Logo IeD
  • Archivio
  • 2020
  • Pubblicazione 4 - 2020
  • Il caso Uber: La Sharing Economy tra Common Law e Civil Law e la Corte di giustizia europea (The Uber case: The Sharing Economy between Common Law and Civil Law and the European Court of Justice)

Il caso Uber: La Sharing Economy tra Common Law e Civil Law e la Corte di giustizia europea (The Uber case: The Sharing Economy between Common Law and Civil Law and the European Court of Justice)

Scritto da Emanuela Di Rauso • dic 2020

Sintesi

Il caso Uber ci fa capire il rapporto sussistente fra diritto, mercato e tecnologia, rappresentando un concetto dell’obsolescenza delle regole giuridiche rispetto all’evoluzione dei mercati e della tecnologia. Il mercato è in grado di evidenziare carenze e inadeguatezze della regolazione. Ed è il diritto che ha il compito di colmare tali lacune e risolvere dette debolezze. Anche la tecnologia, come il mercato, è strettamente correlata al diritto. Un rapporto messo in chiaro dalla Sharing Economy detta anche economia della condivisione o collaborativa. È molto importante analizzare i problemi della Sharing Economy riguardanti l’Uber. Ciò per almeno tre ordini di ragioni: Perché il gruppo Uber rappresenta il più rilevante operatore economico riconducibile alla Sharing Economy; Per la peculiarità del terreno di competizione in cui la stessa impresa opera, rappresentando la mobilità urbana non di linea un mercato dovunque regolato; In quanto il suo ingresso nel mercato ha sollevato, pressoché ovunque, problematiche giuridiche attinenti alla natura dei servizi resi e al rispetto delle regole già applicabili ai vettori tradizionali La Sharing Economy “à la Uber” racchiude: apps, communities, algoritmi e meccanismi di feedback. L’economia collaborativa o della condivisione, presenta una forte connotazione tecnologica, trattandosi, come già rilevato, di un sistema economico nel quale beni e servizi sono condivisi fra privati «tipicamente attraverso internet». L’accesso temporaneo a beni e servizi avviene attraverso internet. L’intermediazione fra domanda e offerta di beni e servizi opera mediante internet. L’incontro (fisico o virtuale che sia) fra i privati e, dunque, la condivisione di beni e servizi avvengono, anch’essi, in quanto esiste internet. E gli operatori economici della share condividono naturalmente questa connotazione. Uber, fornisce una app agli utenti; crea una community; individua le preferenze degli iscritti e conforma le proprie azioni in base ad esse, determinando i prezzi; presenta meccanismi reputazionali che consentono ai suoi iscritti di valutarsi reciprocamente e stimare la credibilità di ciascun membro all’interno della comunità. Questo modello, fortemente innovativo, è molto diverso rispetto alle modalità con cui i servizi di mobilità urbana non di linea vengono tradizionalmente erogati. E questa diversità, unita certamente agli interessi economici propri di ciascuna categoria, rende sempre più distanti le categorie professionali tradizionali dal nuovo gruppo economico, mondi, questi, che appaiono ad oggi inconciliabili e del tutto incapaci di comunicare. Il diritto statunitense merita, in relazione al caso Uber, un riguardo particolare.

Abstract

The Uber case makes us understand the relationship between law, market, and technology, representing a concept of the obsolescence of legal rules with respect to the evolution of markets and technology. The market is capable of highlighting shortcomings and inadequacies of regulation. And it is the law that has the task of filling these gaps and resolving these weaknesses. Technology, like the market, is also closely related to law. A relationship made clear by the Sharing Economy, also known as the sharing or collaborative economy. It is very important to analyze the problems of the Sharing Economy regarding Uber. This is for at least three orders of reasons:. Because the Uber group represents the most relevant economic operator ascribable to the Sharing Economy;. Because of the peculiarity of the competitive terrain in which the company itself operates, representing non-scheduled urban mobility as a regulated market everywhere;. Because its entry into the market has raised, almost everywhere, legal issues relating to the nature of the services provided and compliance with the rules already applicable to traditional carriers. The Sharing Economy "à la Uber" encompasses apps, communities, algorithms, and feedback mechanisms. The collaborative or Sharing Economy has a strong technological connotation, since, as already noted, it is an economic system in which goods and services are shared between private individuals "typically via the internet". Temporary access to goods and services takes place via the internet. The intermediation between demand and offer of goods and services operates through internet. The encounter (physical or virtual that is) between the private ones and, therefore, the sharing of goods and services happens, also they, in how much exists Internet. And the economic operators of the share naturally share this connotation. Uber provides an app to users; it creates a community; it identifies the preferences of its members and conforms its actions to them, determining prices; it has reputational mechanisms that allow its members to evaluate each other and assess the credibility of each member within the community. This highly innovative model is very different from the way in which non-scheduled urban mobility services are traditionally provided. And this diversity, certainly combined with the economic interests of each category, makes the traditional professional categories increasingly distant from the new economic grouping, worlds that appear, to date, to be irreconcilable and totally incapable of communicating. U.S. law deserves particular attention in relation to the Uber case.

Contenuto

1. Premessa

Nella società della rivoluzione digitale, essere connessi a Internet appare come un’esigenza fondamentale: dall’acquisizione di informazioni e conoscenze, all’accesso a beni e servizi, fino all’esercizio di alcuni diritti di cittadinanza, la rete rappresenta uno strumento ormai indispensabile. Essere esclusi dal suo utilizzo può determinare situazioni di marginalità simili a quelle legate, in passato, all’impossibilità di fruire di determinate prestazioni. Si pensi ad esempio al servizio postale, o ai trasporti: là dove fino a epoche recenti si riteneva indispensabile consentire a ciascuno il diritto di spostarsi e necessario fornire i mezzi per soddisfare questo bisogno, oggi quest’esigenza può essere considerata sostituibile con quella dell’accesso a una connessione internet, che evita la necessità di muoversi fisicamente, consentendo tuttavia lo svolgimento della medesima attività. La necessità di garantire una connessione a Internet veloce, affidabile, sicura è ancor più sentita nel contesto di rapida evoluzione che alcuni servizi hanno conosciuto negli ultimi anni, nella transizione verso la c.d. Sharing Economy o economia della condivisione.1 Essa, infatti, si basa su piattaforme digitali che consentono di mettere in relazione tra loro utenti e fornitori di servizi. Innovando le modalità di fruizione di alcune prestazioni si pensi, per esempio, alla ricerca di un alloggio tramite Airbnb rispetto al tradizionale settore alberghiero, il digitale richiede, quindi, un’evoluzione del quadro regolatorio che caratterizza alcuni comparti, oltre a mettere in discussione alcune categorie giuridiche apparentemente consolidate. Nel seguente lavoro si cerca di chiarire il quadro regolatorio degli scambi nell’ambito della Sharing Economy riportando anche la Sentenza della Corte di Giustizia Europea. Nella seguente sentenza si ridefiniscono i termini regolatori del seguente tema. La Giurisprudenza inoltre cerca di costruire un quadro normativo idoneo volto a regolarizzare questi scambi. L’ordinamento statunitense merita infatti particolare attenzione, quale primo ordinamento che ha cercato attraverso il caso Uber di trovare una regolazione “Ad Hoc” per regolare questi scambi. Nel corso del lavoro viene analizzata in maniera dettagliata la Legge del 15 gennaio 1992, n. 21. Questa Legge è direttamente legata al caso Uber, perché nel caso del servizio taxi stabilisce che l’attività non è liberalizzata ma può essere svolta solo in presenza di apposito titolo “Licenza”. Per avere la licenza l’azienda deve comunque rispettare alcuni requisiti imposti dalla legge. Le tariffe dei servizi inoltre devono essere determinate dai comuni. Inoltre, questi servizi devono sottoposti al controllo da parte dell’autorità di regolazione dei trasporti. Nel corso dei paragrafi viene anche analizzato il parere della Corte di Giustizia Europea nell’ambito dell’Economia della Condivisione con particolare riferimento al caso Uber sotto gli occhi della cronaca anche a causa delle innumerevoli vicende giudiziarie a cui è stato sottoposto nelle vesti di convenuto per il servizio offerto.


1.1. Metodologia, Criterio di Ricerca, Fonti e domanda di ricerca

La metodologia utilizzata per il seguente lavoro è la revisione sistemica della letteratura, prendendo in considerazione le fonti dall’anno 2015 e le varie sentenze sul tema. Le banche date utilizzate sono: Juris, Researchgate, Scopus, Google Scholar. Inoltre, sono state prese in considerazione molti testi presenti presso la biblioteca dell’Università Degli Studi della Campania ‘‘Luigi Vanvitelli’’.

Le parole chiave di ricerca sono state:

  • Regolamentazione della Sharing Economy;

  • Caso Uber - sentenze;

  • Sharing Economy - Caso Uber;

  • Legge 15 gennaio 1992.


La revisione sistemica della letteratura è stata svolta in questo modo:

  • Raccolta degli articoli attraverso le banche dati;

  • Attenta analisi degli articoli;

  • Mettere in evidenza tutte le componenti che forniscono una panoramica chiara per poter rispondere in modo esaustivo alle domande di ricerca poste nel corso del seguente lavoro.


Le domande di ricerca poste sono le seguenti:

  1. Qual’è la natura della regolazione della Sharing Economy (Rigida o flessibile)?

  2. Come sono ridefiniti i termini della Sharing Economy nell’attuale ordinamento giuridico?

  3. Come si possono colmare le lacune sussistenti tra diritto, mercato e tecnologia nella giurisprudenza?

Il lavoro attraverso una revisione anche delle sentenze in merito tra cui quella dei giudici di Lussemburgo sul caso Uber, cerca di rispondere alle seguenti domande di ricerca.


1.2. Il giudice in veste di “Regolatore”: Caso Uber, tra Common Law e Civil Law

La prima ragione che conduce a polarizzare l’attenzione verso il sistema giuridico degli Stati Uniti attiene alle origini stesse di tale operatore del mercato. Questo gruppo economico viene fondato, infatti, nel 2009, in California, iniziando, dal 2010, ad operare nella città di San Francisco, negli anni immediatamente successivi, a New York City, Chicago, Washington, e, da lì, infine, diffondendosi, con ampio successo, in quasi tutte le città statunitensi. Questa spiegazione si trova nella valorizzazione dell’imprenditorialità tipica della cultura statunitense, oltre che nella crisi economico-finanziaria insorta dal 2008 negli Stati Uniti qui, ancora prima che in Europa, elementi che hanno costituito il substrato socioeconomico ideale per l’ascesa, peraltro, così celere di Uber.2 È nel contesto americano, dunque, che si è affermata in un primo tempo tale società, che, con la propria attività di intermediazione, ha consentito l’esprimersi di un’offerta di mobilità a prezzi più contenuti rispetto a quelli richiesti dai professionisti del settore; ed è proprio nelle città in cui si è affermata, inevitabilmente, che si sono sviluppate anche le prime resistenze dei tassisti e, con esse, sono emerse talune questioni giuridiche. L’avvento di Uber, come già rilevato, ha generato forti resistenze degli operatori tradizionali e, talvolta, anche interventi da parte delle Corti. E così non poteva non essere, posto che tale gruppo economico, pur svolgendo apparentemente un’attività di intermediazione, finisce per soddisfare, con la propria offerta, lo stesso bisogno di mobilità. In particolare, l’accusa principale mossa al nuovo entrante è quella di configurare un’ipotesi di una sleale competizione in virtù:

i) della natura dell’attività svolta, che non sarebbe dissimile da quella dei vettori tradizionali,

ii) dell’indebito vantaggio competitivo ottenuto a seguito della mancata omologazione rispetto al servizio di trasporto con vetture su piazza e, dunque, della violazione delle regole relative al servizio taxi. In riferimento si segnalano le considerazioni compiute dalla U.S. District Court of Massachusetts, in cui il Judge Nathaniel M. Gorton si è espresso prima che la lite venisse transata nel senso di configurare la competizione sleale. Ciò, in forza della Legge Antitrust dello Stato del Massachusetts, che, recependo l’originaria impostazione del Federal Trade Commission Act del 1914, ritiene integrante la fattispecie in esame ogni qualvolta vi sia come appunto nel caso Uber un danno sostanziale ai competitori. Questa legge non troverebbe più corrispondenza con le modifiche apportate all’Atto federale del 1914 suindicato ad opera del FTC Amendment Act del 1994, modifiche che, ispirate agli insegnamenti della Scuola di Chicago, hanno delimitato l’ipotesi in esame al solo caso di lesione ai danni dei consumers, con irrilevanza di ciò che attiene alla sfera dei competitors. Altra accusa rivolta al nuovo entrante è quella di non rientrare nella sharing economy e di non connotarsi dello spirito di condivisione che caratterizza invece le piattaforme riconducibili a tale etichetta. In riferimento a detta accusa, la municipalità di Anchorage, ad esempio, ha contestato la legittimità del servizio di fronte alla Corte Superiore municipale, chiedendo ad essa di imporre lo svolgimento dell’attività in condizioni di sostanziale gratuità, dunque senza margini di profitto per la società. Richiesta, questa, che è stata accolta dal Judge Micheal Corey della Anchorage Superior Court e che non poteva non comportare, inevitabilmente, anche la scelta di Uber di inibire il servizio sul relativo territorio. In ogni caso, al di là delle pronunce suindicate, l’eterogeneità ha fatto ancora una volta da sovrana, caratterizzando non solo, come già osservato, la delineazione di cornici di regole valevoli per il servizio taxi, ma anche le stesse reazioni degli Stati e delle municipalità di fronte all’ascesa di Uber. Queste reazioni sono state:

i) Favorevoli e tese a non ostacolare l’ingresso del nuovo operatore (come è avvenuto nella municipalità di Pittsburgh);

ii) Ostili all’ascesa del nuovo entrante e inclini ad estendere anche ad esso la disciplina già applicabile ai vettori tradizionali come è accaduto nello Stato della South Carolina, oltre che in diverse municipalità, quali Anchorage o New York City;

iii) Volte a creare una terza via intermedia, sì da regolare la nuova piattaforma e allo stesso tempo non gravare su di essa con vincoli che ne avrebbero impedito l’effettiva operabilità.

All’avvento di Uber nelle più importanti città d’Europa sono seguite, infatti, pressoché in ogni contesto, dapprima le rivendicazioni degli operatori tradizionali del settore, poi i provvedimenti delle diverse amministrazioni interessate, infine le decisioni assunte dalle Corti nazionali, quasi mai disponibili ad accogliere le istanze degli esponenti della new economy. All’avvento di Uber nelle più importanti città d’Europa sono seguite, infatti, pressoché in ogni contesto, dapprima le rivendicazioni degli operatori tradizionali del settore, poi i provvedimenti delle diverse amministrazioni interessate, infine le decisioni assunte dalle Corti nazionali, quasi mai disponibili ad accogliere le istanze degli esponenti della new economy. Atteggiamento di chiusura, questo, peraltro, che non ha riguardato soltanto il servizio Uberpop3 (rappresenta un servizio di intermediazione fra autisti non professionisti ed utenti), estendendosi, non di rado, anche al servizio Uberblack (costituisce un servizio di intermediazione fra autisti professionisti ed utenti). «Uber esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione di siffatti conducenti»: stabilendo i prezzi, intermediando il pagamento, controllando la condotta dei conducenti4 e potendo decidere anche di disattivare i loro profili. Queste caratteristiche del servizio reso da Uber in base al ragionamento della Corte rafforzano quel rapporto di strumentalità fra intermediazione e trasporto, mostrando, ancora più chiaramente, la loro inscindibilità funzionale. Infine, la Corte suffraga le proprie considerazioni anche avvalendosi di giurisprudenza pregressa, in base alla quale la nozione europea di “servizio nel settore dei trasporti” che si rinviene nella direttiva servizi deve essere intesa a maglie larghe, ricomprendendo «non soltanto i servizi di trasporto considerati come tali, ma altresì ogni servizio intrinsecamente connesso a un atto fisico di trasferimento di persone o di beni da un luogo ad un altro tramite un mezzo di trasporto». il caso Uber incarni a pieno titolo un’aspirazione mancata del diritto: quella di essere moderno, “al passo” con il mercato e con la tecnologia. Il mercato tende ad invecchiare le regole. Basti pensare alle crisi economiche, che modificano le abitudini delle persone conducono a sviluppare nuove modalità di offerta di beni e servizi, comportano la nascita di fenomeni nuovi, che non sempre si è in grado di inquadrare nelle tradizionali categorie giuridiche. Già per questo il diritto rischia di essere obsoleto. Nella società dell’informazione, il mercato genera rapidamente nuovi colossi che basano la loro potenza economica proprio sull’innovazione tecnologica. E l’avanzamento tecnologico può, a sua volta, anche irrompere sui mercati, consentire di esprimere in modo del tutto nuovo la domanda e l’offerta di beni e servizi, rendere, perciò, ancora più a rischio-vetustà gli ordinamenti giuridici. Di fronte a questa evenienza, il diritto è costretto, per preservare la propria utilità, ad intervenire. E il giurista è colui che ha il compito di suggerire soluzioni per rendere l’apparato giuridico maggiormente idoneo ad affrontare la sfida, invero già persa in partenza, dell’obsolescenza, per ammorbidire e rendere meno severa tale sconfitta. Uber5 in Europa non riesce ad esprimersi come vorrebbe. E, in luogo della valorizzazione dell’innovazione, trovano affermazione istanze, interessi e considerazioni diverse, che pongono l’accento, oltre che sulla già rilevata concorrenza sleale, anche sulla mancata logica della condivisione, sulla finalità lucrativa del nuovo entrante, sul ruolo di primo ordine assunto dall’operatore economico nell’organizzare i servizi, sul rischio di comportamenti opportunistici legati ai meccanismi di prezzo definiti da Uber, sulle istanze connesse alla sicurezza dell’utenza e della generalità dei consociati. In questo contesto si hanno delle perplessità: in particolare, in merito alla tendenza dei decisori pubblici di lasciare che sia la giurisprudenza ad assumere le scelte relative alla struttura concorrenziale di un mercato. Costringere il giudice ad indossare la veste di “regolatore” per decidere del destino degli operatori economici significa, infatti, dimenticare il ruolo del giudicante e della sua funzione giurisdizionale, oltre che soprassedere al principio della separazione dei poteri. In quest’ottica, dunque, sembrerebbe profilarsi una pericolosa convergenza fra i sistemi di civil law6 e quelli di common law, con un giudice che, da interprete e risolutore di conflitti, diviene regolatore e fonte del diritto. E la via migliore per uscirne, se si intende non accettare tale impostazione, è quella di evidenziare le opportunità correlate alla rivoluzione Uber, che sono connesse allo sviluppo del mercato, all’efficienza, alla ripresa economica e, anche meno grandiosamente, ad offrire all’utenza un servizio di qualità a basso prezzo. Ciò allo scopo, poi, di creare un substrato normativo più flessibile e sensibile alle prospettive di crescita. Questa direzione è quella delle TNC;7 o, ancora, è quella italiana della “regolazione leggera”, soluzione regolatoria molto cara agli “arbitri dei mercati” e al Supremo Consesso di giustizia amministrativa, che non ha ancora trovato attuazione, ma che si auspica per le ragioni anzidette possa ottenerla. Tanto più che la stessa regolazione minimale appare in rapporto di sicura non contraddizione con quanto recentemente asserito dalla Corte di giustizia sulla natura di Uber. La riconduzione del canale dei trasporti di questo operatore, infatti, impedisce di ricollegare totalmente la piattaforma a un evanescente mercato dell’intermediazione, ma di certo non vincola gli Stati ad omologare lo stesso, per quanto attiene alla disciplina giuridica, ai vettori tradizionali. Se così è, dunque, non resta che attendere che i Parlamenti si facciano carico del proprio ruolo, consci del fatto che il ritardo alimenta una querelle giurisprudenziale senza fine ed espande la funzione delle Corti oltre la propria missione istituzionale, rendendole loro malgrado sovrane dei destini degli operatori economici e delle dinamiche concorrenziali dei mercati.


1.2.1. Il caso Uber e la Corte di giustizia europea: Una sentenza che ridefinisce i termini della Sharing Economy

Il 20 dicembre 2017 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha deliberato un’attesa sentenza che, in un modo o nell’altro, potrebbe rappresentare un autorevole precedente giurisprudenziale in relazione ad un emergente ed ormai sempre più affermatosi modello economico: quello relativo alla sharing economy.8 La vicenda sottoposta al vaglio finale della Corte di Lussemburgo ha riguardato il c.d. caso Uber,9 fenomeno che negli ultimi anni, prendendo il nome dall’omonima azienda californiana, sovente è ribalzato alla cronaca più per le innumerevoli vicende giudiziarie a cui è stato sottoposto nelle vesti di convenuto, che per l’effettivo e peculiare servizio offerto. Ed infatti, l’intervento della Corte di Giustizia dell’Unione europea è stato sollecitato dal Juzgado Mercantil n. 3 di Barcellona mediante apposita domanda di pronuncia pregiudiziale di cui all’ art. 267 del Trattato FUE. l’autorità giurisdizionale catalana, investita della questione su ricorso della Asociación Profesional Élite Taxi, ha preferito adire la CGUE sull’assunto che “l’azione del convenuto non deve valutarsi nel contesto della città di Barcellona o nel contesto del territorio spagnolo, bensì nell’ambito dell’Unione europea”. Nello specifico, le questioni rimesse alla cognizione della CGUE dal Giudice di rinvio si sono focalizzate sulla natura giuridica da riconoscere in relazione alla fornitura della multinazionale di Uber di un servizio retribuito concernente, tramite l’utilizzo di piattaforme elettroniche, “la messa in contatto di conducenti non professionisti, privi di alcuna licenza od autorizzazione amministrativa, che utilizzano il proprio veicolo con persone che intendono effettuare spostamenti urbani”. I termini della questione che hanno rispecchiato pertanto le posizioni contrapposte delle due parti in causa: da un lato, l’associazione professionale dei tassisti catalani secondo la quale il servizio offerto sotto il nome di Uber10 sarebbe principalmente configurabile quale attività di trasporto; dall’altra parte, la compagnia statunitense sostenitrice che la propria attività resa si estrinsechi esclusivamente nel facilitare l’intermediazione, attraverso un’applicazione per smartphone, fra utenti e conducenti non professionisti. In Italia una delle prime sentenze relativa al caso Uber è stata quella deliberata da un giudice di pace di Genova che, dovendosi pronunciare contro un provvedimento di sanzione comminata dalla polizia municipale di esercizio abusivo dell’attività di taxi ex art. 86 Cod. della strada, ha accolto il ricorso dell’autista affiliato alla compagnia californiana. Nondimeno, sebbene tale pronuncia possa ascriversi tra quelle favorevoli per la menzionata società, è opportuno sottolineare che le conclusioni a cui il giudice onorario è pervenuto non hanno interessato la natura intrinseca del servizio in sé offerto, quanto piuttosto si sono attestate sulla distinzione tipologica del servizio offerto: ovvero, l’esercizio dell’attività svolta dall’autista non era configurabile come servizio di taxi, quanto semmai come noleggio di auto con conducente e sottoponibile pertanto alla fattispecie ex art. 85 Cod. della strada. Alcuni mesi dopo la sentenza, alla sezione specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano viene presentato un presentato ricorso in sede cautelare per l'inibitoria del servizio UberPop, specificamente a titolo di concorrenza sleale per violazione di norme pubblicistiche ex art. 2598, n. 3, C.C., da cui scaturisce apposita ordinanza di condanna. Altresì, in seguito all’ impugnazione di Uber, il menzionato provvedimento è stato confermato con ulteriore e successiva ordinanza pronunciata in sede di reclamo. Entrando nel merito, il quadro ricostruttivo complessivamente sviluppato nella decisione milanese ha fatto perno sull’antigiuridicità dell’attività svolta dagli autisti al servizio di Uber, in quanto fondata “sull'omesso rispetto di precetti normativi specifici che regolano l'attività imprenditoriale, con l'effetto di consentire agli operatori economici irregolari un indebito vantaggio concorrenziale a danno di chi opera regolarmente”. In particolare, qualificando UberPop11 come un sistema integrato di trasporto assimilabile al tradizionale servizio di taxi, hanno riconosciuto in capo all’omonima società la l’abusività delle attività attuate, stante l’assenza della necessaria licenza, e di conseguenza l’indebito vantaggio ivi conseguito nel settore regolamentato da apposite norme pubblicistiche. Nello specifico, il Tribunale milanese ha rilevato il ruolo sostanziale di Uber nella gestione complessiva del servizio di trasporto emerso dalla valutazione di taluni elementi rilevati: ovvero, dalla mancanza di un reale carattere condiviso del servizio offerto da UberPop; dalla predeterminazione del prezzo attraverso appositi algoritmi; dall’equivalenza funzionale della piattaforma tecnologica12 rispetto alle classiche centrali radiotaxi; dal riconoscimento invero della community quale luogo virtuale aperto alla generalità del pubblico, salvo un primo mero ottemperamento relativo all’iscrizione personale del soggetto interessato; nonché dal conseguente discostamento dal modello peer-to-peer,13 stante il potere decisionale complessivo riconosciuto in capo ad Uber. La pronuncia dei giudici di Lussemburgo, avvalorando sostanzialmente il ragionamento giuridico delineato dall’Avvocato generale nel suo parere, si è conclusa affermando che i servizi offerti da Uber debbano essere qualificati come servizi di trasporto. Una conclusione che, se da una parte ha risolto la questione vertente sulla natura legale dei menzionati servizi, dall’altro lato ha sollevato ulteriori interrogazioni trasversali, in quanto relazionati con diversi ambiti giuridici: dal diritto concorrenziale, al diritto amministrativo e del lavoro,14 fino a pervenire al diritto contrattuale. Prima di entrare specificamente nel merito delle possibili conseguenze scaturenti dalla sentenza in esame, è doveroso scandire il ragionamento logico-giuridico sviluppato dalla CGUE per addivenire alle conclusioni ivi contenute. In primo luogo, il Collegio giudicante europeo ha predisposto il contesto normativo all’interno del quale inglobare le questioni racchiuse nella domanda di pronuncia pregiudiziale. Nello specifico, al fine di accertare la reale qualificazione giuridica dei servizi forniti da Uber, ha richiamato talune disposizioni di quelle direttive disciplinanti i servizi elettronici offerti dalle società dell’informazione nel mercato unico. La sentenza della CGUE, riconoscendo Uber come società adibita a fornire servizi complessivamente iscrivibili all’interno del settore dei trasporti, solleva a suo modo ulteriori interrogativi. Le implicazioni derivanti dalla qualificazione di cui sopra non si manifesterebbero indubbiamente nel solo ambito concorrenziale, bensì andrebbero a investire ulteriori contesti giuridici. Nello specifico, le principali questioni si svilupperebbero in quelle discipline in cui si paventerebbe maggiormente uno squilibrio fra le parti protagoniste in questo triangolo. Uber,15 in quanto soggetto garante dell’intermediazione fra i conducenti (in termini generali il prestatore o fornitore del servizio) e l’utenza, instaura inevitabilmente relazioni sia con l’una che con l’altra categoria. Queste relazioni non si svilupperebbero orizzontalmente fra soggetti alla pari (sulla base del modello peer-to-peer), bensì avverrebbero in modalità verticale. In considerazione di tutto ciò, subentrerebbe un’esigenza finalizzata a garantire le parti contrattualmente più deboli del rapporto contrattuale, ovvero rispettivamente il fornitore del servizio e l’utente consumatore. Nel momento in cui l’intermediatore opera attivamente sul mercato, e perciò eccedendo le mere attività d’intermediazione, la configurazione più corretta sarebbe quella vertente a riconoscerli come controparti di due distinti rapporti contrattuali: “il primo tra il fornitore del bene o servizio e la piattaforma online e il secondo tra quest’ultima e l’utente finale”. In considerazione di quanto complessivamente esposto sopra, è evidente l’incertezza giuridica che ha accompagnato questo nuovo fenomeno economico che ha scardinato i tradizionali modelli di produzione e di scambio. Un’incertezza che si è manifestata perfino rispetto alla terminologia impiegata per definire l’avvento del mercato digitale. Ed infatti, è stato un susseguirsi di nozioni e definizioni alcuni casi ritenuti intercambiabili, in altri rappresentati quali sottoinsieme rispetto alla nozione di sharing economy. Rispetto a ciò la CGUE con la sua recente sentenza sul caso Uber può rappresentare un valido ed autorevole punto di riferimento attraverso cui procedere alle dovute differenziazioni. Dal quadro complessivo desumibile dagli spunti giurisprudenziali e dottrinali apportati sul tema, emergono talune problematiche di fondo che necessitano di una risoluzione urgente in considerazione delle esigenze giuridiche in gioco, fra le quali: la protezione del prestatore il servizio e dell’utente-consumatore, la salvaguardia della leale concorrenza, la protezione dei dati personali possedute dalla piattaforma, la tutela delle condizioni di accesso al mercato. Per sviluppare la soluzione più adeguata ed efficace rispetto alle menzionate questioni è prioritario innanzitutto differenziare i singoli modelli produttivi e di scambio sussistenti nel mercato digitale, evitando una loro controproducente concentrazione. Ebbene, sulla base delle riflessioni complessivamente evidenziate nella presente trattazione, è doveroso affermare la dicotomia sussistente fra sharing economy16 e gig economy.17 Ad una prima analisi ambedue le tipologie si caratterizzano per fondarsi su alcuni comuni presupposti, fra i quali: l’uso fondamentale di una piattaforma digitale, la concezione di un consumo basato sull’accesso temporaneo e lo sviluppo della c.d. disintermediazione. La differente capacità decisionale o d’influenza che può contraddistinguere una piattaforma rispetto ad un’altra rappresenta l’elemento strutturale determinante lo schema relazionale applicabile fra le parti contrattuali. Secondo quanto stabilito dalla CGUE in relazione ad Uber, l’accertamento dell’influenza decisiva comporta la configurazione della piattaforma quale controparte nel contratto concluso con il l’utente-consumatore. In relazione alla seguente conclusione, la conseguente relazione contrattuale si inserisce all’interno del modello business to consumer (B2C) con relativa applicazione della tutela consumeristica. Rispetto alle suddette ipotesi che si manifestano tutte quelle questioni trasversali accennate in precedenza, fra i quali: il rapporto di lavoro del prestatore il servizio, gli effetti in ambito concorrenziale, o perfino quelle riguardanti la tassazione. Fra i criteri-chiave consideratati, i quali devono essere accertati sempre caso per caso, si hanno:

  1. La fissazione da parte della piattaforma del prezzo finale;

  2. L’inserimento di ulteriori condizioni e/o termini, oltre al prezzo, incidenti su ambedue i rapporti contrattuali;

  3. Il possesso da parte della piattaforma di alcune risorse essenziale per la fornitura del servizio.


Sulla base di un raffronto fra la suddetta comunicazione con la sentenza della CGUE sul caso Uber, si è evidenziato nel pensiero dei giudici del Lussemburgo un livello maggiore di responsabilità per le piattaforme, in quanto non hanno ritenuto essenziale la proprietà in capo alla piattaforma di talune risorse funzionali alla prestazione del servizio. Una linea, quella sviluppata dalla Corte europea, che secondo autorevole dottrina deve essere pacificamente condivisa, in quanto nel valutare l’effettivo ruolo della piattaforma si concentra maggiormente sulla quantità di influenza esercitata nel processo di formazione dell’accordo. In conclusione, l’identificazione delle parti di un contratto è fondamentalmente una questione di interpretazione comprensiva non solamente della dichiarazione di intenti contenuta nei termini del servizio, bensì soprattutto del contesto in cui è stata fatta la dichiarazione.


1.2.2. Le sfide giuridiche del digitale18

La categoria dei beni “in comune” (shared), che caratterizzano l’economia collaborativa, ha assunto una crescente rilevanza economica e giuridica. Il fenomeno sottostante è quello della c.d. servificazione dell’economia,19 del passaggio dalla categoria della proprietà a quella dell’uso temporaneo. C’è chi attribuisce a questa trasformazione una forte connotazione di tipo idealistico, esaltando il lato solidaristico e sociale che la sharing economy20 certamente presenta e che ha contribuito alla sua affermazione e diffusione. Questo fenomeno ha potuto nascere e svilupparsi grazie alla diffusione di apparati tecnologici, e in particolare degli smartphone, che consentono a qualsiasi utente-consumatore, in ogni momento e contestualmente di stabilire la propria posizione, assumere informazioni sull’offerta di servizi a disposizione, concludere un contratto, effettuare una transazione finanziaria. Nell’ordinamento europeo, il documento che assume maggiore rilevanza è la comunicazione della Commissione europea. Un’agenda europea per l’economia collaborativa, adottata a giugno del 2016. La comunicazione, come spesso avviene con questo strumento di soft law, analizza il fenomeno della sharing economy, evidenzia le criticità in atto e potenziali, ipotizza possibili scenari di sviluppo delle politiche e della regolazione dell’Unione. L’economia collaborativa21 “può dare un contributo importante alla crescita e all’occupazione nell’Unione europea, se promossa e sviluppata in modo responsabile”, evidenziando i vantaggi per i consumatori in termini di accesso a un numero più ampio di servizi e di aumento della loro qualità, nonché quelli per l’ambiente derivanti da un utilizzo più efficiente delle risorse. Nella definizione che è stata accolta dalla Commissione, l’economia collaborativa comprende tre categorie di soggetti: “i) i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze e possono essere sia privati che offrono servizi su base occasionale (“pari”) sia prestatori di servizi nell’ambito della loro capacità professionale (“prestatori di servizi professionali”); ii) gli utenti di tali servizi; e iii) gli intermediari che mettono in comunicazione attraverso una piattaforma online i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi (“piattaforme di collaborazione”)”. La definizione, pertanto, comprende sia forme di scambio business to consumer (B2C), sia consumer to consumer (C2C). Il tema centrale, di recente affrontato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, è se le piattaforme di intermediazione siano o meno prestatori di servizi finali e se, di conseguenza, siano tenute a essere in possesso dei requisiti (autorizzazioni o concessioni) necessari per operare in un determinato mercato. Sulla base della direttiva dei servizi, i regimi di autorizzazione e i requisiti di licenza sono compatibili con il diritto dell’Unione soltanto se non discriminatori, necessari per conseguire un obiettivo di interesse generale e proporzionati rispetto a tale obiettivo. A parere della Commissione, la pressione deregolatrice creata dalla sharing economy dovrebbe indurre i legislatori nazionali a rivalutare l’efficacia e la proporzionalità della regolazione. I sistemi reputazionali generalmente implementati dalle piattaforme di intermediazione, ad esempio, potrebbero essere idonei a offrire un livello di sicurezza e tutela del consumatore, in termini di riduzione delle asimmetrie informative, pari o superiore di quello offerto da certi regimi autorizzatori. Uber22 organizza direttamente il servizio creando l’offerta e facendola incontrare con la domanda, fissa e riscuote le tariffe, seleziona i propri autisti, che, peraltro, possono essere esclusi in ogni momento dal servizio. L’elemento “trasporto”, così come aveva evidenziato l’avvocato generale Szpunar nelle proprie conclusioni, prevale nettamente sulla componente di intermediazione del servizio, determinando che l’attività debba sottostare alla disciplina nazionale e locale in materia di trasporto pubblico non di linea, non avendo il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea adottato norme comuni o altre misure, in base all’articolo 91, paragrafo 1, TFUE. A conclusioni sono pervenuti anche giudici italiani in alcune occasioni, pronunciandosi sul servizio Uber pop,23 che consente a qualsiasi utente di mettersi a disposizione per trasportare passeggeri a differenza di Uber Black, che in Italia è operato da titolari di licenza di noleggio con conducente. Uber pop è al momento proibito sul territorio italiano per effetto di due ordinanze del Tribunale di Milano (25 maggio e 9 luglio 2015) al termine di un procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. In queste decisioni i giudici hanno ritenuto che Uber avrebbe realizzato condotte anticoncorrenziali offrendo un servizio equivalente a quello dei taxi, senza rispettare la normativa nazionale, la cui compatibilità con l’ordinamento dell’Unione è stata esplicitamente valutata e trova oggi conferma nella sentenza della Corte di giustizia. Le ordinanze del Tribunale di Milano sono state seguite, con motivazione sostanzialmente analoga, e di fatto “assorbite” dalla sentenza del Tribunale di Torino del 24 marzo 2017, n. 1553. La conformità a un quadro normativo, che definire confuso sarebbe eufemistico, del servizio Uber black è stata, invece, affermata dalla sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Roma, di nuovo con ordinanza collegiale emessa a conclusione di un procedimento ex art. 700 c.p.c. Quel che rileva in questa sede è che, anche in questo caso, il Tribunale ha invocato un intervento del legislatore a fare chiarezza e a regolare il fenomeno dell’economia. Le sfide, rappresentate dalla digitalizzazione e dalla diffusione dell’economia collaborativa alimentate da un quadro generale di globalizzazione dell’economia e del diritto si presentano non solo come sfide alla regolazione o regolamentazione degli ordinamenti giuridici nazionali, ma investono talvolta le caratteristiche fondative stesse del costituzionalismo moderno e contemporaneo. Questo, nel suo nucleo, è basato sulla limitazione del potere, non solo pubblico, statuale in senso tradizionale, ma anche privato. È rispetto a quest’ultimo che nell’attualità si pongono le maggiori sfide. Per quanto riguarda l’accesso a Internet,24 le principali criticità riguardano gli strumenti con i quali ampliare la platea delle persone che vi hanno accesso a condizioni tali da consentire la fruizione di servizi avanzati che si servono di connessioni Internet veloci. Nel contesto europeo e italiano, tali strumenti sono stati individuati ricercando il bilanciamento tra i principi di libera concorrenza e il perseguimento di obiettivi d’interesse generale. La realizzazione di nuove reti avviene, pertanto, nel rispetto del diritto degli aiuti di Stato e vede nel servizio universale la prospettiva ultima a cui approdare per garantire a tutti una connessione a Internet veloce, consentendo al tempo stesso lo sviluppo della concorrenza sul mercato della fornitura dei servizi digitali. L’accesso a Internet25 è necessario per fruire dei servizi dell’economia collaborativa, che è solo una delle novità economiche determinate dall’evoluzione tecnologica. Certamente presenta una sfida per i regolatori. in questo campo, la Commissione e il Parlamento europeo hanno richiamato al rispetto delle regole di concorrenza, stabilendo correttamente che è necessario creare il level playing field idoneo a rendere l’Europa non solo un mercato attraente per questi servizi, ma anche un laboratorio per la nascita e sviluppo delle piattaforme tecnologiche. La pressione alla deregolazione proveniente dall’elevata standardizzazione tecnologica, e dall’influsso di sistemi giuridici di matrice diversa da quello europeo che essa porta con sé, mette però a rischio conquiste sociali ed economiche del mercato unico che diamo, forse con troppo ottimismo, ormai per scontate: la tutela dei lavoratori, dei consumatori, della privacy, della concorrenza solo per citarne alcune. Non possiamo che sperare in un ruolo attivo e coordinato delle istituzioni comunitarie e dei parlamenti nazionali. Consapevoli, tuttavia, che in mancanza, la regolazione della sharing economy verrà scritta, dal legislatore dell’emergenza e nelle aule dei tribunali.


1.3. Risultati di ricerca e conclusioni

La sharing economy anche in tema di tutela dei consumatori, dei lavoratori, della privacy e della concorrenza ha bisogno di una regolamentazione che purtroppo non è ancora presente in modo definito e dettagliato nel nostro ordinamento giuridico. Ma la Commissione europea e il Parlamento europeo hanno comunque richiamato il rispetto delle regole di concorrenza analizzando i loro giudizi, e la letteratura accademica, si ritiene quindi necessario creare un level playing field idoneo tale da poter rendere l’Europa un mercato attraente ed innovativo nell’affermazione di questo nuovo tipo di modello economico.

L’affermarsi di esso rappresenta una sfida per i regolatori. Il diritto, quindi, deve stare di pari passo con l’Innovazione tecnologica e anche la ricerca futura si deve preoccupare di fornire input utili per coprire le lacune presenti negli ordinamenti giuridici a causa delle obsolescenze delle regole giuridiche rispetto all’evoluzione dei mercati e della tecnologia. Il caso Uber analizzato nel seguente paper ridefinisce il concetto di questo nuovo Modello Economico e la Corte finalmente riesce a riscontrare la lacuna presente nelle norme e riesce a mettere in evidenza anche che non è l’affermante del modello economico di per sé ad avere difetti di concorrenza imperfetta, bensì è l’ordinamento che deve innovare le sue norme rispetto al nascente modello. L’ordinamento giuridico per quando riguarda il caso Uber, attraverso un’attenta sentenza i giudici di Lussemburgo sono riusciti a definire almeno in via generale le regole del nuovo modello Economico. Tra i risultati di ricerca di particolare rilevanza gode il riconoscimento delle parti nella formalizzazione dell’accordo contrattuale ed è importante non solo per chiarire il contenuto di esso ma anche per un’interpretazione comprensiva dell’accordo. Circa l’affermazione invece di un sistema rigido o flessibile per quanto riguarda la regolamentazione della sharing economy si può affermare che è emerso dalla ricerca che il “Principio precauzionale” giocato dal legislatore nella costruzione di uno schema normativo. Questo nuovo modello economico blocca l’innovazione delle norme e del diritto. Quindi le lenti dello studioso del diritto amministrativo e quelli del giurista in generale sono “lenti deboli” rispetto al progresso tecnologico. La ricerca futura deve quindi occuparsi di incentivare l’innovazione del diritto in questo ambito. Si può considerare affermando che si sente un forte bisogno di un ordinamento giuridico, fondato su normative “Al passo con i tempi”.

1 P.L. Petrillo - C. Ho­norati, Diritti e libertà alla prova dell’economia della condivisione. Prime note di confronto tra Europa e America Latina, Federalismi, 2018;

2 A. Boitani - S. Colombo, Taxi, Ncc, Uber: scontro finale o alba di coesistenza? Mercato Concorrenza Regole, n. 1, 2017, pp. 61-78.

3 Si faccia riferimento a V.C. Romano, Nuove tecnologie per il mitridatismo regolamentare: Il caso Uber Pop, Mercato, Concorrenza e regole, 2015, pp. 135-153.

4 Si faccia riferimento a L. Munerati, Conducenti Uber: imprenditori o parasubordinati? LPO, 2017, pp. 3-5.

5 G. Resta, Uber di fronte alle corti europee, Diritto dell'Informazione e dell'Informatica (Il), fasc. 2, 2017, pp. 330 e ss.

6 Si veda R. La Porta et al., Law and Finance, 001 J.Pol. Ec., 106, 1998, pp. 1113 e ss.

7 G. Pacella, Drivers di Uber: confermato che si tratta di workers e non di self-employed, LLI, Vol. 3, No. 2, 2017, pp. 53-60.

8 G. Smorto, I contratti della sharing economy, Il foro italiano, V, 2015, p. 3.

9 L. Munerati, Conducenti Uber: imprenditori o parasubordinati? LPO, 2017, pp. 3-5.

10 Si veda C. Wendehorst, Platform Intermediary Services and Duties under the E-Commerce Directive and the Consumer Rights Directive, Journal of European Consumer Market Law, 2016, pp. 30 e ss..

11 Si faccia riferimento a E. Dagnino, Uber law: prospettive giuslavoristiche sulla sharing/on - demand economy, Adapt labour studies, 2015, pp. 1-18.

12 Si veda A. Aloisi, Il lavoro a chiamata e le piattaforme online della collaborative economy: nozioni e tipi legali in cerca di tutele; Labour & Law Issues, vol. 2, n.2, 2016, p. 22.

13 Si faccia riferimento a G. Smorto, Economia della condivisione e antropologia dello scambio, Diritto pubblico comparato ed europeo, Fascicolo 1, 2017, pp. 28-34.

14 V. De Stefano, The rise of the “just-in-time work force”: on-demand work, crowdwork and labour protection in the “gig-economy”, Comparative Labour Law & Policy Journal, 2015, p. 9.

15 E. Mostacci - A. Somma, Il caso Uber: La sharing economy nel confronto tra common law e civil law, Egea, Milano, 2016, pp. 21-22.

16 Si veda S. Crosetti, Il seme da piantare. Le altalenanti sorti della sharing economy in Italia, Riv. Amministrazione In Cammino, 2017, p. 5.

17 G. Pacella, Il lavoro nella gig economy e le recensioni on line: come si ripercuote sui e sulle dipendenti il gradimento dell’utenza? Labour & Law Issues, Vol. 3, n.1, 2017, pp. 3758-3784.

18 P. Tullini, Economia digitale e lavoro non-standard, Labour & Law Issues, Vol. 2, n. 2, 2016, p. 9.

19 S. Djankov et al., The New Comparative Economics, cit., pp. 604 e ss.

20 Si veda P. De Hert - D. Kloza, Internet (access) as a new fundamental right. Inflating the current rights framework, in European Journal of Law and Technology, vol. 3, n. 2, 2012.

21 G. D’Ippolito, Sharing economy: l’esperienza italiana della XVII legislatura alla luce degli orien­tamenti europei, in Rivista di diritto dei media, n. 2, 2018.

22 Si faccia riferimento a G. Pacella, Lavoro e piattaforme: una sentenza brasiliana qualifica subordinato il rapporto tra Uber e gli autisti, in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 3, 2017, pp. 570-578.

23 Si veda E. Dagnino, Uber law: prospettive giuslavoristiche sulla sharing/on - demand economy, Adapt labour studies, 2015, pp. 1-18.

24 Si faccia riferimento a M. Colangelo - V. Zen­covich, La intermediazione online e la disciplina della concorrenza: i servizi di viaggio, soggiorno e svago, Diritto dell’informazione e dell’informatica, n. 1, 2015, pp. 43 e ss.

25 Si veda A. De Franceschi, Le piattaforme nel mercato unico digitale: il caso Uber, Seminari di diritto privato, Bocconi University, Milano, 2016, pp. 14-15.