifica l’utilizzo della source based taxation e, con riguardo al principio dei benefici, supporta di conseguenza l’implementazione di una destination based taxation. I paesi, infatti, dovrebbero essere autorizzati a tassare i profitti generati all’interno dei propri confini sia per il principio di territorialità subordinato alla legge internazionale, che definisce tali come il luogo in cui l’attività si origina e genera reddito, che per una prospettiva in cui i paesi nei quali i consumatori risiedono e forniscono servizi sono complementari all’utilizzo degli stessi. In base alla seconda dimensione (equità tra nazioni), ad ogni stato dovrebbe essere allocata una quota di base imponibile per le transazioni oltre confine. L’ articolo del 1972 riflette la visione considerata da Peggy Musgrave sulla fattibilità di un accordo multi-giurisdizionale. L'equità internazionale è definita come l’applicazione di quote fiscali uguali da parte dei paesi di origine su ricavi maturati, approccio finalizzato all'integrazione delle imposte sul reddito delle persone fisiche e delle società. Egli inoltre bilancia gli obiettivi dell'equità internazionale con la capacità delle singole nazioni di scegliere le aliquote fiscali sui profitti nazionali sostenendo l'applicazione dello standard internazionale sulle rimesse, lasciando gli utili non distribuiti ad essere soggetti alla tassazione attraverso aliquota nazionale. La residenza del contribuente e la fonte del reddito costituiscono le due basi su cui si fonda il sistema fiscale di ogni Stato. La residenza fiscale25 è il presupposto per il calcolo delle imposte che ciascun soggetto, sia persona giuridica sia persona fisica, è obbligato a corrispondere all’Amministrazione finanziaria. Il principio per la tassazione dei redditi ovunque prodotti opera per i soggetti giuridici residenti nel territorio dello Stato, per i quali vengono tassati anche i redditi prodotti all’estero, mentre la tassazione, per i soggetti non residenti, grava solo sui redditi prodotti nel territorio dello Stato. Le ragioni di questa scelta legislativa si basano sulla volontà di tassare tutti i redditi prodotti dai residenti, essendo questa manifestazione di ricchezza, e per i non residenti tassare solo quelli prodotti all’interno dei confini nazionali. Sebbene l’OCSE si sia espressa in maniera abbastanza specifica fornendo una definizione dettagliata di tale concetto, si riscontrano ancora problemi interpretativi riconducibili a situazioni particolari nelle quali si tenta di valutare se il soggetto non residente, operi tramite una stabile organizzazione o meno. La difficoltà risiede nell’insufficienza normativa, in quanto è impossibile riuscire a regolare e a prevedere innumerevoli situazioni reali e diverse tra loro, attraverso una disciplina di portata generale e non specifica che sia in armonia con le leggi nazionali e i principi comunitari. Parte del problema è indubbiamente dovuta all’introduzione di nuovi sistemi informatici quasi del tutto autosufficienti, in grado di gestire intere attività economiche con minimi interventi umani. Come già detto, le multinazionali della digital economy26 riescono a svolgere le loro funzioni sul territorio di uno Stato, non palesando la presenza di una stabile organizzazione e riuscendo comunque ad eludere la tassazione diretta sui profitti registrati nei Paesi in cui non hanno una presenza fisica. Infatti, operando online, le digital companies vendono i loro prodotti e servizi tramite la rete attraverso transazioni dematerializzate o concludono contratti tramite agenti indipendenti, non configurando quindi un vincolo con un determinato territorio e potendosi considerare imprese a-spaziali. L’OCSE, a tal proposito, ha pubblicato una policy note in cui i paesi partecipanti all’Inclusive Framework hanno avanzato diversi pareri suddivisi in due pilastri. Nel primo pilastro è discusso l’ampliamento della potestà impositiva delle giurisdizioni del mercato: la cosiddetta proposta sulla “presenza economica significativa”. Questa porterebbe infatti all’individuazione di una presenza fiscalmente rilevante in una giurisdizione sulla base dell’intenzionalità e della continuità dell’interazione economica, valutata su parametri economico quantitativi e tecnologico fattuali, tra l’impresa non residente e la giurisdizione stessa. Tale iniziativa ha suggerito l’utilizzo di metodi di allocazione frazionata dei profitti dell’impresa: vengono definiti l’imponibile oggetto di suddivisione, il tasso di profitto globale dell’impresa multinazionale applicato ai ricavi generati in un determinato stato e sono scelti dei criteri per le modalità di ripartizione e il calcolo dei relativi pesi con riferimento alle vendite, asset, personale e utenti. È stato infine evidenziato che tali meccanismi siano consolidate con procedure specifiche quali sistemi di ritenuta alla fonte e ad aliquota contenuta sui pagamenti lordi indirizzate alle imprese fornite di una PES nello Stato. Gli sforzi interpretativi dell’OCSE, non si sono limitati all’adeguamento dei criteri di identificazione dell’istituto della stabile organizzazione, ma hanno riguardato anche i criteri di attribuzione dei profitti alla stabile organizzazione. Lo studio dell’OCSE in merito prende avvio nel 2001, con la pubblicazione del documento “Discussion draft on the attribution of profits to permanent establishment”, avente l’obiettivo di fornire l’interpretazione dell’art. 7 del Modello OCSE, relativamente ai criteri di determinazione del reddito attribuibile alla stabile organizzazione. In termini generali, tale documento rileva, in primo luogo, come i Paesi dell’OCSE adottino due diversi approcci per identificare gli utili attribuibili alla stabile organizzazione:

  • il c.d. relevant business activity approach, secondo cui la stabile organizzazione sarebbe illimitatamente legata alla società nel suo complesso, nel senso che il massimo ammontare degli utili imputabili alla sede fissa d’affari riferibili alla stessa sono unicamente quelli conseguenti alla specifica attività a cui è investita. Tale base è costituita dai profitti complessivi che l’impresa trae dalla relevant activity nelle transazioni di mercato con imprese terze: tale criterio determina, dunque, l’inconsistenza, a fini reddituali, dei legami tra impresa madre e stabile organizzazione;

  • il c.d. functionally separate entity approach, per il quale sarebbero imputati alla stabile organizzazione gli utili che la stessa realizzerebbe se fosse considerata come una società separata ed indipendente, e quindi in un contesto di libera concorrenza. In questo caso, l’attribuzione dei profitti è presente nel momento della realizzazione della transazione imputabile alla sede fissa d’affari: sono dunque importanti ai fini fiscali anche le operazioni intercorse tra casa madre e stabile organizzazione.

Tra i due approcci descritti, quest’ultimo risulta essere il più appropriato per consentire una corretta applicazione del c.d. “arm’s length principle”, ossia del principio di c.d. “libera concorrenza”, fissato dall’art. 9 del Modello OCSE.


2. Il progetto BEPS per affrontare le sfide fiscali della digital economy e i nuovi sviluppi dettati dal G20 all'OCSE (coinvolgimento su piano paritetico del maggior numero dei paesi membri, interim conclusion)

Il 2007 è ricordato da tutti gli economisti come l’anno della crisi finanziaria e della conseguente recessione globale. Una crisi finanziaria si verifica quando una perturbazione di forte intensità impatta sui flussi informativi all’interno dei sistemi finanziari, generando le seguenti problematiche: un aumento delle frizioni finanziarie e degli spread creditizi che impediscono un corretto funzionamento del mercato dei risparmi e degli investimenti, la difficoltà di incanalare fondi verso operatori che dispongono di opportunità di investimento produttivo (trasferimento di risorse da soggetti in surplus verso quelli in deficit), e una inevitabile contrazione per quanto riguarda l’attività economica e il settore in generale. La dinamica di una crisi finanziaria è possibile suddividerla in tre fasi: una prima fase di “boom and bust del credito” incentrata su un incremento di liquidità in grado di provocare un aumento generale dei prezzi delle attività finanziarie e reali(la cosiddetta bolla dei prezzi e l’allontanamento dai loro valori fondamentali) le cui cause possono essere riscontrate principalmente: dall’effetto dell’innovazione finanziaria, positiva nel lungo periodo ma difficilmente governabile nel breve che ha consentito rispettivamente l’espansione dell’attività di credito, la possibilità di erogare nuovi finanziamenti e di effettuare operazioni di leveraging anche grazie all’effetto safety net che garantisce la presenza di assicurazione sui depositi e disincentiva i risparmiatori a controllare le scelte di investimento (cresce il risk taking); la seconda fase di crisi bancaria nella quale le banche, a seguito delle perdite su crediti, riducono i finanziamenti all’economia (deleveraging) per ridurre l’esposizione ai rischi e vendono le proprie attività in maniera forzata e a sconto (fire sale): l’aumento dell’incertezza causa quindi il credit crunch o stretta creditizia, le banche diventano più rischiose poiché con meno capitale e pochi fondi e alcune importanti istituzioni finanziarie falliscono, si verifica la corsa agli sportelli (bank run); e infine la terza fase di deflazione del debito, in cui il peso dell’indebitamento diventa insostenibile, comportando effetti negativi nei riguardi dell’attività creditizia, per la spesa di investimenti e complessivamente per l’attività economica aggregata. Le condizioni di tale crisi sistemica sono riconducibili ad un eccesso di leva finanziaria e quindi della disponibilità di debito a tassi bassi, dall’asimmetria informativa tra i diversi operatori (investitori-risparmiatori) che hanno causato fenomeni di selezione avversa, condizione precontrattuale con cui venivano scelti i clienti da finanziare(screening) indipendentemente dal rischio di credito e dai parametri di merito creditizio per cui l’intermediario non è in grado di prezzare il rischio della controparte che ha di fronte: le banche selezionavano i peggiori prenditori poiché i debitori potenzialmente più soggetti a insolvenza sono quelli più attivi nella ricerca di prestiti; e di azzardo morale(situazione post contrattuale per la quale i debitori intraprendono attività indesiderabili dal punto di vista del creditore); dalla creazione di processi di cartolarizzazione o securization (forme di innovazione finanziaria) che consistevano principalmente in tecniche di finanziamento in grado di smobilizzare attività poco liquide a fronte dell’emissione di titoli negoziabili sul mercato (titoli con sottostante rappresentato da mutui ipotecari rischiosi o mutui subprime), al fine di ottenere liquidità per ricomporre la struttura del potafoglio: cambia quindi la modalità di fare business per l’impresa, si passa da un modello di origin to hold ad uno di origin to distribut. Si tratta di una crisi sistemica in cui le tematiche micro e macroeconomiche sono strettamente connesse: banche, imprese e stati si autoalimentano poiché le variabili che incidono su una componente, incidono anche sulle altre; qualsiasi manovra che lo stato, le imprese o le banche effettuano, influenzano tutti i soggetti e in casi di estremo stress, si verifica il default di tutto il sistema. I fattori tecnologici, la deregolamentazione, l’integrazione dei mercati, la globalizzazione dei rischi, l’automatizzazione del processo di leveradge e la disintermediazione possono essere considerati come i pilastri e le cause principali della crisi. In tale contesto, i governi degli stati membri hanno intrapreso un percorso di consolidamento dei bilanci pubblici con una conseguente ricerca di fonti ulteriori di gettito. Ciò ha comportato ad un maggior ed equo contributo (fair share) verso alcune categorie di soggetti considerati responsabili di tale dissesto economico o beneficiari del processo di globalizzazione. Per attuare tale progetto fiscale è necessario focalizzare l’attenzione sul ruolo dei paradisi fiscali e sulla pianificazione di politiche fiscali aggressive delle imprese, in grado di sfruttare gap, disallineamenti del sistema internazionale e l’erosione delle diverse basi imponibili. Nel 2012 i leader del G20 hanno dato appoggio all’OCSE per un’azione di studio di tali fenomeni di “Base Erosione and Profit Shifting” (BEPS)27 e nel 2013 venne attuato un articolato piano d’azione che ha individuato 15 aree di intervento (sfide per l’economia digitale) per dotare i Paesi con strumenti domestici e internazionali finalizzati a riallineare il potere impositivo con la reale attività economica svolta dalle imprese. Raggiunti i primi risultati politici, il G20 ne ha incoraggiato l’implementazione, invitando l’OCSE a coinvolgere su piano paritetico un maggior numero di Paesi. In questo senso, nel giugno 2016 è stato “l’inclusive frame work on BEPS” al quale hanno aderito oltre 110 giurisdizioni interessate a proseguire l’attuazione di tale progetto ed è stato rinnovato il mandato della Task Force on Digital economy, di supporto agli Stati partecipanti per gli aspetti relativi alla policy, legali, amministrativi e tecnici, con l’obiettivo di elaborare un rapporto conclusivo sull’economia digitale entro il 2020, tenendo conto dei continui sviluppi della tecnologia, delle misure unilaterali dei singoli paesi e dell’impatto del progetto BEPS sull’economia internazionale.



1 Si veda M. Ali Abbas., A. Bedi, Klemm, S. Park, J. January “A partial race to the bottom, corporate tax development in emerging and developing economies”, IMF, Working Paper 2012, pp. 12-20.

2 Si faccia riferimento a A. Appleby, W. Hellerstein, “Substantive and Enforcement Jurisdiction in a Post-WayfairWorld” , University Law of Georgia, 2018 pp 13-18.

3 Si faccia riferimento a N. AHMAD, J RIBARSKY. “Towards a Framework for Measuring the Digital Economy”, U.S. Bureau of Economic Analysis 19-21 september 2018, pp. 8-12.

4 Si veda S. Boffano e R. Cabazzi, “Competizione fiscale europea versus giustizia distributiva: un dilemma sempre più attuale” DPCE 2017, p. 483.

5 Si veda C. CORRADO e B. VAN ARK., The Internet and productivity, Edward Elgar Publishing, 2016.

6 L. Bellavite., D. Morabit.” La nuova imposta sui servizi digitali”, KPMG 6 febbraio 2020 pp.14-35.

7 O. SHY “A Short Survey of Network Economics”, Review of Industrial Organization, 2011 pp. 36-49.

8 Si veda G. ZUCMAN, Se l’elusione fiscale “inquina” la democrazia, Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018, pag. 19.

9 E. Bonini, “Moscovici: Uber e Airbnb pongono la questione della tassazione dei nuovi business-model”, Eu news 1° febbraio 2017, pp. 20-45.

10 B. Bonini, G. Galli, “La web tax italiana: prospettive e problemi” CPI 25 gennaio 2020, pp. 23-35.

11 R. Bukht., R. Heeks.,” Defining, Conceptualising and Measuring the Digital Economy”, Economic e Social Research Council, 2017, pp. 17-29.

12 P. PISTONE, “Blueprints for a New PE Nexus to Tax Business Income in the Era of the Digital Economy”, WU International Taxation Research Paper Series, n. 15/2015, pp. 5-9.

13 M. PEITZ e J. WALDFOGEL, The Oxford handbook of the digital economy, Oxford University Press, 2012 pp. 14-27.

14 E. PADOVANI, Web tax: quadro del dibattito internazionale e possibili scenari, Corriere Tributario, n. 4 del 2018, pp 23-49.

15 Si faccia riferimento a L. Carpentieri, S. Micossi, P. Parascandolo, “Tassazione d’impresa ed economia digitale”, Assonime (Associazione fra le società per azioni) giugno 2019, pp. 32-47.

16 Direttiva 98/34 Ce in modifica della 98/48 Ce.

17 M. OLBERT, C. SPENGEL, “International Taxation in the Digital Economy: Challenge Accepted?”, World Tax Journal, 2017 pp.7-28.

18 Direttiva 2006/123/Ce, Direttiva 2000/31/Ce.

19 Si faccia riferimento a A. DELLA ROVERE, F. PECORARI. Verso una base imponibile comune consolidata per le imprese UE, “Il fisco” n. 18 del 2018 pp.2-8.

20 C.CORRADO e B. VAN ARK, The Internet and productivity, Edward Elgar Publishing, 2016 pp. 54-67.

21 Si veda CNEL, ‘’Principi fiscali internazionali e digitalizzazione dell’economia: osservazioni per un’equa fiscalità” Osservazioni e proposte, Confindustria 25 settembre 2019.

22 Codice civile art. 2082.

23 M Deverereux, R. De la Feria, “Designing and implementing a destination based corporate tax” Oxford University Center for Business Taxation Working Paper n. 1407, 2014, pag 2,9.

24 H. KIND, M. KOETHENBUERGER, G. SCHJELDERUP “Efficiency enhancing taxation in twosided markets”, Journal of Public Economics, 2008 pp. 15-28.

25 Confindustria,” Osservazioni e proposte: Principi fiscali internazionali e digitalizzazione dell’economia, osservazioni per un’equa fiscalità” giugno 2019 pag. 5,6,9,17,22,32.

26 Si veda G. PALUMBO, Prospettive di una nuova tassazione dell’economia digitale, Il Fisco, Milano, n. 44 del 2017 pag. 1-42.

27 SERVIZIO DEL BILANCIO DEL SENATO, Il Progetto Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), Senato della Repubblica, Roma, 2015 pp. 25-48.