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Indagine conoscitiva sulla Riforma dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario

Scritto da Giuseppe Melis • apr 2021

Sintesi

La presente relazione è stata elaborata in occasione del ciclo di audizioni tenutesi dinanzi alla VI Commissione della Camera dei deputati ed alla 6° Commissione del Senato riunite nei primi mesi del 2021 nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e degli altri aspetti rilevanti del sistema tributario. Essa si divide in tre parti. Nella prima parte, vengono sviluppate talune riflessioni sulla struttura del sistema tributario, in generale, e di quello reddituale e patrimoniale, in particolare, anche in rapporto al più ampio sistema dei trasferimenti, pensionistico e di accesso ai servizi pubblici; per poi procedere all’esame delle tematiche più importanti affrontate nel corso delle audizioni precedenti (aliquote, base imponibile, cedolari, regimi forfetari, imposizione patrimoniale, tax expenditures, abitazione principale, famiglia, evasione fiscale, catasto, ecc.). Nella seconda parte, si esaminano taluni aspetti tecnico-giuridici di particolare rilevanza nell’imposizione reddituale, al fine di verificare se l’attuale disciplina possa considerarsi soddisfacente oppure sia bisognevole di ritocchi che potrebbero trovare la loro occasione proprio nel programmato intervento sull’Irpef. Nella terza parte, infine, ci si sofferma su talune modalità di reperimento delle risorse finanziarie per far fronte alle proposte avanzate. Viene così analizzato l’impatto della digital tax e della plastic tax, come anche dei tributi ambientali in generale, ivi evidenziando criticità e pregi di tali forme di imposizione.

Abstract

This paper was prepared for the cycle of hearings held before the VI Commission of the Chamber of Deputies and the 6th Commission of the Senate in the first months of 2021 as part of the fact-finding survey on the reform of the personal income tax. It is divided into three main parts. In the first part the general structure of the tax system is analysed having regard to taxation on income and property, also in respect of the wider system of transfers, pensions and access to public services. Then, the most relevant issues addressed during the previous hearings (rates, tax base, flat rate schemes, property taxation, tax expenditures, main residence, family, tax evasion, land registry, etc.) are analysed. In the second part, certain relevant technical/legal aspects of income tax are analysed, in order to check whether the current legal framework can be considered satisfactory or if it needs to be adjusted that could be adopted with the planned reform of personal income tax. Finally, in the third part, the paper focuses its attention on the methods to obtain the financial resources to finance the proposals. Thus, the impact of the digital tax and the plastic tax is analysed, as well as environmental taxes in general, highlighting upsides and downsides of these forms of taxation. .

Contenuto

INTRODUZIONE

Desidero innanzitutto rivolgere i più sentiti ringraziamenti agli On.li Presidenti e Componenti delle Commissioni qui riunite per l’opportunità concessami di fornire un contributo all’importante «Indagine conoscitiva sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e di altri aspetti del sistema tributario» in corso di svolgimento.

Nel cercare di evitare per quanto possibile ripetizioni di quanto già riferito nelle audizioni sin qui svolte, proverò a condividere taluni elementi conoscitivi e svolgere talune considerazioni che mi auspico possano rivelarsi utili al dibattito per le fondamentali decisioni che da qui a non molto si dovranno assumere per il futuro del nostro amato Paese.

Dividerò l’audizione in tre parti.

Nella prima parte, svilupperò talune riflessioni sulla struttura del sistema tributario italiano, in generale, e di quello reddituale e patrimoniale in particolare, anche in rapporto al più ampio sistema dei trasferimenti, pensionistico e di accesso ai servizi pubblici, soffermandomi poi sulle varie tematiche affrontate nel corso delle audizioni.

Nella seconda parte, esaminerò invece taluni aspetti strettamente giuridici e di particolare rilevanza dell’imposizione sui redditi, con l’obiettivo di verificare se l’attuale disciplina possa considerarsi soddisfacente oppure sia bisognevole di ritocchi che potrebbero trovare la loro occasione nel programmato intervento sull’Irpef.

Volendomi attenere quanto più strettamente possibile al tema, le mie considerazioni avranno esclusivamente ad oggetto i problemi relativi all’imposizione diretta, in particolare sul reddito e, per le evidenti interconnessioni, sul patrimonio.

Non mi diffonderò, pertanto, né sull’imposizione indiretta (sui consumi e sui trasferimenti), né sulle numerose altre questioni – di ordine sostanziale, procedimentale e processuale – che pure richiederebbero una soluzione non meno urgente nell’ottica di quel Fisco “giusto” che la Riforma Irpef intende perseguire (solo per citarne qualcuna e tra le più importanti, la redazione di un “codice tributario”, soprattutto in relazione alla disciplina dell’obbligazione, e la previsione di un “giusto” procedimento e di un “giusto” processo tributario).

Nella terza mi soffermerò sul reperimento delle risorse finanziarie.


PARTE I. LA STRUTTURA DEL SISTEMA TRIBUTARIO E DELL’IMPOSIZIONE SUI REDDITI IN PARTICOLARE.


1. Premessa

Vorrei iniziare da una breve premessa sul posizionamento del nostro Paese a livello europeo rispetto a taluni indicatori rilevanti per le questioni trattate nelle varie audizioni, quale emerge dall’ultima edizione 2020 del documento «Taxation Trends in the European Union» annualmente curato dalla Commissione Europea, ponendo a confronto i valori registrati dell’Italia con quelli “medi” dell’Europa a 27 Stati:


Indicatori (anno 2018)

ITALIA

EU-27

Incidenza di imposte e contributi sociali sul PIL

41.1%

40.2%

Quota gettito derivante da imposte indirette

34.7%

34.1%

Quota gettito derivante da imposte dirette

34.0%

33.1%

Quota gettito derivante da contributi sociali

31.1%

33.0%

Quota gettito fiscale derivante da imposte sul consumo

26.7%

27.8%

Quota gettito fiscale derivante da imposte sul lavoro

50.4%

51.8%

Quota gettito fiscale derivante da imposte sul capitale

22.9%

20.4%

Incidenza imposte su redditi da lavoro

36.6%

31.9%

Incidenza imposte sul patrimonio sul PIL

2.4%

2.2%


Si noterà come i valori dell’Italia siano sostanzialmente in linea con quelli medi europei, con l’eccezione della tassazione dei redditi da lavoro dipendente, sensibilmente più elevata in Italia rispetto alla media europea1, e della quota del gettito fiscale derivante dalle imposte sul capitale.

Le tasse sul consumo sono anch’esse sostanzialmente in linea con il livello europeo. È vero, come pure sottolineato in numerose audizioni, che la quota IVA è più bassa rispetto ad altri paesi2, e quindi teoricamente adatta a quel riequilibrio tra imposizione sul reddito e sul consumo da più parti evidenziata, ma è anche vero che sussiste in Italia una rilevante imposizione sulla produzione comunque destinata ad essere traslata sul consumatore finale, sicché questo profilo andrebbe ulteriormente approfondito.

Se così stanno le cose, va tuttavia evidenziato l’importante parziale recupero del gap da parte dell’Italia attuatosi in questi ultimi anni relativamente a questo indicatore particolarmente critico, e ciò soprattutto nel biennio 2014-2015 (per poi “assestarsi” negli anni successivi).

Dall’indicato documento emerge, infatti, come la tassazione effettiva del lavoro, nel periodo 2006-2019, si sia ridotta, nell’Europa a 27 Stati, dal 33,2% al 31,7% (-1,5%), e, in Italia, dal 39,7% al 36,6% (-3%), in misura dunque doppia rispetto alla media europea. Questo miglioramento è ancor più significativo se si guarda all’analogo Rapporto del 2012, in cui per il periodo 1995-2010 si registrava una diminuzione a livello UE della tassazione del lavoro dal 35,3% al 33,4%, mentre in Italia si osservava un trend diametralmente opposto, con un incremento dal 37,8 % al 42,6%. Guardando ai valori massimi e minimi, nel periodo 1995-2019, si è dunque passati a livello UE dal 35,3% al 31,7%, e, in Italia, dal 42,6% al 36,6%, riducendo pertanto significativamente il gap.

Resta ferma, naturalmente, la questione della progressiva divaricazione tra la tassazione del lavoro, da un lato, e quella del reddito societario, dall’altro.

A tale riguardo, si evidenzia infatti dalla medesima fonte, una sensibile diminuzione delle aliquote nominali sui redditi societari, con un passaggio, nell’Europa a 27 Stati, dal 26,5% del 2004 al 21,5% del 2020. Per quanto riguarda l’Italia, il decremento è dal 37,3% del 2004 al 27,8% del 2020, anche qui dunque in misura doppia rispetto alla media UE. Tale ultimo dato assume peraltro l’aliquota Irap “nominale” applicata ad una base imponibile coincidente con quella valevole ai fini IRES, ciò che tuttavia sappiamo non è. Fatto sta che la base imponibile Irap si è comunque fortemente ridotta negli ultimi anni, ciò che fa sì che la riduzione della tassazione “effettiva” dei redditi societari in Italia sopra rilevata possa dirsi, a parità di aliquota nominale Irap, ancora maggiore.

Va rilevato, peraltro, che nel Rapporto 2012, si registrava per il periodo 1995-2010 una diminuzione delle aliquote nominali sui redditi societari nell’Europa a 27 Stati dal 35,3% al 23,5%: il che significa che, dopo il forte “abbattimento” medio derivante dall’ingresso nella UE dei Paesi dell’Est, la riduzione delle aliquote nominali societarie si è sostanzialmente assestata su un livello medio di poco superiore al 20%.

Il dato sulla tassazione del reddito societario non è tuttavia pienamente significativo, non tenendo esso conto della “base imponibile” – ad oggi non armonizzata (con l’eccezione delle poche disposizioni di cui alla Direttiva c.d. ATAD, che comunque ha lasciato ampi margini di scelta agli Stati membri e ha formato oggetto di attuazione assai diversificata) ed oggetto in taluni Paesi, tra cui l’Italia, di un “allargamento” finalizzato a compensare almeno in parte la diminuzione dell’aliquota nominale3.

Il trend generale rilevato è comunque indiscutibile, trovando il divario tra tassazione del lavoro e del capitale – almeno a livello di aliquote nominali – una spiegazione: i) nella ridotta mobilità del primo rispetto al secondo, ii) nella liberalizzazione e globalizzazione dei mercati finanziari, che consentono politiche di “tax planning” su base mondiale, pur essendo state negli ultimi tempi oggetto di numerose iniziative di contrasto, sia a livello OCSE (si pensi al c.d. progetto BEPS), sia a livello comunitario (si pensi alle Direttive ATAD e DAC6), e, iii) nel peso crescente della spesa pubblica per i sistemi di welfare e per gli interessi sul debito pubblico, che deve essere finanziata in modo facile e sicuro.

Naturalmente, la situazione cambia – e non di poco – non appena si combini la tassazione della società con quella del socio persona fisica: sul punto torneremo tuttavia infra (par. 4.2. e par. 16).


2. Complessità del "sistema": fisco, previdenza, assistenza e accesso ai servizi pubblici essenziali.

Tanto precisato sui valori macro di riferimento a livello UE e sui corrispondenti livelli italiani, va sviluppata una ulteriore riflessione sempre di carattere “contestuale”, stavolta riferita al “sistema” quasi inestricabile in cui le componenti assistenziale, previdenziale e di accesso ai servizi pubblici essenziali interagiscono in Italia con quella fiscale, concorrendo tutte insieme a realizzare la c.d. “redistribuzione” della ricchezza e la stessa “progressività” del sistema.

Sicché occorre domandarsi se, e in quale misura, il dibattito in corso sulla “struttura” degli elementi costitutivi dell’Irpef (i.e. base imponibile ed aliquote), possa prescindere da una valutazione complessiva di tale sistema (ivi compresi gli altri tributi, anche locali, in primis le addizionali regionali e comunali) e degli effetti solidaristici e redistributivi che già esso realizza.

Per quanto riguarda, in primo luogo, il sistema previdenziale, esso già realizza una rilevante funzione solidaristica e redistributiva, segnatamente: i) le pensioni attualmente erogate sono, di regola, più che proporzionali rispetto ai contributi versati nel periodo lavorativo in applicazione del sistema retributivo, essendo stata differita nel tempo la piena operatività del sistema contributivo introdotto dalla L. n. 335/19954; ii) i sistemi previdenziali, pubblici e privati, garantiscono sempre trattamenti minimi, peraltro a favore di fasce sempre più estese di soggetti che contribuiscono, hanno contribuito o contribuiranno in minima parte al relativo finanziamento5; iii) sono sempre più frequenti, in questi ultimi anni, interventi legislativi di decurtazioni ex lege, anche in misura significativa, delle pensioni eccedenti un determinato ammontare, la cui legittimità la Corte costituzionale ha ormai avallato escludendone la natura tributaria perché considerati interventi di natura solidaristica attuati all’interno di quel medesimo sistema pensionistico che eroga a sua volta le pensioni oggetto della decurtazione 6.

Per quanto riguarda poi l’accesso ai servizi pubblici, anche qui la funzione redistributiva è sempre più evidente. È sufficiente richiamare l’esempio della sanità – ma considerazioni non molto diverse, anche se probabilmente meno drammatiche, potrebbero farsi per il sistema dell’istruzione – che da sola assorbe il 22,7% della spesa sociale 2019 (108,5 mld di euro su 479 mld di euro) ed il 13,4% della spesa corrente complessiva. Studi recenti7 evidenziano, infatti, che un italiano su due si è rassegnato a pagare di tasca propria una prestazione sanitaria senza neanche provare a prenotarla con il SSN; la quota del PIL destinata al SSN è tra le più basse al mondo; le liste d’attesa sono spesso insostenibili; una buona parte della sanità di Italia è finita sotto commissariamento, provocando una sensibile riduzione delle prestazioni fruibili nel servizio pubblico e/o accreditato (posti letto, riduzione dei LEA, riduzione dei tetti di spesa degli erogatori accreditati, ecc.); 14 milioni di italiani hanno ormai una polizza sanitaria; il sistema pubblico supplisce con l’intra- e l’extramoenia, che di pubblico, tuttavia, hanno ben poco, sol che si pensi alle relative tariffe8.

Il servizio sanitario nazionale sta dunque progressivamente trasformandosi in una sanità per chi non può permettersi le più rapide – ma ben più costose – alternative di natura strettamente privata (vale a dire, non accreditata con il SSN) o assicurativa, oppure, pur potendosele permettere, è in grado di attenderne pazientemente l’erogazione gratuita (o quasi) nel SSN. Alle esenzioni dal ticket per l’accesso ai servizi sanitari già previste per le categorie deboli9 – che, al limite, potrebbero essere considerati un prelievo complementare al “prezzo differenziale” costituito dalla progressività dell’imposta, che fa sì che soggetti in situazioni diverse contribuiscano in misura maggiore rispetto ai contribuenti più poveri per un accesso ai servizi gratuito ed universale10 – si aggiunge, pertanto, in funzione appunto redistributiva sul fronte della spesa, la circostanza che il sistema sanitario, per così come attualmente funziona, è ormai di fatto sostanzialmente rivolto ai meno abbienti. La mobilitazione della sanità pubblica per fronteggiare il COVID ha naturalmente rappresentato una rilevante eccezione a questo trend, ma è da attendersi che, “passata la nottata”, tutto tornerà come prima.

Anche il versante della spesa assistenziale è caratterizzato da un rilevante ruolo redistributivo e solidaristico, peraltro in rapida ascesa, risultando infatti dal Rapporto Istat su «La protezione sociale in Italia e in Europa» un sensibile incremento in termini percentuali dell’incidenza sulla spesa corrente per prestazioni sociali, segnatamente dal 7% degli anni ’90, a oltre l’11% del 2019, grazie anche all’effetto aggiuntivo dell’introduzione del reddito di cittadinanza, per un totale complessivo della spesa assistenziale di ca. 53 mld di euro11.

Con specifico riferimento al reddito di cittadinanza – composto da una parte che integra il reddito familiare ed un’altra parte che incrementa il beneficio di un ammontare annuo pari al canone di locazione per chi è in affitto, il tutto sino ad un massimo di 9.360 euro annui (moltiplicati per la scala di equivalenza e ridotti per il valore del reddito familiare) – vale peraltro rilevare, quanto alla interconnessione con il sistema nel suo complesso, che, da un lato, esso è esente dalle imposte sui redditi e, dall’altro, che l’importo effettivamente erogato dipende, a sua volta, dagli altri trattamenti assistenziali e dai redditi eventualmente percepiti dalla famiglia. La sua stessa struttura non è peraltro esente da critiche, evidenziandosene la presenza di trattamenti troppo generosi per i single, soprattutto al Sud, e di maggiorazioni piuttosto risibili per i nuclei più grandi12. Infine, pur trattandosi di una misura fondamentale per il contrasto alla povertà, si sottolinea come esso imponga un’altissima aliquota marginale su chi ha l’opportunità di iniziare un lavoro, dovendo pertanto essere coordinato meglio con l’imposta sul reddito e reso meno disincentivante verso il lavoro13.

Come inoltre evidenziato nel «Settimo Rapporto a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali» – che segnala, peraltro, come una parte rilevante della spesa assistenziale venga erroneamente allocata sotto il capitolo “pensioni” – relativamente all’anno 2018:

  • le prestazioni assistenziali formate da prestazioni per invalidi civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra, totalmente a carico della fiscalità generale, hanno riguardato 4,1 mln di soggetti per un costo complessivo di oltre 22,3 mld di euro. Ciò che, sommato ai beneficiari delle integrazioni al minimo, delle maggiorazioni sociali e della quattordicesima mensilità, fa sì che i beneficiari di prestazioni totalmente o parzialmente assistite siano 7,8 mln di persone, vale a dire circa il 50% dei pensionati totali;

  • il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale è ammontato a 105,7 mld di Euro, quasi il 50% in più rispetto ai 74 mld di euro del 2008.

A tali misure assistenziali si aggiunge il “bonus” previsto dal d.l. n. 3/2020, che ha abrogato l’art. 13, co. 1-bis, TUIR, già contenente il c.d. “bonus Renzi”, il quale, a decorrere dal 1.7.2020 e «nelle more di una revisione degli strumenti di sostegno al reddito», ha riconosciuto una c.d. «somma a titolo di trattamento integrativo» dei redditi di lavoro dipendente e assimilati nella misura di 100 euro/mese se il reddito complessivo non è superiore a euro 28.000; somma che non concorre, anch’essa, alla formazione del reddito.

Indicazioni fondamentali, sempre sul fronte redistributivo, provengono, altresì, dalla composizione del gettito Irpef, da cui si evince che14:

  1. in termini quantitativi:

    • il 30 per cento dei contribuenti presenta un reddito inferiore a 10.000 euro (rappresentando circa il 7 per cento del reddito imponibile complessivo);

    • un ulteriore 30 per cento dei contribuenti ha un reddito compreso tra 10.000 e 20.000 euro e versa circa il 10% dell’imposta totale;

    • il 43,9% dei contribuenti dichiara meno di 15.000 euro annui, versando ca. il 3,8% dell’imposta totale;

    • nei primi due scaglioni di reddito si concentra quasi l’80 per cento (79,2%) dei contribuenti, che in gran parte percepiscono redditi di importo molto basso e che versa ca. il 30% del tributo;

    • il 32% dei contribuenti totali subisce un prelievo Irpef pari a zero;

    • oltre la soglia di 41 mila euro si colloca l’8% dei contribuenti, che versa la metà dell’imposta totale;

    • oltre la soglia di 55 mila euro si colloca il 4,5% dei contribuenti;

    • il 20,8% dei contribuenti collocati a partire dal terzo scaglione versa ca. il 70% del tributo;

    • i contribuenti oltre 55.000 euro, pur rappresentando il 4,63% dei contribuenti, versano il 37,5% di tutta l’Irpef15;

    • i contribuenti che dichiarano oltre 75.000 euro rappresentano il 2,4% del totale, ma contribuiscono al 26,9% del gettito;

    • i poco più di 30.000 contribuenti (su oltre 40 milioni) che dichiarano oltre 300.000 euro contribuiscono al 6% del gettito;

  2. in termini qualitativi:

    • i redditi da lavoro dipendente e da pensione costituiscono circa l’84% della base imponibile e contribuiscono per l’81% al relativo gettito;

    • i redditi da lavoro dipendente costituiscono il 58% dei redditi tra i 75mila e i 300 mila euro e il 48% dei redditi oltre i 300 mila euro;

    • in tale contesto, la quota del reddito relativa a pensionati è in forte ascesa16.

Già da questa breve ricostruzione possono trarsi alcune considerazioni.

  1. La prima è che, se è vero che il dovere tributario, come recentemente ribadito dalla Corte costituzionale, è necessario non solo per la sopravvivenza dello Stato ma anche per il finanziamento dei diritti costituzionali17, è anche vero che il richiamo al welfare State sovente fatto a giustificazione della progressività del tributo mostra limiti sempre più marcati, essendosi fortemente allargato lo scarto tra chi concorre alla spesa pubblica18 e chi usufruisce del sistema di “benefici” appena tratteggiato. In altri termini, i contribuenti che maggiormente contribuiscono al gettito Irpef, non riescono, in molti casi, ad accedere alla fornitura dei servizi pubblici e tendono a rivolgersi al mercato privato, con la conseguenza che si alimenta l’insofferenza di coloro che non godono servizi pubblici pur finanziandoli, da ultimo finanche escludendo taluni di essi – come si vedrà – dalle detrazioni fiscali per le spese sostenute19. A ciò si aggiunge che la globalizzazione ha assestato un ulteriore colpo ai sistemi di welfare con il cd. “welfare shopping”, che determina l’erogazione di servizi pubblici essenziali anche a quei soggetti che, producendo redditi e pagando le imposte in altri Stati, non contribuiscono al finanziamento dei suddetti servizi20.
    Il che significa, da un lato, che a coloro che non godono dei servizi pubblici pur finanziandoli ben difficilmente possa chiedersi ancor di più di quanto viene oggi chiesto loro, non condividendosi pertanto le proposte finalizzate ad innalzare ulteriormente le aliquote massime
    21, le quali, tra l’altro, già sono oggi elevate in chiave comparata (infra, par. 3.1.); e, dall’altro, che non si condividono neanche quelle proposte che vorrebbero istituzionalmente riservare il servizio pubblico sanitario solo ai meno abbienti e ai casi più gravi e complessi, obbligando gli altri a munirsi di polizze sanitarie private, le quali, per svolgere questo compito, dovrebbero garantire tutti i LEA ed escludere la possibilità di recesso della compagnia dalla polizza in funzione dello stato di salute dell’assicurato22.

  2. La seconda è che tutto il sistema – fiscale, previdenziale, assistenziale e di accesso ai servizi pubblici essenziali – è fortemente interconnesso, variamente intrecciandosi le diverse misure tra di loro, ivi comprese quelle fiscali di natura “agevolativa” di cui si dirà meglio infra (par. 3.1., 3.2. e 6). Sicché, a parere di chi scrive, è difficile immaginare un intervento sull’Irpef che possa prescindere da una considerazione di tutto il “sistema” brevemente tratteggiato. Del resto, lo stesso legislatore mostra di esserne consapevole laddove istituisce la somma aggiuntiva di cui al d.l. n. 3/2020 «nelle more di una revisione degli strumenti di sostegno al reddito»23, oppure – come si preciserà oltre – istituisce l’ulteriore detrazione sino a 40.000 euro di reddito «in vista di una revisione strutturale del sistema delle detrazioni fiscali».

  3. La terza è che l’Irpef – per quei redditi, naturalmente, che confluiscono in dichiarazione – non ha affatto un problema di scarsa progressività nel suo complesso24, tant’è che è stato sottolineato in diverse audizioni il suo importante contributo alla riduzione dell’indice di Gini; il problema è invece quello – come si approfondirà infra (par. 3) – di un suo andamento “erratico”. Essa realizza già adesso un rilevante effetto redistributivo – ma, si preciserà pure infra, un analogo effetto si registra anche con le attuali imposte patrimoniali reali – sicché sotto questo profilo non appare necessaria (e tantomeno opportuna) un’ulteriore redistribuzione mercé l’inasprimento dell’imposta di successione25. E al riguardo non appare rilevante neanche l’assunto secondo cui la denatalità finirebbe per concentrare la ricchezza su pochi eredi, essendo da tempo in atto anche in Italia quel fenomeno di “disgregazione” delle famiglie già verificatosi in altri Paesi che, al contrario, agevola un più rapido “consumo” del patrimonio in vita e moltiplica i potenziali beneficiari delle successioni ereditarie, disperdendole anziché concentrandole.

  4. La quarta è che la stessa progressività non può essere valutata solo a livello di Irpef, dovendo essere valutata con riferimento all’intero sistema dei tributi, dei trasferimenti e dell’accesso ai servizi pubblici sopra brevemente delineato26.

  5. La quinta è che la funzione redistributiva dell’Irpef non deve comunque essere enfatizzata oltre misura. La sua funzione primaria, in ossequio ai doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e in conformità al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 cost., è di redistribuire l’onere della spesa pubblica tra tutti coloro che fanno parte della (o hanno una relazione colla) collettività – vuoi perché qui residenti, vuoi perché pur residenti in altri Stati traggono un reddito da fonti localizzate nel territorio dello Stato – e far sì che questa ripartizione si faccia in ragione sia di indici espressivi di forza economica, sia tenendo conto della diversa capacità di contribuzione di ciascuno, facendo sì che il sistema tributario, nel suo complesso – e non l’imposta sul reddito – garantisca una certa progressività. Pertanto, come peraltro avviene nella maggior parte degli Stati OCSE – e come già rilevato qualche decennio fa da illustri economisti27la redistribuzione deve avvenire essenzialmente con la spesa pubblica, non con il tributo28, rappresentando la progressività, secondo una determinata visione, il “prezzo differenziale” che i più abbienti sono tenuti a corrispondere per ottenere l’accesso gratuito ed universale ai servizi pubblici29. Ciò peraltro, come sottolineato, renderebbe le riforme del sistema Irpef meno vincolate alla misurazione dei contribuenti beneficiati e di quelli danneggiati nell’ambito di una singola imposta, in favore di visioni più ampie sulle forme di compensazione che possono essere implementate attraverso l’intero bilancio pubblico30.

  6. La sesta ed ultima, che la rilevante percentuale composta da redditi di lavoro dipendente e pensioni, in presenza di un Paese con oltre 1,5 mln di imprese individuali e 650.000 società di persone in cui il reddito è imputato ai soci, si spiega ovviamente con la diffusa evasione, che mina la realizzazione dell’equità orizzontale, togliendo forza anche al dibattito sull’equità verticale31: argomento, quest’ultimo, pure esso di segno contrario all’inasprimento del tributo sui redditi.


3. La determinazione dell'Irpef e l'andamento "erratico" della progressività.

Tutte le audizioni si sono soffermate sull’andamento “erratico” della progressività Irpef, proponendo diverse soluzioni.

Ci soffermeremo pertanto sugli elementi che concorrono a determinare questo andamento “erratico”, svolgendo talune riflessioni al riguardo.


3.1. Gli scaglioni e le aliquote

Come noto, ai sensi dell’art. 11, TUIR, sono previste le seguenti aliquote applicate ai seguenti scaglioni di reddito:


Scaglione

Aliquota

Fino a 15.000 euro

23 per cento

Oltre 15.000 euro e fino a 28.000 euro

27 per cento

Oltre 28.000 euro e fino a 55.000 euro

38 per cento

Oltre 55.000 euro e fino a 75.000 euro

41 per cento

Oltre 75.000 euro

43 per cento


Il livello delle aliquote “nominali” è peraltro ancora più elevato per effetto delle addizionali comunali e regionali, tant’è che nel Documento della Commissione UE richiamato nella Premessa, l’aliquota marginale massima dell’Italia viene indicata nella misura del 47,2%, a fronte di un valore medio dell’Europa a 19 Stati del 42,9% (che diviene il 38,8% considerando l’Europa a 27 Stati). È sufficiente pensare al caso della Regione Lazio che, nell’adottare un sistema di aliquote progressive (riferite ai medesimi scaglioni dell’Irpef), parte dall’1,73% per giungere al 3,33%, vale a dire (tuttora) nella misura massima consentita (pur uscita dal Commissariamento nel 2020).


3.2. Le deduzioni

Le aliquote sopra indicate trovano applicazione su un reddito al netto delle deduzioni previste dall’art. 10, TUIR.

Esse costituiscono un numero esiguo nel TUIR e quelle previste, pur riguardando fattispecie eterogenee, rispondono a finalità per lo più “strutturali” (i.e. costi di produzione dei redditi fondiari; spese per soggetti disabili di cui alla L. n. 104/1992; assegni periodici corrisposti al coniuge, “specularmente” tassati su quest’ultimo; somme già tassate in precedenti esercizi oggetto di restituzione; contributi previdenziali, poiché tassati nella fase dell’erogazione del trattamento pensionistico).

Fanno eccezione alla indicata natura strutturale le “erogazioni liberali” di cui alle lett. g), i), l), l-ter), l-quater).

C’è poi la questione dell’abitazione principale, si cui si tornerà infra.


3.3. Le detrazioni

Ben più problematico è il sistema delle detrazioni.

Ai sensi dell’art. 11, co. 3, TUIR, l’imposta netta è determinata operando sull’imposta lorda, fino a concorrenza del suo ammontare, le detrazioni previste negli articoli 12, 13, 15, 16 e 16-bis TUIR, nonché in altre disposizioni di legge.

Segnatamente, si tratta di:

  • detrazioni per carichi di famiglia (art. 12, TUIR), inversamente proporzionali al reddito e che si azzerano per il coniuge a 80.000 euro di reddito, e per i figli a carico a 95.000 euro di reddito;

  • detrazioni per i redditi di lavoro dipendente, pensioni comprese, per redditi di lavoro autonomo e derivanti da imprese c.d. minori (art. 13, TUIR), di importo variabile, inversamente proporzionali al reddito e che si azzerano a 55.000 euro di reddito;

  • altre detrazioni (art. 15, TUIR), interamente spettanti sino ad un reddito di 120.000 euro, per poi divenire inversamente proporzionali sino ad azzerarsi a 240.000 euro di reddito (con l’eccezione delle le spese per interessi passivi e delle spese sanitarie, non soggette a limiti di reddito); il “catalogo” del TUIR è amplissimo: interessi passivi, spese sanitarie, compensi ad intermediari immobiliari, spese veterinarie, spese per interpretariato di sordomuti, spese funebri, spese di istruzione, spese per istruzione musicale, spese per attività sportive, premi per assicurazioni, spese per manutenzione di beni vincolati, canoni di locazioni sostenuti da studenti in trasferta, erogazioni liberali di vario genere;

  • detrazioni per canoni di locazione per abitazione principale (art. 16, TUIR), spettanti sino a un reddito di € 30.987,41;

  • detrazioni per il recupero del patrimonio edilizio e per la riqualificazione energetica degli edifici (art. 16-bis, TUIR).

A ciò si aggiungono le numerose detrazioni previste da leggi speciali, che gli interventi emergenziali Covid hanno dovuto, per forza di cose, estendere ulteriormente in numero e per importi cospicui.

Tra le varie detrazioni va menzionato quanto previsto dal d.l. n. 3/2020, che ha abrogato l’art. 13, co. 1-bis, TUIR, già contenente il c.d. “bonus Renzi”, e – a decorrere dal 1.7.2020 e «in vista di una revisione strutturale del sistema delle detrazioni fiscali» – ha fissato una «ulteriore detrazione fiscale per redditi di lavoro dipendente e assimilato», nella misura di 80 euro/mese sia per i redditi compresi tra 28.000 euro e 35.000, sia per quelli compresi tra 35.000 euro e 40.000 euro, con importi inversamente proporzionali per ciascuna fascia (oltre a prevedere la “somma aggiuntiva” di cui già si è detto supra).

Si tratta, come è stato bene evidenziato, di un sistema che presenta numerose criticità intrinseche: il valore anacronistico del limite di reddito per considerare un familiare a carico, la percentuale di detraibilità prevista (attualmente il 19%) in rapporto alle aliquote vigenti, l’inclinazione della detrazione per reddito di lavoro dipendente per la fascia 8-28mila euro e quella per la fascia 28-55mila euro, la funzione non continua della detrazione effettiva per il coniuge a carico32.

Due osservazioni conclusive.

La prima, che le detrazioni possono essere operate “sino a concorrenza” del­l’ammontare dell’imposta netta (art. 11, co. 3). Le eccedenze di detrazioni generano pertanto il fenomeno dei c.d. “incapienti”, cui il legislatore ha talvolta eccezionalmente rimediato in tempi recenti prevedendo la possibilità di fruire del beneficio fiscale attraverso uno sconto in fattura o mediante la trasformazione in credito di imposta cedibile a terzi,

La seconda, che il legislatore non prevede una c.d. “no tax area”, risultando questa solo indirettamente dalle detrazioni per tipologia di reddito concesse nei casi sopra indicati. Si tratta, tuttavia, di una scelta censurabile, perché l’esenzione del c.d. minimo vitale dovrebbe valere per tutti i contribuenti, mentre in questo caso esse funzionano come una sorta di discriminazione “qualitativa” tra redditi. Come rileva la dottrina tributaria, «il diritto al minimo esente è “di tutti” (in quanto «tutti sono tenuti … in ragione della loro capacità contributiva) senza distinzioni corporative»33.


3.4. Gli effetti indesiderati del design dell’attuale sistema e le proposte avanzate per superarli.

La combinazione di tutti questi elementi così eterogenei tra loro – tra tutti il forte salto di aliquota tra il secondo e il terzo scaglione e il fatto di aver reso le detrazioni decrescenti con il reddito34 – unitamente alla duplice circostanza che i) superata la fascia di esenzione da Irpef, le addizionali locali sono applicate su tutto il reddito, compreso quello non soggetto all’imposta nazionale, e ii) oltre un determinato reddito, si perde il diritto ai trasferimenti (ad es., assegni familiari), fa sì, come rilevato da numerose tra le audizioni sin qui svoltesi che si determini:

  • un andamento erratico delle aliquote effettive, sia medie che marginali, al crescere del reddito imponibile35;

  • una crescita accentuata delle aliquote effettive nella fascia media e medio-bassa36; il tutto, determinando, a sua volta, oltre a fenomeni di iniquità, anche:

  • un disincentivo all’offerta di lavoro per via di una imposizione elevata già su livelli non elevati di reddito;

  • una scarsa trasparenza dell’imposta.

Ma sussistono rilevanti differenze anche tra le diverse categorie dei redditi di lavoro maggiormente interessate dall’Irpef, segnatamente:

  • la curva della progressività è diversa: per i titolari di redditi di lavoro autonomo, l’aliquota Irpef è pari a zero sino a 4.664 euro; per i titolari di pensioni, sino a 8.128 euro; per i redditi da lavoro subordinato, in cui scatta il bonus 100 euro, sino a 12.506 euro (8.145 euro, invece, ai fini delle addizionali, poiché non interessate dal “bonus”);

  • è diverso persino il reddito di riferimento, costituito dal “reddito di categoria”: quest’ultimo è infatti determinato, per i lavoratori dipendenti, al netto dei contributi previdenziali e, per i lavoratori autonomi, al lordo dei contributi previdenziali, poiché deducibili non dal reddito di categoria, ma dal reddito complessivo;

  • il bonus di 100 euro, che è un vero e proprio trasferimento monetario, è stato riservato ai soli lavoratori dipendenti, dando luogo ad un’ulteriore perdita del carattere di generalità dell’imposta personale37.

A parità di reddito dichiarato, l’Irpef sul lavoro dipendente è dunque più bassa rispetto ad altre categorie dei redditi da lavoro38, anche se è stato rilevato come a conclusioni opposte può pervenirsi laddove si abbia riguardo all’incidenza sul costo del lavoro considerando anche i contributi previdenziali39, circostanza che conferma, sotto un ulteriore profilo, l’impossibilità di guardare “isolatamente” all’Irpef disinteressandosi del sistema.

Tra le varie soluzioni proposte per rimediare all’andamento erratico della curva, vi sono, schematizzando:

  • da un lato, l’istituzione di una “progressività continua” basata su un’aliquota continua, senza scalini o salti di imposta40; si registrano tuttavia anche posizioni contrarie, per via delle difficoltà di coordinamento logiche e tecniche con le addizionali locali41, nonché perché esso rende meno visibili le aliquote marginali di sistema42;

  • dall’altro, il sostanziale mantenimento del sistema attuale con talune modifiche, tra cui:

    • la previsione di un reddito minimo esente variabile in base alla composizione della famiglia, accompagnata da una maggiore articolazione delle aliquote e scaglioni e da un’imposta negativa43;

    • un nuovo design delle detrazioni di lavoro dipendente con un allargamento del reddito-limite, accompagnato dall’abbassamento del differenziale di aliquota tra il secondo e terzo scaglione e dalla riduzione dell’ampiezza del terzo scaglione con ampliamento del quarto44;

    • un intervento sulle aliquote, con eliminazione di quella del 38%, sostituita da quella del 27%, e un accorpamento delle due aliquote del 31% e del 43% in una intermedia45.

Per le detrazioni, se ne auspica poi una struttura costante e non decrescente, eventualmente articolate anche in relazione all’età e del rischio implicito dell’attività svolta46.

Poche sono tuttavia le soluzioni accompagnate da stime.

Ad avviso di chi scrive, quanto sopra ampiamente sottolineato in ordine allo strettissimo grado di “interconnessione” tra le varie misure solidaristiche e redistributive previste nel nostro ordinamento, rende evidente come la soluzione più corretta non possa che pervenire dall’elaborazione di un “modello” in grado di gestire e di tenere conto, nella misura massima consentita, di tutte le variabili indicate, tra cui, ultimi arrivati in ordine di tempo, l’assegno unico universale di prossima implementazione – sempreché sia questa la strada che si riterrà ancora di percorrere, anche alla luce di quanto si dirà infra (par. 7) – la “somma aggiuntiva” e la detrazione di cui al d.l. n. 3/2020, posto che mentre il bonus Renzi si azzerava a 26.600 euro, il d.l. n. 3/2020 ha interessato, come visto, ulteriori fasce di reddito sino a 40.000 euro.

Sembra in ogni caso a chi scrive che questi dovrebbero essere i punti fermi:

  1. occorre tenere ben distinto il piano della capacità contributiva del singolo contribuente, da quello delle condizioni di “necessità”, che deve essere integrato con ulteriori indicatori (patrimonio, ecc.) e porsi sul fronte dei trasferimenti47;

  2. il piano della capacità contributiva va ricostruito nella sua dimensione “personale”, riconoscendo pertanto, a tutti i contribuenti, quelle deduzioni e detrazioni per quegli oneri che hanno carattere inevitabile e necessitato, diminuendo la disponibilità economica utilizzabile per il concorso alle spese pubbliche, e ciò indipendentemente dal livello di reddito (così, ad es., per le detrazioni per coniugi a carico o per figli a carico, che confondono la loro ragione teorica di “correzione della capacità contributiva” con obiettivi redistributivi); e questo vincolo non è solo qualitativo, ma anche quantitativo, poiché «quando le deduzioni o le detrazioni per oneri personali hanno carattere meramente simbolico, per nulla indicativo della realtà dell’onere, e quindi suonano quasi irrisorie del limite costituzionale, il legislatore viola il principio di capacità contributiva e la Corte ha il dovere di assumere le decisioni che ne conseguono»48;

  3. dall’altro, occorre considerare la funzione delle detrazioni quale modalità per determinare il reddito al netto dei costi di produzione, sussistente ad ogni livello di reddito49;

  4. dall’altro ancora, infine, occorre tenere conto del fatto che non si può contribuire “in negativo”, ma al più non contribuire affatto, e ciononostante beneficiare della spesa pubblica. Una volta azzerata la loro capacità contributiva, il problema degli incapienti va risolto dunque con i trasferimenti, non con il rimborso della incapienza50.


4. La base imponibile

La questione della “progressività” presuppone in ogni caso la soluzione della questione “a monte” del modello di imposta che si intende adottare, vale a dire una comprehensive income tax, un modello c.d. “duale” o un modello “misto” (com’è attualmente in Italia).

È ben nota la perdita della vocazione dell’IRPEF di porsi come imposta progressiva sul reddito complessivo, sempre più ampio essendo il numero di redditi esclusi da una tassazione progressiva in favore di una tassazione c.d. “cedolare” o “reale” (rendite finanziarie, canoni di locazione, premi di risultato, redditi di lavoro autonomo e di impresa sino a 65.000 euro di compensi/ricavi, plusvalenze immobiliari, ecc.).

Di questo sistema – in parte progressivo, in parte proporzionale – si è rilevata la non sostenibilità, poiché foriero di un aumento delle disuguaglianze. Soprattutto, tra le tante misure, quella che ha destato maggiori critiche è l’estensione dei regimi di tassazione forfettaria per i titolari di redditi di impresa e di lavoro autonomo fino a 65 mila euro. In relazione a tale assetto, la dottrina51 ha ritenuto necessario usre dall’attuale sistema ibrido ed effettuare una scelta definitiva: o tornare a connotare in senso unitario e progressivo l’ordinamento nazionale o connotarlo in maniera definitiva secondo una logica “duale”, ed è in questa prospettiva che si sono collocate diverse tra le audizioni sin qui svolte.

Quel che appare piuttosto evidente dalla lettura delle audizioni è che la messa in opera di un sistema “duale” teoricamente perfetto aumenterebbe a dismisura il livello di complessità di gestione del sistema, in piena collisione con i principi di semplicità e certezza che devono informare un ordinamento competitivo52.

Dobbiamo dunque interrogarci:

  1. se alla base dei sistemi proporzionali di tassazione – soprattutto, per importanza quantitativa, i redditi da locazione rientranti nel regime di c.d. cedolare secca, i redditi finanziari e i redditi di lavoro autonomo e di impresa oggetto della c.d. “flat tax”53 – vi siano valutazioni meritevoli di considerazione ai fini del mantenimento della tassazione cedolare;

  2. se sussistano, in ogni caso, elementi ostativi all’inclusione nel reddito complessivo di determinati redditi.

Alla prima domanda risponderemo nei sottoparagrafi che seguono.

Quanto alla seconda, in tutte le audizioni è stata sostanzialmente respinta l’ipotesi di includere i redditi di natura finanziaria nel reddito complessivo, e ciò per numerosi motivi, tra cui:

  • essa comporterebbe un aumento del costo del capitale per le imprese54;

  • essa comporterebbe maggiori incentivi al trasferimento all’estero dei capitali, ad oggi non esclusi dai progressi pur compiuti sul fronte dello scambio di informazioni55;

  • essa accentuerebbe la doppia imposizione a livello di utili e di plusvalenze56;

  • essa si tradurrebbe in un notevole aggravio dei costi di amministrazione, a livello di Amministrazione finanziaria, di intermediari, di risparmiatori57;

  • essa comporterebbe effetti negativi sul tasso di risparmio degli individui58;

  • essa scoraggerebbe l’assunzione di rischio, in particolare nel caso di investimenti in imprese innovative e start up che tipicamente generano rendimenti elevati solo in una fase avanzata del ciclo di vita degli investimenti59.


4.1. La tassazione degli immobili

Venendo adesso alle più rilevanti forme di tassazione cedolare e principiando dalla tassazione degli immobili, può essere utile, per comprendere l’attuale livello di imposizione, muovere dal documento MEF-Agenzia delle Entrate «Gli immobili in Italia 2019. Ricchezza, reddito e fiscalità immobiliare»60.

In tale documento, sono contenute due affermazioni dalle quali si può partire per ricostruire la tassazione “media” – tra imposte sul reddito e sul patrimonio – di un immobile destinato ad investimento a seconda che il reddito dell’immobile sia soggetto a cedolare secca oppure ad imposta progressiva (essendo ovviamente soggetto ad IMU non trattandosi dell’abitazione principale).

Segnatamente, le affermazioni rilevanti sono due:

  1. quella secondo cui i canoni di locazione sono mediamente superiori di 8 volte le rendite catastali61;

  2. quella secondo cui i valori di mercato sono mediamente superiori di 2 volte il valore imponibile IMU62.

Ebbene, ipotizzando un immobile con rendita catastale pari a 100, è possibile ricostruire i seguenti valori “medi”:

  1. il canone di locazione, poiché pari a 8 volte la rendita catastale, e dunque pari a 800;

  2. il valore ai fini IMU, dato dalla rendita catastale (100), rivalutata al 5% e moltiplicata per 160 (destinazione abitativa), e dunque pari a 100*1,05*160 = 16.800;

  3. il valore di mercato, pari al doppio del valore IMU, e dunque a 16.800 * 2 = 33.600;

  4. l’IMU corrispondente, pari all’11,4 per mille di 16.800, e dunque a € 191,52;

  5. la redditività lorda di un investimento immobiliare, pari al rapporto tra canone di locazione (800) e valore di mercato (33.600), e dunque pari al 2,38%;

  6. l’incidenza dell’IMU sul canone di locazione, pari al rapporto tra l’IMU (191,52) e il canone di locazione (800), e dunque pari al 23,9%.
    Di qui le prime considerazioni: mediamente, un investimento immobiliare rende il 2,38% lordo, e
    di tale rendimento quasi un quarto viene assorbito dall’IMU.

Si tratta adesso di ricostruire la redditività netta, a seconda delle due possibili ipotesi, segnatamente:

  1. immobili soggetti IMU senza cedolare;

  2. immobili soggetti IMU con cedolare.

Sviluppando tutti i dati sopraindicati e

  • considerando che a carico del titolare dell’immobile concesso in locazione resta, nel caso di tassazione progressiva Irpef, anche l’imposta di registro nella misura del 50% di quanto complessivamente dovuto (la metà, dunque, del 2% del canone annuo),

  • assumendo una aliquota Irpef del 38% quale proxy dell’aliquota media in cui potrebbero collocarsi i possessori di immobili destinati ad investimento,

emerge la seguente situazione:


Tabella 2. Calcolo incidenza media imposizione reddituale e patrimoniale sui redditi immobiliari, senza e con cedolare secca.



In sostanza, in assenza di cedolare secca, le imposte sugli immobili – reddituali e patrimoniali – incidono per il 61% sul canone di locazione, determinando una redditività netta dell’investimento immobiliare nella misura dello 0,93%. Tale incidenza aumenterebbe di quasi altri 10 punti percentuali assumendo l’aliquota marginale massima (43%) e sommandovi le addizionali regionale e comunale.

Con la cedolare, l’incidenza complessiva scende invece al 44,9%, con una redditività netta dell’1,31%; con l’aggravio, però, per il locatore di rinunziare all’incremento annuale ISTAT del canone di locazione.

Rendimenti, questi, che non tengono naturalmente conto dei costi effettivi di gestione non deducibili dalla base imponibile (considerati solo a forfait nel regime ordinario).

Da quanto sopra risulta, con evidenza, che la cedolare secca ha una prima, essenziale funzione: quella di ripristinare una “parvenza” di rendimento ad un investimento immobiliare che, altrimenti, mancherebbe di qualsivoglia appetibilità, generando una corrispondente depressione sui prezzi di vendita63.

E del resto, la necessaria considerazione degli effetti complessivi dell’imposizione patrimoniale e reddituale ai fini della determinazione del carico massimo sopportabile in relazione ad un cespite – nel senso che per effetto del concorso di imposte di diversa natura non si dovrebbe superare una “quota” del reddito complessivo del soggetto – è confermato anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca la quale, seppure non ha inteso fissare un limite quantitativo massimo all’imposizione tributaria, assume in ogni caso tale “concorso” quale parametro per la valutazione della ragionevolezza dell’imposizione64.

A ciò deve aggiungersi:

  1. che la deduzione forfetaria del 5% prevista nel caso di regime dichiarativo ordinario è fortemente sottostimata rispetto a quelli che sono i costi reali di gestione di un bene immobile; non è un caso che, originariamente, essa fosse pari al 15% e, prima ancora, al 25%. Ciò in ossequio al principio del reddito “netto”, quale declinazione del requisito di c.d. “effettività” della capacità contributiva, anche recentemente ribadito dalla Corte costituzionale65;

  2. che la previsione di un’imposizione “sostitutiva” assimila l’investimento immobiliare a quello in valori mobiliari (sia pure con aliquota non pienamente coincidente).

In conclusione, la cedolare secca ha una sua precisa ratio consistente nel ripristinare un minimo di redditività degli investimenti immobiliari e condurre la tassazione complessiva ad un livello accettabile (ca. il 45%)66.

Sotto questo profilo non si condivide:

  • né la scelta di non riconfermare la “cedolare secca” per gli immobili ad uso non abitativo adottata per il solo anno 2019;

  • né le proposte di eliminare quella “a regime”, pur formulata in talune audizioni67. Deve infatti ritenersi argomento recessivo, al cospetto del livello di tassazione complessiva appena evidenziato, quello degli scarsi benefici in termini di emersione di base imponibile e di riduzione dell’evasione fiscale verificatisi;

  • né, infine, quella di allineare l’aliquota a quella del 26% prevista per i redditi finanziari68, poiché non considera il particolare contesto in cui si colloca l’aliquota del 21%.

Naturalmente, i già asfittici rendimenti evidenziati non tengono conto:

  • né delle imposte pagate sull’acquisto che, per immobili non a destinazione abitativa, sono pari al 9% a titolo di imposta di registro applicata al valore di vendita (o, ricorrendo specifiche condizioni soggettive ed oggettive, al valore catastale);

  • né dell’imposta di successione nella misura attualmente applicabile.

Il che spiega, ulteriormente, quali sarebbero gli effetti negativi sugli investimenti immobiliari di un eventuale inasprimento di quest’ultima.

Trovo pertanto sorprendente leggere in talune audizioni che il settore immobiliare sarebbe «sottotassato nel nostro ordinamento», salvo che non ci si intenda riferire al problema della abitazione principale di cui si dirà infra69.


4.2. La tassazione dei redditi finanziari

Le attività finanziarie hanno formato oggetto di un rilevante aggravio impositivo negli ultimi anni, con un primo aumento, per effetto del d.l. n. 138/2011, dell’aliquota (prevalente) dal 12,50% al 20%, con l’introduzione e poi l’incremento dell’imposizione patrimoniale (dal 0,15% al 0,20%) nonché (per alcune) dalla Tobin Tax e, infine, con l’ulteriore incremento dal 20% al 26% attuato con il d.l. n. 66/201470.

Ciò che ha condotto ad un considerevole incremento di gettito dei prelievi sui redditi e capitali finanziari.

Sono peraltro pochissimi gli Stati che adottano patrimoniali reali sulla ricchezza finanziaria71.

Per avere un’idea dell’attuale livello di tassazione, è interessante muovere dal seguente prospetto, che esamina ancora una volta la tassazione complessiva – tra imposta sostitutiva, imposta di bollo e tobin tax – a seconda della tipologia di investimento, ipotizzando un (realistico) rendimento dell’1%72.


Tabella 3. Calcolo incidenza imposizione reddituale e patrimoniale sui redditi da azioni, obbligazioni, titoli di stato e conti correnti.



Per rendimenti dell’1%, la tassazione sugli interessi raggiunge ormai il 46% del rendimento stesso, tra imposte sul reddito e patrimoniali, senza naturalmente considerare le commissioni bancarie e gli altri costi di gestione. Su rendimenti maggiori il peso complessivo diminuisce, ma in ogni caso esso comporterebbe l’assunzione di rischi di investimento ben maggiori – soprattutto in questa fase storica – con il rischio di perdite di capitale.

Anche gli investimenti azionari sono pesantemente penalizzati. In questo caso, tenendo conto della Tobin Tax, di una periodicità di disinvestimento annuale e di un rendimento dell’1%, la tassazione dei dividendi raggiunge il 56%. Se si tiene conto della c.d. “doppia imposizione economica”, e pertanto delle imposte sugli utili pagati dalla società ante distribuzione, l’incidenza percentuale raggiunge il 67% (Irap esclusa, considerando l’Irap su una base imponibile uguale all’Ires, la tassazione sale al 69%).

Per le partecipazioni non qualificate si verificava addirittura una maggiore tassazione rispetto alle partecipazioni qualificate, questione che è stata risolta dal 1.1.2020 mediante l’applicazione anche alle partecipazioni qualificate della tassazione a titolo di imposta del 26%. Si è scelto, dunque, di equiparare la tassazione delle seconde alle prime, ma non, come sarebbe dovuto avvenire, di prevedere un regime fiscale più favorevole per le prime.

Sotto questo profilo, deve essere valutata favorevolmente la proposta avanzata in talune audizioni di consentire ai titolari di partecipazioni non qualificate l’opzione per la tassazione dei dividendi in dichiarazione.

In ogni caso, va rilevato che il d.l. n. 66/2014 ha sollevato diversi dubbi tra cui:

  • per gli interessi diversi da quelli sui titoli di Stato, l’aliquota unica non tiene conto di fattori importanti dell’investimento, quali il suo oggetto o la sua durata;

  • esso prevede per gli investimenti in strumenti finanziari diversi dai titoli di stato una aliquota più che doppia, con rilevanti problemi anche di giustificazione in termini costituzionali non apparendo l’investimento in titoli di Stato meritevole di una così ampia differenziazione in termini di aliquota applicabile;

  • esso rende più conveniente acquistare titoli di stato di un Paese estero anziché obbligazioni corporate emesse da società italiane, così da rendere ancora più complesso il finanziamento di queste ultime al di fuori del canale bancario. Tali società, inoltre, sono costrette ad offrire rendimenti lordi maggiori per garantire i medesimi rendimenti netti, con un maggior costo della raccolta che ne aggrava la posizione finanziaria e anche quella fiscale, per via della limitazione alla deduzione degli interessi passivi fissata dall’art. 96 TUIR. Mutatis mutandis, analogo ragionamento può estendersi ai dividendi corrisposti ai soci non qualificati, atteso che per garantire il medesimo rendimento netto sarà necessario distribuire una maggiore quota dell’utile prodotto, sottraendo risorse dal patrimonio dell’impresa.

In conclusione, le scelte sin qui adottate sulla tassazione dei redditi di natura finanziaria presentano una serie di problemi sia sotto il profilo del carico complessivo che esse scontano, sia sotto il profilo della neutralità.

Torneremo tuttavia sul tema nella seconda parte del presente lavoro.


4.3. La c.d. “flat tax” per il lavoro autonomo e le imprese

Elemento molto discusso ed oggetto di critica in pressoché tutte le audizioni è la c.d. flat tax al 15% per il lavoro autonomo e le imprese sino all’importo di € 65.000 di ricavi/compensi.

Volendo tuttavia approfondire, ipotizzando un ammontare di compensi di un professionista pari a 55.000 euro, si illustra di seguito la situazione che viene a verificarsi a seconda che il professionista abbia una cassa professionale o sia iscritto alla gestione separata INPS.


Tabella 4. Calcolo incidenza media imposizione reddituale e contribuzione previdenziale su redditi di lavoro da attività professionale in regime forfetario.


Se, dunque, guardando alla sola aliquota del 15% la questione in termini di equità orizzontale parrebbe particolarmente grave – tenuto conto che si tratta di un valore neanche lontanamente paragonabile a quello che incide sulle altre categorie di redditi da lavoro, ma anche su tutti i redditi di lavoro autonomo nel caso di compensi superiori a 65.000 euro – occorre tuttavia tenere conto di una serie di “fattori” ulteriori, di difficile stima, che potrebbero portare ad una conclusione opposta, segnatamente:

  1. le percentuali forfettarie di deducibilità dei costi previste: una compiuta valutazione della misura richiederebbe di valutare se le percentuali forfetarie previste siano davvero espressive degli effettivi costi di produzione del reddito sostenuti, riscontrandosi, per quanto a me noto e come anche risultante da talune audizioni delle associazioni datoriali73, rilevanti differenze a sfavore del lavoratore autonomo per diverse fattispecie; a titolo esemplificativo, dalle ipotesi sopra sviluppate, emerge che un professionista con 55.000 euro di compensi – i quali, tra l’altro, includono anche i rimborsi delle spese sostenute per lo svolgimento della prestazione d’opera – si vede riconosciute spese per 1.000 euro al mese (compresi i suddetti rimborsi!), circostanza che già fornisce un’idea della generale sottostima dei costi effettivi, risultando così il regime vantaggioso per attività ad elevato valore aggiunto (o per finte attività di lavoro autonomo). È questo il motivo per cui è stato rilevato che la scelta di aderire al regime è stata effettuata spesso non per la tassazione, quanto per le semplificazioni in termini di adempimenti che il regime prevede74;

  2. i contributi previdenziali: tale valutazione si riflette, naturalmente, anche sui contributi previdenziali di categoria, che nella gestione separata incidono per un non certamente irrisorio 25,76%, che rischiano di trovare applicazione ad una base imponibile tendenzialmente sovradimensionata;

  3. la perdita di deduzioni e detrazioni: l’estraneità al reddito complessivo del reddito assoggettato alla c.d. flat tax, comporta, in mancanza di altri redditi soggetti ad Irpef, la perdita della possibilità di usufruire delle ordinarie deduzioni e detrazioni Irpef (familiari a carico, spese mediche, interessi sul mutuo, etc.), essendo l’unica deduzione possibile quella relativa ai contributi previdenziali obbligatori versati;

  4. l’impossibilità di compensare le perdite: tale estraneità comporta, altresì, l’impossibilità di compensare le perdite eventualmente derivanti dall’attività di lavoro autonomo;

  5. l’indetraibilità dell’IVA sugli acquisti: il regime comporta, altresì, la perdita del diritto a detrarre l’IVA, che diviene pertanto un “costo” per detti contribuenti. Il che significa, con riferimento a quanto illustrato sub a), che i costi ammessi (ca. 1.000/euro mese, nell’esempio fatto) devono addirittura ritenersi comprensivi di IVA.

In conclusione, si tratta di elementi difficilmente stimabili in astratto, sicché mi pare che ciò non consenta alcuna valutazione aprioristica sull’effettiva convenienza di tale regime.

Sotto questo profilo, le affermazioni generalizzanti contenute in talune audizioni devono ritenersi errate75, mentre deve convenirsi con chi correttamente utilizza il termine di «applicazione forfetaria dell’imposta» e sottolinea l’inappropriatezza del termine «flat tax»76.


4.4. Conclusioni sulla base imponibile

In conclusione, quanto sopra rilevato rende evidente come non possano dirsi sufficientemente meditate quelle posizioni di chi auspica il ritorno ad un passato della comprehensive income tax in conformità ai principi ispiratori della Legge delega n. 825/1971, essendo in questi cinquant’anni cambiato il mondo e richiedendosi un sistema tributario “flessibile” idoneo ad adattarsi alle nuove esigenze imposte dalla concorrenza fiscale e dalla globalizzazione.

Del resto, la dimostrazione plastica di questa nuova prospettiva la offrono i c.d. regimi speciali c.d. “attrattivi”, segnatamente:

  • l’agevolazione per i lavoratori c.d. “impatriati” (art. 16, d.lgs. n. 147/2015 e s.m.i.), rivolta ai soggetti dipendenti, lavoratori autonomi o imprese, in possesso di determinati requisiti, che non siano stati residenti in Italia nei due anni di imposta precedenti al trasferimento e che si impegnano a rimanerci per almeno due anni. Ad essi è applicabile, per il periodo di imposta nel quale avviene il trasferimento della residenza in Italia e per i quattro successivi (prorogabile di altri cinque al ricorrere di determinate condizioni), una riduzione della base imponibile del 70% del reddito; se la residenza è trasferita in una regione del Mezzogiorno, la riduzione è pari al 90% del reddito;

  • l’agevolazione per il c.d. “rientro dei cervelli” (art. 44, d.l. n. 78/2010 e s.m.i.): un regime ancor più favorevole, che prevede una riduzione del 90% della base imponibile, è previsto per favorire il rientro di docenti e ricercatori residenti all’estero, anche qui ricorrendo determinate condizioni;

  • 7l’agevolazione per i pensionati esteri (art. 24-ter, TUIR), che prevede un’imposta sostitutiva ai fini Irpef del 7% nel caso di trasferimento della residenza fiscale in uno dei Comuni appartenenti al territorio di regioni del Sud applicabile alle pensioni erogate da soggetti esteri e ad ogni altro reddito prodotto all’estero;

  • l’agevolazione per i c.d. “neoresidenti” (art. 24-bis, TUIR): destinatari sono i soggetti non residenti in Italia in 9 anni sui 10 periodi precedenti a quello di esercizio dell’opzione, e comporta l’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’Irpef su tutti i redditi di fonte estera nella misura di 100.000 euro annui, oltre all’esonero dal monitoraggio fiscale, da IVIE, da IVAFE e dall’imposta sulle successioni e donazioni per i beni e i diritti esistenti all’estero al momento della successione;

  • l’agevolazione per gli sportivi professionisti (art. 16, co. 5-quater e 5-quinquies, d.lgs. 147/2015 e d.l. 34/2019), applicabile ad atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici residenti all’estero per almeno 2 anni che trasferiscono la residenza fiscale in Italia e si impegnano a restarvi per almeno 2 anni lavorando prevalentemente nel territorio italiano, in cui è prevista la riduzione dell’imponibile del 50% per 5 anni dal trasferimento (oltre ad un contributo pari allo 0,5% della base imponibile destinato al potenziamento dei settori giovanili).

Ebbene, come potrebbe spiegarsi il mantenimento di questi regimi, finanche applicati a calciatori, a chi è invece chiamato a contribuire pesantemente al finanziamento dello Stato? È a tal fine sufficiente la circostanza che siffatti regimi portino in Italia contribuenti che altrimenti non vi verrebbero e la relativa idoneità a generare un indotto (ad es., in termini di consumi)? La verità è che questi regimi collidono frontalmente con il principio di capacità contributiva, ma “seguono” (e al tempo stesso contrastano, con lo stesso “mezzo”) policies regolarmente attuate in altri Stati membri.

Rimane, naturalmente, il problema della tassazione progressiva solo dei redditi di lavoro dipendente, di pensione e di lavoro autonomo sopra i 65.000 euro.

Ma una volta che:

  • si condividano le giustificazioni delle imposizioni sostitutive sopra indicate – a cominciare dal carico fiscale complessivo derivante dalla contestuale applicazione delle gravose imposizioni patrimoniali esistenti – e al fatto, per quanto attiene alle rendite finanziarie ed immobiliari, che si tratta di redditi derivanti dall’investimento di redditi già tassati a monte;

  • e si prenda atto degli inconvenienti anche pratici della loro riconduzione alla progressività (in primis, la rinuncia al sistema delle ritenute a titolo di imposta e alla semplificazione che ciò comporta per la stessa Amministrazione finanziaria), la questione che si pone è cosa poter fare per queste ipotesi tuttora soggette a progressività, ed è quel che proveremo a fare nel prossimo paragrafo.

Vale solo osservare che, laddove si guardi al carico fiscale complessivo di imposizione reddituale e patrimoniale, non appare indispensabile armonizzare le aliquote dei regimi sostitutivi e speciali, ciascuno avendo una propria e distinta ratio in funzione del mix tra le suddette imposizioni che viene a realizzarsi.

Quanto, infine, all’imposizione patrimoniale, le audizioni hanno mostrato tutte una generale contrarietà all’istituzione di una imposta personale sul patrimonio77.

Al di là della facile elusione cui essa si presta – frazionando il patrimonio tra i familiari, incentivando l’interposizione soggettiva, ecc.78 – e delle insuperabili difficoltà estimative che essa determinerebbe (con il conseguente contenzioso che ne deriverebbe), si tratta di un’imposta che nascerebbe già “vecchia”, perché inidonea a cogliere le forme attuali in cui la ricchezza si manifesta.

Del resto, è noto ed è emerso in più audizioni, che la ricchezza – sia immobiliare, sia finanziaria – è più concentrata del reddito79. Sicché, unitamente all’esenzione della prima abitazione che già crea di per sé un rilevante “minimo esente” e una corrispondente progressività, gli effetti progressivi dell’attuale imposizione patrimoniale reale non richiedono ulteriori riflessioni.

Incomprensibile, poi, l’ipotesi di applicarla sul «rendimento figurativo del patrimonio reale e finanziario posseduto»80 in un momento storico in cui gli immobili, come visto, hanno rendimenti netti medi inferiori all’1% e i tassi sugli investimenti privi di rischio sono sostanzialmente pari a zero.


5. Progressività e redditi da lavoro

Una volta che ci si interroghi sul regime fiscale da riservare ai soli redditi da lavoro, la domanda è duplice:

  1. è giusto che almeno questi redditi siano assoggettati a progressività?

  2. oppure anche per questi redditi si dovrebbe passare ad una flat tax?

Le idee manifestate al riguardo sono le più varie, tra chi propone una flat tax – caratterizzata da vantaggi quali la considerazione ai fini fiscali dei redditi della famiglia, il superamento dei problemi di “salto” delle aliquote marginali, la compensabilità di profitti e perdite maturati in diverse categorie (che il regime sostitutivo di fatto impedisce) – accompagnata da una “robusta” deduzione alla base81; a chi ritiene invece più corretto intervenire sulla curva di progressività, per le cui considerazioni si rinvia supra (par. 2).

Mi pare che possano farsi alcune considerazioni:

  • il regime dichiarativo può presentare, rispetto al sistema dell’imposizione sostitutiva, il vantaggio di poter godere del sistema di deduzioni e detrazioni; si tratta di un effetto tutt’altro che trascurabile, sol che si guardi alla distribuzione del prelievo sulle fasce basse già esaminato supra (par. 2);

  • i redditi da lavoro godono (sia pur indirettamente) di un’ampia “no tax area”, derivante dall’operare delle detrazioni e del bonus Irpef, posta a ben 12.500 euro e in corrispondenza del reddito medio da lavoro dipendente (circa 21.000 euro);

  • le detrazioni e il “bonus” valgono complessivamente circa il 13 per cento del reddito imponibile, riducendo l’aliquota media effettiva all’11 per cento82;

  • il bonus di 1.200 euro viene erogato ai soli lavoratori dipendenti, ma dipendendo dalle condizioni economiche del percettore e non dalle condizioni economiche della famiglia, viene erogato anche a membri di nuclei familiari con elevate disponibilità economiche83;

  • 13,4 mln di contribuenti su 39,9 mln sono risultati esenti per effetto di deduzioni, detrazioni e del bonus Irpef84;

  • al principio del c.d. “comprehensive taxation” – teso ad assoggettare a tassazione (e a contribuzione previdenziale) l’intero ammontare della ricchezza prodotta dal lavoro – il d.lgs. n. 314/1997, cui risale l’attuale impianto dei redditi di lavoro dipendente, aveva affiancato quello del perseguimento di politiche sociali e an­che retributive attraverso la previsione di un selezionato sistema di benefici che non concorrono alla formazione del reddito, animati da finalità sociali, di welfare aziendale ed incentivanti.
    Il disegno originario del d.lgs. 314/1997 di contemperare mediante questi benefici le esigenze di gettito con quelle di una equa tassazione del lavoro, è stato profondamente snaturato dalla progressiva riduzione di detti benefici, che ha fatto prevalere le esigenze di gettito. Recentemente, tuttavia, prima con la L. 208/2015, e poi con la Legge di stabilità per il 2017, si è assistito ad un rinnovato interesse per la materia, con particolare riferimento al c.d.
    welfare aziendale di cui alle lettere f, f-bis, f-ter e f-quater dell’art. 51, co. 2.
    Pertanto, la possibilità di ottenere queste “utilità”, senza che esse incidano sulla base imponibile, rappresenta un importante vantaggio per la categoria dei lavoratori dipendenti e sta ricevendo un crescente apprezzamento (anche se non unanime): dai rapporti sul
    welfare aziendale Censis-Eudaimon, risulta che la maggior parte dei lavoratori è favorevole a trasformare aumenti retributivi in prestazioni di welfare, che oltre la metà dei contratti registrati nel 2019 in via telematica prevedevano misure di welfare aziendale e che nella contrattazione di secondo livello – anno 2018 – circa il 40% dei contratti prevedevano accordi di welfare85;

  • anche nei sistemi “duali” – cui il sistema attuale si avvicina, sia pure in una accezione più ampia – il reddito di lavoro dipendente è destinatario di un regime di progressività.

Quel che appare, dunque, il maggior vulnus alla disciplina dei redditi di lavoro dipendente è il regime delle detrazioni, perché, così come è strutturato – e si tratta sicuramente di uno dei profili “innovativi” più discutibili della pur rilevante riforma del 1997 – non assolve al compito di tenere conto dei costi di produzione del reddito di lavoro dipendente, che pure dovrebbe essere tassato al netto86. La concessione di una detrazione per redditi di lavoro dipendente attualmente prevista, realizza infatti, come visto, indirettamente una sorta di “no tax area” per i soli redditi di lavoro dipendente, confondendo tra l’esenzione del minimo vitale e i costi necessari per produrre il reddito da lavoro dipendente. Andrebbe dunque accordata una detrazione o una deduzione di ammontare fisso, senza limite di reddito.

Non meno complessa è la questione dei redditi di lavoro autonomo e dei redditi di impresa individuale, anch’essi attratti al regime della progressività, ma solo ove di ammontare superiore a 65.000 euro.

Rispetto al lavoro autonomo, il “gradino” che si ha alla soglia di 65.000 euro di compensi, tale per cui il superamento anche di un euro fa perdere la possibilità di usufruire del regime forfetario e fa entrare nel regime analitico e progressivo, è quel che lascia più perplessi. Tecnicamente, tuttavia, non si presta ad una facile soluzione, perché, come visto, il regime speciale presenta caratteristiche (deduzioni forfetarie, indetraibilità IVA, ecc.) che non si prestano a gestire il “doppio binario” tra una prima determinazione forfetaria ed una determinazione analitica per l’eccedenza. Al tempo stesso, mentre i redditi netti effettivi dei soggetti in forfettaria sconterebbero, per via delle rilevanti “penalizzazioni” che siffatto regime comporta, una tassazione non necessariamente troppo diversa dai redditi di lavoro dipendente di eguale fascia, altrettanto non accadrebbe per le fasce di reddito più elevate, in cui anche i redditi di lavoro dipendente entrano in fasce di tassazione ben più significative per via dell’incremento della curva delle aliquote marginali.

Quanto poi al reddito di impresa, pressoché tutte le associazioni datoriali hanno chiesto la reintroduzione dell’IRI87.

Pur trattandosi di un meccanismo sicuramente importante dal punto di vista “sistematico”, anche se ne è sottolineata la inidoneità ad eliminare qualsivoglia forma di non neutralità (ad es., si pensi al mancato recupero delle imposte assolte all’estero, con conseguente disincentivo alla internazionalizzazione)88.

Abbiamo tuttavia ormai perso il conto delle volte in cui si è tentato di introdurre questa forma di tassazione “a doppia aliquota” sul reddito prelevato e non prelevato di imprenditori individuali, società di persone e srl a ristretta base proprietaria come alternativa alla c.d. “trasparenza fiscale” (art. 9, L. n. 388/2000; art. 1, commi da 40 a 42, L. n. 244/2007; art. 11 del disegno di legge delega n. 5291 presentato il 15 giugno 2012; art. 1, co. 547, L. n. 232/2016; ecc.), e ciò soprattutto in quanto, sul piano dell’attuazione concreta, si sono registrate questioni di rilevante complessità tecnica, tra cui l’accurato monitoraggio dei flussi reddituali tra impresa e individuo, e, in particolare, della stratificazione dei prelievi.


6. Le tax expenditures

Sul banco degli imputati siedono, da sempre, le c.d. “tax expenditures”, le quali, peraltro, assumono proporzioni quali-quantitive non indifferenti anche in numerosi tra i principali Paesi dell’UE89.

Dall’ultimo «Rapporto programmatico recante gli interventi in materia di spese fiscali», allegato alla Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2020, risultano ben 532 “spese fiscali”, di cui 141 relative all’Irpef che assorbono circa il 70% dell’ammontare complessivo delle risorse impegnate, nel complesso pari a ca. 62 mld di euro. A ciò vanno aggiunte le numerose altre derivanti dall’emergenza Covid90.

Nel campo dell’Irpef, non vengono qualificate come “spese fiscali” le detrazioni per spese di produzione del reddito, le detrazioni dei familiari a carico e le imposte sostitutive sui redditi di capitale. Vengono invece qualificate come tali misure comunque “strutturali”, quali ad esempio la deduzione dei contributi sociali (ca. 19 mld di euro) e la deduzione degli assegni al coniuge (ca. 0,9 mld di euro).

Ora, se è pur vero che l’ottimismo non va mai perso, è altrettanto vero che chi scrive aveva da poco compiuto la maggiore età quando all’interno della L. n. 408/1990 fu previsto il riordino delle deduzioni e detrazioni; ma da allora, nonostante sul tema si siano cimentate menti più che brillanti, i risultati sono stati davvero modesti.

Anzi, le poche eliminazioni hanno prodotto effetti di discutibile utilità. Si pensi, a titolo di esempio, al forte ridimensionamento dell’agevolazione originariamente prevista dall’art. 11, co. 2, L. n. 413/1991 per i beni vincolati, che pure aveva ricevuto addirittura il ripetuto avallo della Corte costituzionale91, e ciò in base al pretesto di eliminare talune certamente evidenti, ma numericamente esigue, storture che si verificavano per immobili posti nelle strade più “in” di Roma e Milano. Ciò che ha determinato un forte deterioramento delle condizioni di manutenzione degli stessi92, le cui spese, come è noto, sono esponenzialmente superiori a quelle di un qualsiasi altro immobile e il cui speciale regime di “detrazione”, pur previsto dal TUIR (art 15, co. 1, lett. g), prevede una serie di oneri autorizzativi e di controllo, oltre ad essere oggetto della neo-riduzione a partire da 120.000 euro di reddito sino al completo azzeramento a 240.000 euro di reddito.

Né c’è necessità alcuna di modificare l’art. 53 Cost., come pur da qualcuno proposto93, per porre un freno “costituzionale” alle agevolazioni.

Quanto all’eliminazione di quelle esistenti, la nostra Corte costituzionale è da sempre stata estremamente indulgente con il legislatore, affermando – diversamente dal ben più rigoroso Bundesverfassungsgericht¸ la cui pronunzia sulla limitazione alla deducibilità dei costi di trasporto è rimasta storicache le deduzioni e le detrazioni costituiscono una “graziosa concessione” che il legislatore fa al contribuente nell’ambito delle risorse disponibili, senza, dunque, che il contribuente possa accampare alcun diritto94.

Naturalmente, questo non significa che le attuali agevolazioni siano “arbitrarie”.

Una buona parte delle misure interessate ha, ad esempio, natura strutturale anziché derogatoria – perché connaturate al profilo “personalistico” del tributo, volto a ricostruire la situazione personale e familiare del contribuente – mentre altra parte, collocata sul diverso fronte dell’erogazione del reddito, risponde a principi costituzionali che il legislatore ha “bilanciato” con quello di capacità contributiva. Anzi, vi sono persino assenze importanti, a cominciare dal contrasto alla denatalità, che richiede un intervento robusto a favore di giovani e famiglie, e sul quale torneremo infra.

Quanto all’aggiunta di nuove agevolazioni, al fine di vincolare un legislatore troppo generoso, il vizio di costituzionalità andrebbe sistematicamente eccepito dall’Amministrazione finanziaria, posto che il contribuente di certo non vi avrebbe interesse.

Vincoli giuridici, dunque, non ce ne sono, sicché, al di là delle detrazioni strettamente connesse alla ricostruzione della situazione personale e familiare del contribuente – che costituiscono elemento strutturale del reddito “personale” e “complessivo” – le scelte che riguardano le detrazioni relative alla erogazione del reddito sono connotate da un elevato grado di “politicità” e richiedono, in ogni caso, un’attenta analisi dei costi/benefici connessi alla relativa soppressione.

Meno pregnante mi pare invece l’argomento del contrasto di interessi. Del resto, con le detrazioni fissate nella misura del 19%, è sufficiente risparmiare l’IVA al 22% per avere già un beneficio maggiore.

Non può peraltro non osservarsi come una buona parte delle agevolazioni siano destinate al settore edilizio, nelle sue varie forme, dalle manutenzioni straordinarie, alle facciate sino a quelle del 110% per specifici interventi in ambito di efficienza energetica, di interventi antisismici, di installazione di impianti fotovoltaici o delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici95.

Se si considera l’importanza del settore delle costruzioni in Italia e la vetustà del patrimonio edilizio, si tratta di agevolazioni ampiamente giustificate. Semmai, ne andrebbe rivista la misura per quelle più generose, che possono risolversi in un incentivo alla sovrafatturazione per via di un sostanziale disinteresse dei destinatari al contenimento dei costi dell’intervento.

Tutto quanto sopra illustrato dimostra come non sia possibile tagliare le agevolazioni con criteri “trasversali”, quali ad esempio il numero esiguo di contribuenti interessati – si pensi alle dimore storiche – o perché presentino elementi di regressività – si pensi alle agevolazioni ai lavori di ristrutturazione.

Né, tantomeno, ciò può avvenire in ragione dell’entità del reddito del contribuente, poiché, come più volte illustrato, tutti i contribuenti che entrano nel “coacervo” hanno diritto ad un’imposta personale, non potendosi, pertanto, legittimare la prassi di detrazioni decrescenti al crescere del reddito fino addirittura al loro azzeramento oltre un certo reddito.

Sono, ancora una volta, problemi complessi, che non si prestano a soluzioni facili o formule magiche.


7. La famiglia

Strettamente legata alla questione delle agevolazioni è quella del trattamento tributario della “famiglia”.

Essa riguarda due profili essenziali:

  1. se la “famiglia” debba essere il punto di riferimento nella determinazione del reddito complessivo, da imputare poi ai coniugi in parti uguali, così parificando il trattamento dei nuclei monoreddito a quelli bireddito;

  2. se, in presenza di figli, per tenerne conto debba privilegiarsi lo strumento fiscale o quello “sovvenzionale”.

Quanto al primo profilo, è noto che a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con sent. n. 179/1976, la famiglia non è più configurabile quale soggetto di imposta e la tassazione è solo quella individuale sui coniugi. Nonostante, tuttavia, la stessa Corte abbia ripetutamente invitato il legislatore ad adottare meccanismi correttivi della penalizzazione delle famiglie monoreddito96 – non potendosi ottenere tale risultato mediante una sentenza di illegittimità costituzionale per via delle scelte politiche ad esso sottese – il legislatore non si è mai adeguatamente impegnato su questo fronte. Anche nelle varie audizioni questo profilo è stato ampiamente sottolineato97 rilevandosi, dati alla mano, che la mancata considerazione della famiglia mina l’equità orizzontale del sistema, penalizzando in modo significativo i nuclei con un solo percettore.

Quanto al secondo profilo, è stata segnalata98 la necessità di porre attenzione alle condizioni delle famiglie con figli adulti e, più generalmente, alle famiglie gravate da carichi familiari (siano essi figli minori o adulti), il cui beneficio fiscale si perde progressivamente al crescere del reddito familiare.

È noto che al momento attuale convivono una serie di misure, sia di tipo monetario (detrazioni per figli a carico, assegno al nucleo familiare, assegno familiare, assegno ai nuclei con almeno tre figli minori, bonus natalità, bonus asili nido, bonus baby sitter, ecc.), sia di altro genere (congedi parentali, servizi di cura, ecc.)99.

Gli interventi di quoziente familiare o di splitting, pur da tempo adottati con successo in altri ordinamenti, non hanno mai fatto breccia nell’ordinamento italiano,

  • vuoi per motivi di bilancio;

  • vuoi sottolineandosi il disincentivo al lavoro che siffatti sistemi creerebbero, posto che il reddito prodotto dal secondo coniuge finirebbe per scontare un’aliquota più elevata di quella che sarebbe applicabile in caso di tassazione isolata. Effetto, questo, che potrebbe essere risolto rendendo il regime opzionale e che comunque dimentica che lo splitting, se è vero che aumenta l’aliquota marginale sul reddito del coniuge neolavoratore, al tempo stesso diminuisce quella sul reddito dell’altro coniuge, presupponendosi peraltro che le scelte di lavoro della famiglia siano frutto di una decisione comune, in coerenza con la definizione di capacità contributiva familiare100;

  • vuoi sottolineandosi l’indesiderata concentrazione dei benefici nelle fasce elevate di reddito; effetto, questo, che, come è stato evidenziato nel corso delle audizioni101, è comunque inevitabile, dato che qualsiasi meccanismo di tassazione familiare diverso dal cumulo dei redditi è costruito proprio per alleviare la progressività del prelievo, nel caso del quoziente familiare in misura crescente al crescere della dimensione della famiglia.

E’ tuttavia pure noto che la Legge di bilancio per il 2021 ha previsto i fondi per il c.d. «Assegno unico e universale per i figli a carico», il quale “vira” adesso decisamente verso la tutela della famiglia sul versante della spesa, unificando – a decorrere dal 1.7.2020 – in un solo intervento, consistente nella corresponsione diretta di una somma di denaro o, in alternativa, di un credito di imposta – i vari ed eterogenei interventi attualmente esistenti; esso risulta, pertanto, idoneo a raggiungere anche gli attuali “incapienti”, che costituiscono quasi il 45% delle famiglie con detrazioni per carichi familiari superiori a 2.000 euro102, oggi penalizzati sul fronte delle detrazioni per carichi di famiglia103.

Tuttavia, facendo venire meno tali detrazioni ed ancorando la fruizione dell’assegno all’ISEE, viene minata sia la “personalità” dell’imposta, essendo la famiglia il primario elemento che un tributo personale dovrebbe tenere in considerazione per qualsiasi contribuente; sia la progressività del tributo, perché la detrazione, come visto in precedenza, è inversamente proporzionale al reddito (anche se azzerata oltre un certo ammontare)104.

In altri termini, un conto è uno strumento diretto di sussidio alle famiglie commisurato al reddito del nucleo familiare, altro è la differenza di capacità contributiva individuale tra un soggetto senza carichi familiari ed uno con coniugi e/o figli a carico ai fini del finanziamento della spesa pubblica105. Viene dunque meno il principale meccanismo di correzione connesso agli obiettivi di discriminazione quantitativa del prelievo tra le varie categorie di contribuenti106.

Si è pertanto osservato, in sede di audizione, che molti paesi prevedono sia un trasferimento ai figli distinto dall’imposta sul reddito che il riconoscimento nell’imposta stessa di uno sgravio in presenza di carichi familiari, motivata da considerazioni di equità orizzontale. Dopo l’introduzione dell’assegno unico e l’abolizione della detrazione per figli a carico, l’Italia sarà l’unico tra i grandi paesi europei (Francia, Spagna, Germania, Regno Unito) in cui l’importo dell’imposta personale non è influenzato dalla presenza di figli107.

Al tempo stesso, il riferimento ad un indicatore che misura il benessere familiare, anziché individuale, consente di meglio calibrare la condizione economica dei beneficiari, fermo restando che esigenze di equità dovrebbero garantire questo assegno, sia pur opportunamente gradato, a ciascun contribuente. Resta, comunque, la confusione concettuale tra il sostegno al reddito e la diversa capacità contributiva delle famiglie a seconda della numerosità dei figli.

In ogni caso, quale che sarà la scelta per i figli a carico, non c’è dubbio che l’intervento sulla progressività dovrebbe adeguatamente tenere conto delle famiglie monoreddito.


8. L'abitazione principale

In numerose audizioni è stata sottolineata l’anomalia della (non) tassazione dell’abitazione principale, vuoi perché esclusa da imposizione patrimoniale (ad esclusione degli immobili classificati in A/1, A/8 e A/9, che beneficiano solo dell’aliquota ridotta per l’abitazione principale), vuoi perché esclusa da Irpef relativamente al reddito figurativo.

Ora, mentre con riferimento alla rendita figurativa dell’abitazione principale, è stato evidenziato come essa sia esentata da imposta anche in quasi tutti gli altri paesi europei108, indicazioni di segno contrario, nel senso della relativa anomalia, sono state evidenziate per l’imposizione patrimoniale dell’abitazione principale109.

Ora, principiando dal profilo reddituale, la casa di abitazione e gli immobili tenuti a disposizione, hanno rappresentato, da sempre, il terreno sul quale si è misurata la “coerenza” e la legittimità costituzionale del sistema di imposizione del reddito fondiario.

Il nostro sistema di imposizione sul reddito è infatti improntato alla tassazione del c.d. “reddito prodotto” con qualche apertura a favore del c.d. “reddito entrata”, ma non accade mai che sia sottoposto ad imposizione un reddito soltanto potenziale, nella certezza dell’assenza di qualsiasi incremento patrimoniale.

Ebbene, nelle ipotesi di casa di abitazione e degli immobili tenuti a disposizione, ciò ac­cade(va), verificandosi, sotto tale profilo, una vera e propria modifica allo stesso presupposto dell’imposta, rappresentato non più dal possesso del reddito, ma dal mero possesso del be­ne, in ragione della sua potenziale produttività.

Parte della dottrina ha tentato di giustificare tale imposizione affermando che sarebbe reddito tassabile l’autoconsumo della propria abitazione ovvero il risparmio di spesa con­seguito dal proprietario che faccia uso di un proprio bene immobile, anziché prenderlo in locazione da altri. Ma è evidente che, da un lato, non si può parlare di autoconsumo poiché il bene immobile, diversamente da un fondo agricolo, non produce naturaliter frutti; e, dal­l’altro, che il risparmio di spesa ottenuto in questo modo non può considerarsi sempre reddito, che non è ricchezza nuova, né è a questa equiparabile110.

Tale imposizione, di carattere sostanzialmente “patrimoniale”, era stata neutralizzata per la casa di abitazione dalla concessione di una deduzione di ammontare pari alla rendita catastale tassata (per effetto dell’art. 2, L. n. 388/2000); per le case a disposizione, invece, veniva addirittura prevista una maggiorazione di un terzo della rendita catastale, giustificandola in funzione “extrafiscale” con la volontà di colpire il fenomeno delle case sfitte.

Il problema è stato ulteriormente accentuato dall’introduzione, a decorrere dal 1992, dell’imposizione patrimoniale sugli immobili, sollevando l’ulteriore problema del profilo quantitativo dell’imposizione che, ove considerata eccessiva o confiscatoria, avrebbe violato l’art. 53 Cost. e le altre norme costituzionali solitamente invocate per rafforzare la tutela verso una pressione fiscale troppo ingente.

Con l’introduzione dell’IMU c.d. “sperimentale” (d.l. n. 201/2011, conv. dalla L. n. 214/2011), il problema era stato risolto, atteso che l’IMU “sostituisce”, per tutti gli immobili non locati ed i terreni non affittati (per la componente dominicale), anche l’IRPEF e le relative addizionali (art. 8, co. 1 e 9, co. 9, d.lgs. n. 23/2011). Le due forme di imposizione, quindi, erano state considerate e coordinate proprio come se avessero uno stesso presupposto, appunto “patrimoniale”.

Nel caso di immobili non locati ma esenti da IMU (si tratta degli immobili adibiti ad abitazione principale, diversi da quelli di categoria A/1, A/8 o A/9), l’art. 9, co. 9, d.lgs. n. 23/2011 (come modificato dal d.l. n. 16/2012) ne ha disposto, tuttavia, l’assoggettamento alle imposte sui redditi (ferma restando la citata deduzione per l’abitazione principale), con ciò dimostrando che l’obiettivo del legislatore non era tanto quello di risolvere definitivamente il problema della tassazione dei redditi c.d. “figurati”, ma solo quello di ridurre la pressione fiscale sugli immobili, considerata eccessiva nel caso di sovrapposizione delle due imposte.

Peraltro, confermando che il problema della tassazione dei redditi “figurati” è ancora aperto, la L. n. 147/2013 ha reintrodotto la tassazione ai fini Irpef sul 50% della rendita catastale, con effetto dal periodo di imposta 2013, per gli immobili abitativi non locati situati nello stesso comune nel quale si trova l’abitazione principale del possessore, pienamente rilevanti anche ai fini IMU.

Per quanto attiene invece all’esenzione da IMU dell’abitazione principale, che rappresenta da sempre anche un “cavallo di battaglia” politico, la critica più rilevante che viene mossa a tale esenzione è l’assenza di qualsiasi partecipazione (ad eccezione della tassa sui rifiuti solidi urbani) al finanziamento dei servizi comunali per chi risiede nella casa di proprietà, venendo meno il principio «pago, vedo, voto», fondamento del federalismo responsabile111. Al tempo stesso, il venir meno dell’esenzione deve confrontarsi con il fatto che le famiglie italiane tendono ad essere “cash poor” e “asset rich”112, ma questo è una situazione che riguarda anche i possessori di immobili ulteriori rispetto alla prima abitazione, che sono pesantemente chiamati a contribuire al gettito IMU unitamente alle imprese.

Quale che sia l’opinione che si abbia su questo punto, l’attuale disciplina contiene comunque in sé elementi di irrazionalità, segnatamente:

  • essa non esenta gli immobili di interesse storico adibiti ad abitazione principale classificati in categoria A/9, in cui rientrano i castelli ed i palazzi eminenti che per la loro struttura, la ripartizione degli spazi interni e dei volumi edificati non sono comparabili con le unità tipo delle altre categorie e costituiscono ordinariamente una sola unità immobiliare: ciò significa che il possessore di un tale bene viene ad essere discriminato rispetto ad un bene di interesse storico appartenente ad altre categorie catastali, magari anche di maggior valore;

  • essa non esenta gli immobili classificati in A/1, che tuttavia, rappresentando una categoria catastale di definizione assolutamente incerta – avendo ormai la giurisprudenza escluso la possibilità di fare riferimento al d.m. dell’agosto 1969 e riferendola ad un ineffabile «apprezzamento di fatto da riferire a nozioni presenti nell'opinione generale»113 – fa sì che l’attribuzione della categoria A/1 non solo muti considerevolmente da Comune a Comune – è sufficiente pensare che nel 2019, del totale di ca. 33.585 case in A/1 censite in Italia, 4.032 si trovavano nel Comune di Genova!114 – ma che immobili di non meno rilevante “fattura”, magari classificati in A/2, godano, proprio in virtù della richiamata vaghezza dei criteri di individuazione, dell’esenzione IMU.

Pertanto, al di là delle perplessità generali sollevate nel corso delle audizioni sul motivo per il quale non debbano contribuire ai servizi dei Comuni – cui l’IMU è primariamente destinata – i soli “meri” titolari di queste abitazioni principali e non tutti gli altri che pur possedendole vi risiedano115, va comunque rilevata l’irrazionalità della disciplina delle “limitazioni” che il legislatore ha introdotto a tale esclusione.


9. Il catasto

Come è noto, il catasto svolge nel nostro ordinamento una funzione centrale nella cd. “fiscalità immobiliare”, sia in quanto strumento per determinare i redditi derivanti dai beni immobili e i relativi valori nell’ambito delle imposte sul patrimonio e sui trasferimenti di ricchezza, sia in quanto parametro per la misurazione della base imponibile di tributi di natura paracommutativa.

Quanto al profilo reddituale – che risponde alla funzione originaria del catasto – i redditi (cd. “medi ordinari”) dei terreni (dominicale e agrario) e dei fabbricati (peraltro individuati proprio sulla base della loro iscrizione o iscrivibilità in Catasto) sono determinati mediante l’applicazione di tariffe d’estimo (artt. 28, 34 e 37 TUIR) ovvero, per i fabbricati a destinazione speciale o particolare, mediante “stima diretta”. Fanno eccezione – quanto alle modalità di determinazione dei redditi – i soli fabbricati locati, in cui “rivive” il reddito effettivo, ma solo se, ridotto forfettariamente del 5%, superiore al reddito medio ordinario (art. 37, co. 4-bis e art. 90, co. 1 TUIR), e gli immobili strumentali (per natura o per destinazione) ad imprese commerciali o per l’esercizio di arti e professioni, dove anche trova applicazione il reddito effettivo.

Quanto al profilo della rilevanza del catasto quale fonte di “valori” – riconducibile ad una serie di interventi normativi avviati dalla metà degli anni ’80, ma oggetto di successiva revisione ed integrazione – il valore catastale costituisce base imponibile ai fini IMU per gli immobili iscritti in catasto, con l’eccezione delle aree cd. “a vocazione edificatoria”, il cui valore è invece costituito da quello venale in comune commercio.

Quanto, infine, all’ultima funzione indicata in premessa, il sistema catastale fornisce il parametro di riferimento per la determinazione delle superfici minime delle unità immobiliari di proprietà privata a destinazione ordinaria da dichiarare ai fini della tassa sui rifiuti solidi urbani, la cui dimensione non può invero essere inferiore all’80 per cento della superficie catastale determinata secondo i criteri di cui al d.p.r. n. 138/1998.

La centralità del sistema catastale nella struttura e funzionamento di una parte rilevante (l’80 per cento circa) della fiscalità cd. “immobiliare”, unitamente alle esigenze di cassa sempre più pressanti degli Enti locali cui buona parte del gettito dei suddetti tributi è destinata, lo ha reso oggetto di crescente attenzione in sede legislativa.

Soprattutto, è verso la metà degli anni 2000 che si è registrato un particolare fermento legislativo e giurisprudenziale, che ha toccato le seguenti tematiche qui di interesse:

  1. quanto al metodo di determinazione degli estimi catastali, se il sistema attuale del Catasto dei fabbricati sia in grado di esprimere efficacemente i redditi e i valori dei beni ivi iscritti, con le seguenti direttive di approfondimento: i) se sostituire la determinazione degli estimi catastali dei fabbricati, basati su redditi e valori, con estimi basati sui soli valori (dai quali poi risalire, mediante saggi di redditività, al reddito); ii) come (almeno e nell’immediato) individuare (e porre rimedio a) situazioni di evidente sproporzione (per fabbricati situati in zone omogenee diverse) tra valori medi di mercato e catastali; iii) de jure condendo, come far emergere dagli atti registrati (di cessioni e locazioni) valori quanto più possibile vicini a quelli reali al fine di accrescere l’attendibilità dei dati rilevati;

  2. quanto all’azione di recupero dell’evasione immobiliare, l’accertamento dei fabbricati non censiti ovvero che abbiano perso i requisiti di ruralità; il riclassamento dei fabbricati oggetto di rilevanti interventi edilizi; il divieto di ricomprendere nelle unità immobiliari censite nelle categorie catastali da E/1 a E/6 ed E/9 immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale o ufficio privato ovvero ad usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia funzionale e reddituale; le azioni finalizzate all’accertamento catastale di specifiche fattispecie; l’introduzione della superficie minima da dichiarare ai fini Tarsu.
    I limiti di questa Audizione non consentono di indagare
    funditus ciascun profilo.
    Vanno tuttavia sinteticamente svolte alcune osservazioni, che mostrano come in questi anni siano stati attuati significativi interventi normativi in direzione del “riallineamento” dei valori catastali con quelli di mercato, segnatamente:

    • con l’art. 1, co. 335 L. n. 311/2004, affrontando la questione della sproporzione tra valori di mercato e valori catastali, e in particolare riconoscendo ai Comuni la possibilità di richiedere al Catasto la revisione del classamento di quelle microzone dove la differenza media tra valori catastali e valori di mercato superi di almeno il 35% quella delle altre microzone. Tuttavia, questa disposizione è stata applicata spesso non correttamente, giungendosi tra il 2015 e il 2020 ad una serie di pronunzie della Corte di cassazione che ne hanno severamente censurato le modalità applicative. Sennonché, solo quei pochi che hanno avuto la perseveranza (e i mezzi) di giungere in Cassazione sono riusciti ad avere giustizia, essendo divenuti definitivi per mancata impugnazione centinaia di migliaia di accertamenti, con sensibile incremento delle rendite catastali in numerose microzone di importanti città italiane, tra cui Roma e Milano;

    • con l’art. 1, co. 336, L. n. 311/2004, sono state previste le procedure di classamento con efficacia “retroattiva” in presenza di immobili non dichiarati oppure di situazioni di fatto non più coerenti con i classamenti catastali per intervenute variazioni edilizie;

    • con diversi interventi normativi è stato affrontato il problema dei cd. “fabbricati rurali”;

    • con l’art. 2, co. 33 d.l. n. 262/2006, si è posta attenzione alle variazioni di colture risultanti dalle dichiarazioni presentate dall’AGEA (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) per l’ottenimento dei contributi agricoli (PAC);

    • con l’art. 2, co. 40, d.l. n. 262/2006, è stato previsto il divieto di ricomprendere nelle unità immobiliari censite nelle categorie catastali da E/1 a E/6 ed E/9 immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale o ufficio privato ovvero ad usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia funzionale e reddituale;

    • con il d.l. n. 78/2010, è stata imposta la verifica della regolarità catastale dei fabbricati prima del rogito, che ha pure determinato un ulteriore aggiornamento delle rendite catastali;

    • con il D.L. n. 201 del 06/12/2011 (convertito dalla legge 22/12/2011, n. 214), sono state fortemente rivalutate le rendite catastali.

Indubbiamente, si registra oggi la disponibilità di una “base dati” caratterizzata da una maggiore – ma non certamente assoluta – attendibilità rappresentata dall’OMI (Osservatorio del mercato immobiliare), gestito dall’Agenzia del Territorio, che rileva per ciascuna “zona omogenea” le quotazioni dei valori delle compravendite e delle locazioni. Ad attribuire maggiore attendibilità a tali rilevazioni hanno contribuito una serie di fattori, quali:

  • le modifiche apportate alle disposizioni in tema di accertamento dell’imposta di registro, che hanno notevolmente ridotto l’ambito di applicazione della cd. “valutazione automatica”, limitandola alle cessioni a persone fisiche di beni a destinazione abitativa;

  • l’introduzione del sistema del cd. “prezzo-valore”, che ha indotto i contribuenti a dichiarare non più un valore di poco superiore al valore catastale, bensì i corrispettivi reali;

  • le misure adottate nell’ambito della L. n. 311/2004, quali la presunzione del rapporto di locazione di cui all’art. 41-ter, co. 2, d.p.r. n. 600/73 e la sanzione di nullità dei contratti di locazione non registrati;

  • infine, i più incisivi controlli effettuati nei confronti delle locazioni “in nero”, soprattutto nelle città a forte presenza di studenti universitari.

Inizia, dunque, a prendere consistenza una base dati più attendibile dei valori sia delle compravendite che delle locazioni, necessaria per rilevare distintamente due mercati da considerare “a sé”, come spesso ha dimostrato l’andamento del mercato immobiliare degli ultimi anni, dove a fronte di prezzi crescenti nelle compravendite non si è registrato un corrispondente incremento nei valori delle locazioni. Al tempo stesso, l’attuale crisi del mercato sia delle compravendite, sia delle locazioni costituisce evidenza della necessità di abbandonare ogni velleità di determinazione puramente “patrimonialista” degli estimi basata, come è oggi, su un tasso di redditività applicato ai valori del biennio 1988/1989.

Tuttavia, qualsiasi rilevazione “puntuale”, non potrà mai essere perfetta, perché, per fare un esempio banale, ci sarà sempre il negozio a Via Condotti con una locazione da 2.000 euro/mq/mese, e il negozio in una “parallela” di Via Condotti, distante cento metri dal primo, con un valore locativo pari ad una frazione del primo.

In conclusione:

  1. le revisioni generali sono estremamente complesse, al punto che nelle audizioni è stato evidenziato come in molti ordinamenti avanzati le ultime revisioni generali siano estremamente risalenti nel tempo;

  2. le revisioni ed interventi “puntuali” hanno portato nel tempo ad un progressivo allineamento delle rendite al valore di mercato;

  3. le medesime revisioni hanno altresì portato ad una progressiva omogeneizzazione tra le microzone.

Pertanto, il problema del catasto certamente esiste tuttora, ma è molto meno grave rispetto al passato.

Sembra pertanto più utile proseguire su interventi “puntuali”, intervenendo sia su quei Comuni, anche piccoli, dove si registra una abnorme sproporzione tra valori di mercato e valori catastali; sia su quelle microzone, per lo più periferiche, in cui il confronto tra valori OMI e valori catastali evidenzi una sopravvalutazione di questi ultimi.

Una revisione complessiva ed aggiornamento del sistema deve considerare che il problema resta pur sempre quello del carico fiscale sostenibile nel suo complesso, di talché all’aumento generalizzato delle rendite che un siffatto aggiornamento determinerebbe deve necessariamente corrispondere una diminuzione delle aliquote.


10. L'evasione fiscale

Molte audizioni si sono soffermate sulla grave questione dell’evasione fiscale, rilevandone la dimensione, la struttura, i possibili mezzi “tecnici” di contrasto adottati e ancora adottabili.

Alcune delle cause sono “insite” nel sistema sin qui delineato, tra cui:

  • il fatto che, superati determinati livelli di reddito, viene progressivamente meno, sino a scomparire, sia il sistema assistenziale, sia la gratuità dell’accesso ai servizi pubblici, sia le detrazioni per oneri; ciò che spiega anche il ricorso alle separazioni fittizie tra i coniugi e ad altri mezzi finalizzati a “ripartire” gli indici di potenzialità fiscale tra i vari membri della famiglia;

  • la sempre più marcata non corrispondenza tra chi contribuisce al sistema e chi ne beneficia.

Sotto il profilo tecnico, non si contano ormai più le misure progressivamente adottate negli anni per contrastare l’evasione, tra cui un sistema sanzionatorio che forse non ha eguali al mondo – con l’eccezione di quei Paesi che prevedono la pena capitale per gli evasori, eppure gli evasori ci sono lo stesso! – e che è giunto persino ad assimilare ex lege l’evasore al delinquente abituale tramite la misura della confisca di sproporzione e ad estendere il sistema della responsabilità amministrativa degli enti che, oltre ad essere di impossibile attuazione pratica in realtà medio-piccole, è soggetto ad una giurisprudenza che spesso trae dall’avvenuto avveramento del fatto direttamente la conclusione circa l’inidoneità del modello. Un siffatto sistema sanzionatorio finisce, in realtà, per rendere il nostro sistema fiscale sempre meno appetibile per gli investitori esteri, poiché giudicato troppo rischioso.

Vorrei qui solo osservare che “a monte” di qualsiasi discorso “tecnico” e sanzionatorio si pone, preliminarmente, un problema di ordine generale, che è quello di restituire “legittimazione” al tributo, inteso quale parte essenziale del contratto sociale. Argomento, questo, che non ho visto richiamato in nessuna audizione, pur essendo alla base del dovere contributivo.

Il contribuente adempie essenzialmente in quanto intende contribuire alla collettività di cui fa parte, ma lo fa nel presupposto che quel suo “contributo” sarà effettivamente destinato alla collettività medesima e che questa destinazione avverrà nel migliore dei modi possibile.

Se, al contrario, questa percezione – e più in generale la fiducia in chi governa, a tutti i livelli – dovesse venir meno, sopraffatta da corruzione e malaffare di cui le cronache di questo Paese ci informano purtroppo senza sosta, il livello di Tax Morale dei singoli cittadini ne sarà inevitabilmente influenzato in modo negativo116.

È nelle spesso poco virtuose modalità di spesa e, dunque, di impiego dei tributi acquisiti117, che si annida una delle principali giustificazioni dell’evasione fiscale, in quanto viene toccata la stessa “legittimità” dell’imposta richiesta ai contribuenti. Si tratta di tema non nuovo.

Già nei suoi Principii del 1929, Benvenuto Griziotti, trattando della distribuzione delle spese pubbliche, affermava che «vi è un limite all’esercizio della sovranità fiscale dello Stato, affinché l’imposta non sia uguale all’atto arbitrario e violento del bandito, che tiene in suo potere il viandante. La distribuzione delle spese pubbliche, in base al principio di capacità contributiva, deve farsi in misura dei vantaggi generali prodotti ai contribuenti, tanto dallo Stato, quanto dalla società e dall’economia nazionale, che lo Stato stesso rappresenta»118.

Nell’ottica del Tax Morale la “qualità” della spesa pubblica è pertanto fondamentale e va perseguita sia colpendo gli sprechi – si tratta della c.d. spesa improduttiva – sia attraverso una maggiore efficienza del sistema istituzionale ed amministrativo (con sanzioni molto gravi per la corruzione e la concussione), che deve dimostrare ai consociati di “meritare” quanto chiede loro.

Il cittadino deve avere la chiara percezione di essere un “contribuente” nel senso autentico del termine e non un mero “soggetto passivo” di un prelievo esercitato coercitivamente e sotto minaccia di sanzioni da parte dell’autorità fiscale, per lo più destinato ad essere speso male o addirittura frutto di appropriazione altrui. Il cittadino deve sentirsi un “contribuente” attivo, parte della collettività – cui il gettito è virtuosamente destinato – e deve essere considerato tale anche dalle autorità fiscali, in un rapporto di collaborazione e non di contrapposizione. Quanto maggiore sarà la contrapposizione e la distanza tra l’essere un “contribuente” e l’essere un “mero soggetto passivo”, tanto minore sarà la volontà del soggetto di adempiere spontaneamente il tributo.

Insomma, ben vengano tutti gli strumenti anche più moderni per combattere l’evasione, il cui costo – dichiarazioni telematiche, pagamenti telematici, fatturazione elettronica, compilazione di modelli informativi di ogni genere e tipo – è peraltro stato sistematicamente posto a carico, anche economico, del contribuente e dei professionisti119, sempre più “ausiliari” del Fisco e sempre meno dediti a quello che dovrebbe essere il loro compito naturale di assistere l’impresa nel suo percorso gestionale ed organizzativo.

Ma ogni e qualsiasi adempimento verrà sempre percepito come vessatorio se, come detto, non si ripristinerà un adeguato livello di percezione della legittimazione del tributo.


PARTE II. QUESTIONI GIURIDICHE.


11. L'attuale assetto "giuridico" dell'Irpef

Spostandomi adesso sul piano giuridico, va ricordato che l’ultimo intervento importante sull’Irpef è quello realizzatosi con i decreti attuativi della L. n. 662/1996, che si sono dimostrati di rilevante importanza ai fini della costruzione di un sistema tributario “ordinato”.

Ampi sono tuttora i benefici derivanti dalla riscrittura della disciplina delle sanzioni amministrative tributarie, che ha originato un vero e proprio “microsistema” tributario in materia; dei redditi di lavoro dipendente, che ha proceduto all’unificazione delle basi imponibili fiscali e previdenziali ed attuato un giusto equilibrio tra il principio di “omnicomprensività” e quello della detassazione di talune utilità, in denaro o in natura, ricevute dai lavoratori; dei redditi di natura finanziaria, che ha contribuito a colmare quelle “lacune” che costituivano terreno fertile di elusione; delle operazioni straordinarie, di cui si è per la prima volta disegnato un sistema coerente; degli istituti deflativi, che hanno aperto la strada ad un nuovo rapporto tra fisco e contribuente; e via dicendo.

Questi interventi normativi sono sopravvissuti in gran parte a distanza di oltre venti anni, anche perché la stesura fu affidata alle sapienti mani di raffinati cultori della materia tributaria.

Da allora, l’unico tentativo di riforma è stato quello di cui alla Legge delega n. 80/2003, tuttavia attuata solo relativamente all’IRES quale indispensabile risposta alle ben note sentenze della Corte di giustizia UE “demolitorie” del sistema del credito di imposta sui dividendi, con la sua necessitata sostituzione con sistema dell’esenzione. Sistema, quest’ultimo, assistito da una serie di corollari, tra cui la participation exemption, che, pur non avendo natura agevolativa bensì strutturale, presenta tuttora una disciplina connotata da numerose limitazioni soggettive, oggettive e temporali, che hanno impedito all’Italia di diventare un riferimento per la collocazione delle holding.

Dai risultati della ricerca su «La tassazione delle società nell’Europa allargata», realizzata nell’ambito del Ceradi (LUISS) è peraltro risultato, per quanto riguarda l’Italia, che la convergenza verso i modelli occidentali è in buona parte frutto proprio del d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344 di «Riforma dell’imposizione sul reddito delle società», che aveva quale obiettivo proprio l’adozione di un «modello fiscale omogeneo a quelli più efficienti in essere nei Paesi membri dell’Unione Europea» (così la relazione di accompagnamento al decreto), al fine di rendere neutrale la variabile fiscale nelle decisioni degli operatori economici, nonché facilitare l’eventuale adozione di un sistema fiscale unico per l’Unione europea. Sotto questo profilo, non vi è dubbio che la riforma abbia provocato un avvicinamento del nostro sistema fiscale a quello dei principali Paesi dell’Unione europea120.

Certamente in modo “più scomposto” si è proceduto a seguito della crisi finanziaria del 2008, ma si tratta di interventi d’urgenza dettati da esigenze di finanza straordinaria riscontrati praticamente ovunque e i quali si sono dovuti confrontare con i ristretti margini di manovra disponibili, di fatto limitati, in ambito UE, all’imposizione diretta, reddituale e/o patrimoniale121. È in particolare su quest’ultimo fronte, quello patrimoniale, che si sono collocati gli interventi più importanti in termini di gettito sopra esaminati.

Tanto premesso, svolgeremo alcune considerazioni sul fatto se l’Irpef richieda scelte anche sul fronte della definizione legale di reddito nonché sulla disciplina di talune categorie su cui l’imposta si fonda (i.e., redditi di lavoro autonomo, redditi di natura finanziaria, redditi di impresa). Parte delle questioni di interesse delle singole categorie reddituali, ivi compresi i redditi fondiari e di lavoro dipendente, sono state anche affrontate nella prima parte, sicché rinviamo alle relative riflessioni.


12. La nozione di reddito

Si è molto discusso, nel corso delle audizioni, a quale concetto di reddito occorrerebbe fare riferimento.

Secondo una prima teoria, il reddito va ricondotto ad una fonte produttiva, all’esistenza cioè di un rapporto di derivazione dell’incremento patrimoniale da un’attività o da un atto di gestione di un cespite produttivo che siano idonei a produrre un risultato economico (teoria del c.d. “reddito prodotto”). In quest’ottica, che individua nella riproducibilità del reddito stesso un suo elemento fondamentale, si giunge a negare la valenza reddituale delle vicende che riguardano le fonti produttive (alienazione e perdita del bene produttivo, incrementi o decrementi del suo valore) e degli arricchimenti derivanti da liberalità, da atti a titolo gratuito o, più in generale, da atti occasionali, non ripetitivi e comunque non riproducibili.

Una seconda teoria valorizza, invece, il mero fatto dell’esistenza di un incremento patrimoniale, indipendentemente dalla connessione con una fonte produttiva e dunque assumendo quale elemento qualificante l’esistenza di una “entrata” nel patrimonio individuale, includendovi, oltre ai redditi da lavoro e da capitale, anche le plusvalenze e minusvalenze patrimoniali e le entrate di carattere straordinario e fortuito. Si tratta della teoria del c.d. reddito entrata, elaborata da Von Schanz, Haig e Simons.

Esiste, infine, una terza tesi, che determina il reddito in ragione del consumo e delle spese, escludendo dalla base imponibile il reddito risparmiato. Si tratta della teoria del c.d. reddito consumato, elaborata da Einaudi, Fisher, Vickrey e Kaldor, ma mai oggetto di applicazione nel nostro ordinamento e di difficilissima realizzazione pratica.

Non vi è dubbio che, nell’ambito delle cennate teorie, il nostro legislatore si sia per molto tempo orientato su un criterio di tassazione del reddito inteso come reddito prodotto che, come risulta anche dalla notissima pronunzia della Consulta che ha dichiarato costituzionalmente illegittima l’imposta sarda sulle plusvalenze immobiliari infraquinquennali122, costituisce tuttora il principio base della imposizione sui redditi. Ciò non toglie che questa linea evolutiva si sia parzialmente interrotta con la grande riforma tributaria degli anni ’70, con una apertura alla teoria del reddito entrata. Ne costituiscono testimonianza, ad esempio, le norme sulla tassazione delle vincite, dei concorsi e delle lotterie, che si qualificano come redditi diversi, ex art. 67, co. 1, lett. d), TUIR. Anche a tale riguardo, tuttavia, non ogni incremento di patrimonio costituisce reddito, atteso che deve comunque sussistere un minimum di efficienza causale tra l’operazione compiuta dal soggetto e la ricchezza novella. Sulla base di ciò – anche facendo leva sull’etimologia della parola reddito (dal latino reditus) e sulla necessaria presenza di un fattore commutativo tra l’incremento patrimoniale e l’attività del soggetto, secondo la logica del ritorno di una nuova ricchezza rispetto all’agire – si è affermato come, anche aderendo alla teoria del c.d. reddito entrata, sia sempre necessario che il percettore del reddito abbia svolto una qualche attività. Da qui, ad esempio, l’esclusione dal reddito degli incrementi del patrimonio derivanti da successioni, in cui viene conseguita una ricchezza per causa di morte senza alcuna contropartita; oppure – con l’eccezione dei redditi di lavoro dipendente e dei redditi di impresa, dove si prevede espressamente la rilevanza delle “liberalità” – delle donazioni, anche di tipo “remuneratorio” (art. 770, co. 1, c.c.), dove l’attività svolta dal ricevente rappresenta solo l’occasione da cui essa scaturisce: e ciò, peraltro, anche in conseguenza del divieto di doppia imposizione, poiché rientranti nell’imposta sulle successioni e donazioni. In quest’ottica, la ricomprensione di una novella ricchezza entro l’ambito del reddito fiscalmente rilevante richiede la verifica del “condizionamento” sufficiente – e non quale mera concausa – derivante dall’azione del soggetto rispetto alla stessa ricchezza; condizionamento che può poi essere costituito anche dall’alienazione di un bene ovvero dall’acquisto di un biglietto della lotteria.

Dinanzi alle incertezze interpretative nell’individuare un concetto unitario di reddito ai fini tributari, parte della dottrina ha prospettato una tesi nominalistica, in base alla quale è reddito solo ciò che il legislatore qualifica come tale nella disciplina delle singole categorie, riconoscendo, evidentemente, rilievo fondamentale alle categorie di reddito ai fini della definizione del presupposto. Tale impostazione – fatta propria anche dalla Corte costituzionale123 – troverebbe conferma anche nell’abbandono di una norma generale di chiusura per la definizione del presupposto d’imposta, precedentemente desumibile sia dall’art. 6, d.p.r. n. 597/1973 che individuava il presupposto dell’IRPEF nel possesso di redditi, in denaro o in natura, continuativi od occasionali, provenienti “da qualsiasi fonte”, sia dall’art. 80 del medesimo decreto che assoggettava a tassazione quale reddito diverso «ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalle disposizione del presente decreto». Tale sistema normativo basato sull’atipicità delle ipotesi reddituali e su un presupposto “aperto”, che aveva generato incertezze e dubbi di costituzionalità, ha lasciato il posto ad un sistema orientato nell’opposta direzione della tipicità delle fattispecie redditualmente rilevanti, in cui l’arricchimento personale diviene reddito fiscalmente rilevante a seguito della qualificazione del primo all’interno di una categoria di reddito.

La dottrina è pressoché concorde nel ritenere l’attuale sistema dell’imposizione reddituale quale sistema chiuso, che sottopone a tassazione le sole fattispecie reddituali analiticamente individuate. Tale carattere casistico della formulazione del presupposto d’imposta, che si specifica nelle diverse categorie reddituali, ha sollevato diverse critiche, fondate essenzialmente sulla mancanza di elasticità del sistema e sulla connessa facile creazione di vuoti regolamentari.

Occorre rilevare, tuttavia, che anche nell’ambito del vigente sistema vi sono alcune norme che fanno dubitare della effettiva realizzazione di una tecnica casistica. Si pensi, con riferimento alla categoria dei redditi diversi, all’art. 67, co. 1, lett. l), TUIR, che, nel fare riferimento a «tutte le obbligazioni di fare, non fare e permettere», allarga notevolmente il perimetro dei redditi diversi, senza tuttavia assumere connotati di onnicomprensività124.

Al di là di queste eccezioni, comunque, non v’è dubbio che l’attuale sistema normativo sia connotato, almeno come tendenza di fondo, dall’adozione della tecnica casistica e dall’assoluta rilevanza delle categorie di reddito.

Alla luce di quanto rilevato, dunque:

  • non possono condividersi quelle posizioni espresse in sede di audizione secondo cui anche le liberalità dovrebbero entrare in via generale nella nozione di reddito;

  • la nozione di reddito appare, oggi, sufficientemente assestata e, sia pur non corrispondendo ad una definizione generale, comunque molto ampia, anche tenendo conto, come di dirà oltre (infra, par. 14), della definizione “circolare” dei redditi di natura finanziaria;

  • occorre privilegiare le esigenze di certezza del diritto, che non a caso fu alla base anche della scelta dei redattori dell’attuale TUIR nel promuovere il superamento della precedente impostazione data alla questione dal d.p.r. n. 597/1973.

Non sembra dunque opportuno intervenire sulla nozione di reddito, salvo – naturalmente – non si intenda “sparigliare” del tutto le carte approfondendo l’articolata proposta avanzata dal prof. Giuseppe Vegas nella propria audizione125, laddove egli propone di aderire alla nozione di reddito consumato, con le difficoltà tecniche di non poco momento che tuttavia questa soluzione comporta.


13. La tassazione dei redditi di lavoro autonomo

Venendo adesso alle singole categorie reddituali e principiando dai redditi di lavoro autonomo, è noto che la disciplina dei compensi imponibili e dei costi deducibili ha formato oggetto di un significativo ampliamento per effetto del d.l. n. 223/2006 e della L. n. 344/2006, che hanno avviato una discreta omologazione delle modalità di determinazione del reddito di lavoro autonomo rispetto a quelle concernenti il reddito di impresa.

Tale omologazione, se certamente non può essere “completa” per via delle innegabili differenze sussistenti tra le due categorie – non potendosi dunque condividere le proposte di una loro unificazione126 – richiederebbe tuttavia qualche ulteriore passo in avanti, soprattutto per quanto attiene al regime fiscale degli immobili utilizzati dai professionisti.

Come noto, infatti, l’attuale disciplina non ammette in deduzione le quote di ammortamento relative agli immobili.

Nel caso di acquisto in leasing, dal 1° gennaio 2014 è invece possibile anche la deduzione dei canoni per l’acquisto di beni immobili ad uso non promiscuo, il cui periodo di ammortamento non può tuttavia essere inferiore a dodici anni, quale che sia la durata del contratto (l’art. 1, co. 335, L. n. 296/2006 ne aveva limitato la deducibilità ai soli contratti stipulati nel periodo 2007-2009).

È poi dubbio se possa dedursi il 50% dei canoni di leasing nel caso di beni immobili ad uso promiscuo, mentre è sicuramente confermata la indeducibilità delle quote di ammortamento dei beni immobili acquistati, determinando così una disparità di trattamento a seconda delle modalità di acquisizione del bene, che, in linea di principio, dovrebbero essere equivalenti quanto a trattamento (Ris. Ag. Entrate n. 19/E e n. 69/E del 2004).

Non è inoltre chiaro se, una volta riscattati i beni immobili già in leasing, l’eventuale plusvalenza sia imponibile solo quale reddito diverso, e pertanto solo in caso di possesso infraquinquennale, o direttamente quale lavoro autonomo e pertanto senza limiti temporali.

Si tratta, come si vede, di una disciplina incoerente ed incompleta, che richiede un urgente intervento.

Altri ambiti di intervento riguardano le c.d. “operazioni straordinarie” delle attività professionali e delle STP, ingiustamente penalizzate dalla prevalenza della tassazione sulla base della “forma” assunta127.


14. La tassazione dei redditi di natura finanziaria

Come è noto, il d.lgs. n. 461/1997, in attuazione della legge delega n. 662/1996, ha ridisegnato il sistema di tassazione dei redditi di natura finanziaria, nozione che ha valore descrittivo e non definitorio e che comprende i redditi di capitale e talune fattispecie contenute nei redditi c.d. “diversi”.

Il d.lgs. 461/1997 ha invero mantenuto la dicotomia propria del TUIR, nella tassazione dei redditi di natura finanziaria, tra redditi di capitale, riconducibili alla nozione di reddito prodotto, e redditi diversi, riconducibili alla nozione di reddito entrata.

Tuttavia, essa ha inciso sull’estensione della stessa nozione di reddito di capitale, delineando all’art. 44, lett. h), TUIR una norma residuale di notevole rilievo sistematico.

Tale ultima disposizione, infatti, esce dal precedente schema normativo (anteriore al d.lgs. n. 461/1997) dei proventi «in misura definita derivanti dall’impiego di capitali» per rivolgersi a qualsiasi rapporto avente per oggetto l’impiego di capitale. Tale disposizione si chiude con l’inciso «esclusi i rapporti attraverso cui possono essere rea-lizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto», ricollegandosi, in forma circolare, all’ulteriore previsione di cui all’art. 67, co. 1, lett c-quinquies, TUIR, che attrae ai redditi diversi «le plusvalenze e gli altri proventi, diversi da quelli precedentemente indicati, realizzati mediante cessione a titolo oneroso ovvero chiusura di rapporti produttivi di redditi di capitale e mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di crediti pecuniari o di strumenti finanziari, nonché quelli realizzati mediante rapporti attraverso cui possono essere conseguiti differenziali positivi e negativi in di-pendenza di un evento incerto».

Restano in tal modo attratti alla disciplina dei redditi diversi quei proventi che, pur implicando un impiego del (o una provvista di) capitale, sono caratterizzati dall’incertezza del risultato economico, intesa come possibilità che da detto impiego scaturisca un differenziale negativo o positivo. Si tratta dei redditi di natura finanziaria che vengono definiti “da capitale”, in contrapposizione con quelli “di capitale” disciplinati dall’omonima categoria reddituale.

La nuova sistemazione dei redditi di capitale appena delineata, pur giuridicizzando il fenomeno economico di incremento conseguente ad un impiego di capitale, lascia ferma la parte tradizionalmente riferibile al “frutto civile” (art. 820 c.c.), inteso come corrispettivo derivante dalla concessione in godimento del capitale, comprensiva degli interessi e dei dividendi, ricadendo invece i “differenziali” tra il costo del titolo e il ricavo conseguito per effetto della sua negoziazione – le c.d. plusvalenze – nell’ambito dei redditi diversi.

In sintesi, la prima categoria dei redditi “di capitale”, corrisponde, tendenzialmente, all’ambito dei frutti civili, in cui l’incremento di ricchezza deriva direttamente dal capitale per effetto di negozi giuridici che ne hanno ad oggetto l’impiego, secondo lo schema del reddito c.d. prodotto; la seconda categoria, dei redditi c.d. “da capitale”, corrisponde invece all’ambito delle plusvalenze e dei differenziali positivi da contratti derivati, essendo qui la derivazione da uno specifico impiego solo indiretta ed eventuale, pur riscontrandosi una relazione con un impiego (o anche una provvista) di capitale, secondo lo schema del reddito entrata.

Ebbene, più audizioni hanno rilevato come sia giunto il momento di procedere all’unificazione delle due categorie in cui attualmente i redditi di natura finanziaria sono allocati.

Il problema principale è che per i redditi di capitale non è riconosciuta alcuna deduzione, essendo pertanto irrilevanti le c.d. “perdite di capitale”, mentre nel caso dei redditi diversi di natura finanziaria rilevano anche le minusvalenze. Pertanto, nel regime cd. di “risparmio amministrato” l’intermediario presso cui si trovano i titoli applica un’imposta sostitutiva del 26% su ogni singola operazione da cui derivano plusvalenze su partecipazioni non qualificate o altri redditi diversi di natura finanziaria, al netto delle minusvalenze realizzate nell’ambito del medesimo rapporto di custodia titoli su operazioni precedenti, ma eventuali redditi di capitale realizzati nell’ambito di tale rapporto sono autonomamente tassati. Solo il regime c.d. di “risparmio gestito” consente di compensare redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria (c.d. “compensazione eterogenea”), facendo riferimento alla differenza tra il valore del patrimonio gestito al termine di ciascun anno solare ed il valore dello stesso all’inizio dell’anno solare (dunque al netto di minusvalenze, perdite di capitale e spese). Se in un anno il risultato della gestione è negativo, il corrispondente importo è computato in diminuzione del risultato della gestione dei periodi d’imposta successivi ma non oltre il quarto per l’intero importo che trova capienza in essi.

Come rilevato nel documento di studio più recente e completo oggi disponibile sull’argomento128, questa caratteristica, derivante dalla separata classificazione dei redditi finanziari tra redditi di capitale e redditi diversi, risulta obsoleta e suscettibile di creare rigidità nelle scelte di portafoglio, pregiudicando così ulteriormente l’efficienza del mercato dei capitali e determinando iniquità nella ripartizione del carico tributario (129).

Particolarmente grave è poi l’anomalia dei fondi comuni di investimento, essendo i relativi proventi classificati tra i redditi di capitale e le perdite tra i redditi diversi, potendo dunque le ultime essere utilizzate in compensazione solo quanto vengano realizzati redditi di tale ultima categoria130.

Ma la stessa tassazione per maturazione risulta da ripensare, perché anticipa la tassazione su plusvalori ancora latenti e sui ratei di interesse, oltre a risultare distorsiva quando l’andamento dei mercati sia particolarmente volatile.

Molti risparmiatori italiani sono ancora “scottati” dalle rilevanti imposte pagate prima dei crolli di borsa del 2008 e del 2011 calcolati su incrementi del patrimonio poi volatilizzati e ciò spiega una perdurante avversione verso gli investimenti in fondi e gestioni azionarie.

Occorre dunque superare la distinzione tra redditi di capitale e diversi e rendere fiscalmente rilevanti le “perdite di capitale”, convergendo su una tassazione del “realizzato”, che tassi solo redditi effettivamente conseguiti131.

Si renderà necessario intervenire, come già anticipato, anche sulla tassazione degli utili societari, oggi caratterizzati da una doppia imposizione economica e che vedono una irragionevole equiparazione nella tassazione tra soci qualificati e non qualificati.


15. La tassazione dei redditi di impresa

Per quanto riguarda, infine, la tassazione dei redditi di impresa, i punti da approfondire sarebbero davvero numerosi.

Limitandosi a quelli di carattere “sistematico”, occorre segnalare i seguenti.

In primo luogo, la incontrollata moltiplicazione dei regimi di determinazione dei redditi di impresa.

Risulta ormai evidente l’esistenza di una “non neutralità” di tipo “sostanziale” tra le imprese: non solo permane una “non neutralità” tra i soggetti IAS e quei soggetti non IAS oggetto dell’applicazione del principio di derivazione rafforzata – attesa la non piena identità di contenuto tra i principi contabili internazionali e nazionali – ma ad essa si aggiunge quella tra le imprese soggette al principio di derivazione “rafforzata” e quelle soggette al principio di derivazione “semplice” e, nell’ambito di queste ultime, tra quelle tenute all’applicazione dei principi OIC e quelle che non vi sono tenute.

In altri termini, la determinazione del reddito di impresa è funzione dei principi contabili adottati, talvolta (per gli IAS) per opzione, delle dimensioni dell’impresa e della sua natura giuridica. Se poi aggiungiamo tutti i regimi speciali – quello forfetario, quello di determinazione del reddito con il criterio misto cassa-competenza, quello previsto per le società agricole e via dicendo – risulta evidente la situazione caotica in cui versa il sistema.

Da qui sicuramente uno spunto in direzione di un serio approfondimento della tassazione sulla base del cash flow132, che, peraltro, avrebbe due sicuri vantaggi:

  • il primo, di consentire il pagamento delle imposte solo una volta incassati i ricavi, apparendo in periodi di crisi particolarmente penalizzante il criterio di competenza;

  • il secondo, anch’esso di non trascurabile rilevanza vista la propensione non ottimale al pagamento dei debiti da parte delle imprese italiane, di incentivare il pagamento da parte dei fornitori posto che, in mancanza del pagamento, gli stessi non potrebbero dedurre il relativo costo.

In secondo luogo, il regime fiscale che deve essere urgentemente adattato per tenere conto della crisi in atto.

Tra le misure su cui intervenire, rientrano sicuramente:

  • le attuali limitazioni al riporto delle perdite;

  • le attuali limitazioni alla deducibilità degli interessi passivi, per i quali l’Italia ha implementato la disciplina unionale della direttiva ATAD nel modo più restrittivo possibile133;

  • l’attuale disciplina sulle società di comodo, che oltre ad avere una natura ibrida e mai chiarita (134), presenta ormai coefficienti di redditività “lunari” ma soprattutto è inutile, essendo ormai l’intestazione societaria di beni “meramente patrimoniali” già sufficientemente contrastata attraverso l’indeducibilità di ogni costo di produzione, l’indetraibilità dell’IVA (e finanche, in taluni casi, la negazione della soggettività) e la tassazione quale “reddito diverso” dell’utilità ritrattane dai soci in eccesso a quanto da essi specificamente versato.

In terzo luogo, qualche osservazione conclusiva si impone sul tema del “tax rate” e dell’opacità del sistema.

È noto come le classifiche della Banca Mondiale ci collochino stabilmente tra gli ultimi posti per carico complessivo tra imposte e contributi sul lavoro135.

Nella ricerca Ceradi più volte menzionata, l’Italia risultava, tra i Paesi indagati, quello con il maggior “tax rate” societario – sia per aliquota sommando IRES ed IRAP, sia per effetto delle norme sulla determinazione del reddito di impresa (aliquote di ammortamento ormai anacronistiche, ecc.) – superato solo da Francia e Regno Unito nel momento in cui si teneva conto anche della fiscalità a livello di soci.

Non è esatta dunque l’affermazione secondo cui la tassazione dei profitti aziendali sia minore di quella sul lavoro, perché un conto è il tax rate della corporate income tax, altro è la tassazione del reddito complessivamente prodotto tramite lo strumento societario, dalla sua produzione sino alla sua apprensione da parte del socio.

La ricerca CERADI aveva peraltro evidenziato come al livello elevato di pressione fiscale, si aggiungesse un elevato livello di opacità, determinato dai forti disallineamenti tra base imponibile fiscale e risultato economico d’impresa, rendendo la percezione del carico fiscale effettivo più complessa ed il sistema impositivo meno trasparente. A tale effetto negativo contribuiva, inevitabilmente, l’IRAP, il cui depotenziamento e la sua “sostanziale” trasformazione in una “sovraimposta” IRES – peraltro inevitabile per superare il profilo di incostituzionalità connesso alla sua indeducibilità per la quota non relativa ai profitti – deve pertanto essere salutato con favore.

Negli ultimi anni, peraltro, sia per l’ulteriore abbassamento dell’aliquota nominale, sia per l’introduzione dell’ACE, sia, infine, per una serie di disposizioni relative alla determinazione della base imponibile, la situazione è molto migliorata.

La situazione non pare invece essere migliorata granché in termini di opacità del sistema. È sufficiente fare l’esempio dei differenti modi di tassazione del reddito di impresa sopra evidenziati. Il tutto, peraltro, esponendo in gran parte l’impresa a rilievi del Fisco sui componenti di bilancio, prima ancora che sulle “qualificazioni fiscali” degli accadimenti aziendali.

La ricerca del Ceradi auspicava pertanto un sistema più trasparente, in cui i “tax rate” effettivi non fossero significativamente superiori a quelli nominali e nel quale le divaricazioni tra risultati economici e basi imponibili fossero rappresentate da poche misure selettive di incentivo alle decisioni che generano crescita (innovazione, investimenti produttivi, localizzazione di nuovi rami d’azienda, aumenti di capitale) e idonee a recuperare gettito nell’area dell’estrazione di profitti societari meramente speculativi (differenziali da trading, operatività in derivati non di copertura, ecc.), oltre che dall’evasione.

Questa elencazione di settori agevolabili oggi può, anzi deve, essere integrata con la previsione di agevolazioni (anche in misura maggiore delle precedenti) per gli investimenti effettuati in vista della sostenibilità ambientale delle imprese (c.d. green economy), nonché per gli investimenti finalizzati alla c.d. transizione digitale (c.d. digital transition)136.

Si segnalava come la via maestra apparisse il ripristino di incentivi sostanziali, stabili e strutturali alla generalità degli investimenti produttivi, all’innovazione e alla crescita dimensionale delle imprese (tramite aggregazioni o relazioni di rete), ottenuti tramite crediti d’imposta, altri meccanismi di detassazione ed anche tramite la revisione delle aliquote di ammortamento (sovente anacronistiche).

Sotto questo profilo, le misure adottate per la crescita in questi ultimi anni sono state senz’altro apprezzabili, anche se, da un lato, quasi sempre costrette da angusti vincoli di spesa, dall’altro, talvolta eccessivamente ed inutilmente generose, come nel caso del patent box applicato ai marchi, il cui costo, pari a svariati miliardi di euro, non appare per nulla proporzionato ai benefici originati. Anche qui, naturalmente, sono prevalse le ragioni “pratiche” della concorrenza fiscale.


PARTE III. IL REPERIMENTO DELLE RISORSE FINANZIARIE. DIGITAL TAX E IMPOSTE AMBIENTALI.


È noto che nel 2008, il maggior fabbisogno derivante dalla crisi finanziaria fu finanziato, anche sotto la spinta di organizzazioni internazionali, soprattutto attraverso l’introduzione e l’inasprimento di imposte patrimoniali, immobiliari, finanziarie e di altro genere; attraverso l’incremento delle aliquote IVA; attraverso imposte sugli “attori” del settore finanziario.

L’adozione di misure del genere è oggi impensabile, sia perché le imposte patrimoniali e le imposte sul consumo (tranne, come detto, l’IVA), almeno in Italia, hanno nel frattempo raggiunto livelli molto elevati (pure considerato il forte deprezzamento subito dai cespiti immobiliari); sia perché un’ulteriore sottrazione di risorse al settore privato e/o l’inasprimento delle imposte sui consumi contraddirebbe l’obiettivo di far ripartire i consumi medesimi; sia, infine, perché il settore finanziario, già provato, non può permettersi né nuovi balzelli, né la perdita di risorse che conseguirebbe ad imposte patrimoniali di carattere straordinario.

La contrapposizione tra redditi da lavoro e rendite ha un senso che appare oggi solo ideologico. Gli investimenti immobiliari sono oggi caratterizzati, come visto, da un’elevata imposizione, aggravata dal crollo delle quotazioni e dall’incremento delle rendite grazie agli strumenti di cui il Fisco adesso dispone, che ha reso il rapporto tra valori catastali e di mercato ben lontano dal valore 1:3 in cui aliquote e base imponibili erano state originariamente concepite, per approssimarsi sovente all’unità. Da qui la depressione dei rendimenti (ergo dei valori), mitigati solo in parte dalla (indispensabile e purtroppo depotenziata) cedolare secca sulle locazioni. Né miglior sorte, in termini di total tax rate, spetta agli investimenti azionari. Margini per inasprimenti dunque non ve ne sono, essendo semmai necessaria un’inversione di tendenza.

Per il reperimento di nuove risorse, occorre invece muovere dalle recenti riflessioni della Corte costituzionale, secondo cui «in un contesto complesso come quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni di valore, il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica»137.

In tale prospettiva, tra i tanti ambiti meritevoli di attenzione138, se ne evidenziano qui due in particolare, anche se ovviamente non decisivi ai fini del procacciamento delle risorse necessarie per una Riforma.

A. Il primo, è quello delle imprese della new economy.

Si tratta di un fenomeno che già era in crescita esponenziale negli ultimi anni e che, a seguito della diffusione della pandemia Covid-19, è stato tra i pochi a “resistere” alle conseguenze negative sul piano economico derivanti dalla diffusione del virus.

Ciò che caratterizza le imprese della new economy è la loro capacità di spostare sempre più la produzione di ricchezza dai tradizionali canali a favore di nuove forme organizzative ben più difficili da tassare, con i problemi di gettito e di finanziamento delle spese sociali che ne conseguono.

Al punto che la questione è oggetto di attenzione sia da parte dell’OCSE – nell’ambito dell’Inclusive Framework che sta elaborando i Pillars su cui dovrebbe fondarsi la fiscalità internazionale nei prossimi decenni – sia da parte dell’Unione europea, che da diversi anni ha posto il problema tra quelli che richiedono una soluzione assai rapida per evitare che il modello europeo di stato sociale subisca una crisi irreversibile.

Quantunque apprezzabili, appare tutt’altro che scontato che tali iniziative di livello sovranazionale abbiano esito positivo.

Il progetto dei Pillar 1 e Pillar 2 dell’OCSE si pone obiettivi ambiziosi e meritevoli. Il Pillar 1 è rivolto a superare il tradizionale criterio di collegamento della stabile organizzazione e a creare un nuovo criterio di collegamento tra impresa e territorio ai fini della tassazione delle imprese della new economy; il Pillar 2 si propone di fissare un livello minimo di tassazione delle imprese a livello mondiale mediante, tra l’altro, l’adozione di una serie di meccanismi di contrasto dell’erosione della base imponibile.

Si tratta, tuttavia, di progetti che, pur estremamente approfonditi e dettagliati sotto il profilo tecnico, possono avere successo solo qualora si riuscisse a raggiungere il consenso unanime a livello internazionale su alcuni snodi politici di particolare rilievo: concentrando l’attenzione sul Pillar 1 – che assume maggiore rilievo ai fini della tassazione della new economy – mi riferisco, in particolare, al livello di sovraprofitto che dovrebbe essere riallocato (e, conseguentemente, tassato) negli Stati “di destinazione” dei prodotti/servizi dell’impresa, a prescindere da una presenza fisica nei territori di tali Stati ed alle percentuali di riallocazione di tale sovraprofitto tra i diversi Stati. E nell’attuale panorama internazionale sembra lecito nutrire dubbi che tale consenso possa essere raggiunto.

Anche l’Unione europea, poi, ha finora tenuto un comportamento di fiduciosa attesa degli sviluppi a livello OCSE: all’indomani della bocciatura delle due proposte di Direttiva del 2018 sulla tassazione delle imprese dell’economia digitale, la Commissione europea ha rimesso la soluzione della questione nelle mani dell’OCSE, nell’auspicio che si possa raggiungere un consenso a livello internazionale. È ben vero che la tassazione della new economy è tornata di attualità quale possibile fonte di finanziamento del piano Next Generation EU. Va sottolineato, tuttavia, che la bocciatura delle proposte di Direttiva del 2018 è stata dovuta alla forte opposizione da parte di diversi Stati membri dell’UE, interessati ad evitare ripercussioni negative sulla competitività delle imprese nazionali (e che gli sviluppi del parallelo progetto OCSE sono stati fortemente osteggiati dagli Stati Uniti d’America, patria della maggioranza delle multinazionali che operano nel settore della new economy) e che tale scenario non sembra ad oggi significativamente mutato: resta, per quanto concerne l’UE, la necessità dell’approvazione all’unanimità di tale tributo – non essendo in tali casi possibile ricorrere alla c.d. «nuclear option» dell’approvazione a maggioranza in base all’art. 116 TFUE – e molte delle imprese che avevano fatto “sentire la loro voce” nel 2018 per evitare l’approvazione delle proposte di Direttiva tornerebbero a farsi valere, influenzando le scelte dei governi nazionali.

Ecco, allora, che l’adozione di Digital Service Tax nazionali da parte di diversi Stati membri dell’UE (è il caso non solo dell’Italia, ma anche di Francia, Spagna, Austria e Polonia, oltre al Regno Unito da poco fuoriuscito dall’UE) appare una soluzione tutt’altro che disprezzabile e comunque in grado di sbloccare l’attuale impasse a livello sovranazionale. La tassazione della new economy potrebbe passare, quindi, per una soluzione adottata a livello nazionale (senza sottovalutare l’ipotesi di una cooperazione rafforzata): l’attuale Digital Service Tax costituisce un buon punto di partenza, ma la definizione dei servizi digitali imponibili si presta ad ulteriori riflessioni ed aggiustamenti, al fine renderli più coerenti con la ratio del tributo, vale a dire la tassazione dei servizi in cui l’attività dell’utente crea ricchezza per l’impresa.

B. Il secondo è quello dei tributi ambientali.

Questi tributi vengono in particolare in rilievo sia in funzione extrafiscale, vale a dire con finalità di indirizzo – incentivante o disincentivante – dei comportamenti individuali delle imprese e dei consumatori, spesse volte introdotte a livello nazionale su indicazione degli organi Ue o in attuazione di atti unionali; sia come possibile risorsa propria dell’Unione Europea medesima.

La centralità dei tributi ambientali nella discussione a livello di Ue è ormai indiscutibile. Si legge nella Comunicazione della Commissione al Consiglio sul Green Deal europeo del 11.12.2019, che «Riforme fiscali ben concepite possono stimolare la crescita economica, migliorare la resilienza agli shock climatici, contribuire a una società più equa e sostenere una transizione giusta, inviando i giusti segnali di prezzo e incentivando produttori, utenti e consumatori ad assumere comportamenti sostenibili. A livello nazionale il Green Deal europeo creerà un contesto adatto a riforme fiscali su larga scala che aboliscano le sovvenzioni ai combustibili fossili, allentino la pressione fiscale sul lavoro per trasferirla sull'inquinamento e tengano conto degli aspetti sociali. Occorre garantire la rapida adozione della proposta della Commissione sulle aliquote dell'imposta sul valore aggiunto (IVA), attualmente all'esame del Consiglio, che consentirà agli Stati membri di fare un uso più mirato delle aliquote IVA per riflettere la maggiore ambizione dei traguardi ambientali, ad esempio sostenendo i prodotti ortofrutticoli biologici», o ancora che «È inoltre essenziale garantire che l'imposizione fiscale sia allineata agli obiettivi climatici. La Commissione proporrà di rivedere la direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici (Direttiva 2003/96/CE, n.d.r.), dando rilevanza agli aspetti ambientali e proponendo di utilizzare le disposizioni dei trattati che consentono al Parlamento europeo e al Consiglio di adottare proposte in questo settore mediante la procedura legislativa ordinaria con votazione a maggioranza qualificata anziché all'unanimità». Ciò che sicuramente induce a riflessioni in ordine al sistema dell’IVA in agricoltura, che agevola fortemente attività, quali quelle di allevamento intensivo, che, secondo gli studi scientifici e di impatto ambientale, è insostenibile, per il suo impatto sulle emissioni di gas serra e sul consumo idrico e dei territori.

Il doppio livello di intervento emerge anche in materia di plastic tax. La policy dell’Unione Europea viene delineata nel documento «Strategy for plastic in a Circular Economy» (gennaio 2018), dove si legge che «la Commissione valuterà la possibilità concreta di introdurre misure di natura fiscale a livello di UE», che «Le modalità del potenziale contributo versato dovrebbero essere decise in base alla valutazione dell'apporto al conseguimento degli obiettivi della strategia. Inoltre, nel contesto della preparazione del quadro finanziario pluriennale per il periodo successivo al 2020, l'introduzione di una tassa potrebbe essere presa in considerazione tra le potenziali opzioni per generare entrate per il bilancio dell'UE»; ed inoltre che «Anche le decisioni degli Stati membri in materia di fiscalità e appalti pubblici svolgeranno un ruolo essenziale nel favorire la transizione e orientare gli investimenti. Nella sua proposta di revisione della legislazione in materia di rifiuti, la Commissione ha sottolineato l'importanza di ricorrere a strumenti economici per dare priorità alla prevenzione dei rifiuti e al riciclaggio a livello nazionale. L'internalizzazione dei costi ambientali connessi allo smaltimento in discarica e all'incenerimento mediante tasse o contributi elevati o aumentati gradualmente potrebbe aumentare la redditività del riciclaggio della plastica».

La possibile funzione della plastic tax quale risorsa propria viene evidenziata con chiarezza nella «Proposta di Regolamento del Consiglio che stabilisce misure di esecuzione del sistema delle risorse proprie dell’Unione Europea» – COM(2018) 327 final del 2.5.2018, la quale propone di introdurre tre nuove risorse proprie, tra cui proprio quella sui «rifiuti di imballaggio di plastica non riciclati».

Anche la recentissima proposta della Commissione UE 27.05.2020 442 final concernente «Il bilancio dell’UE come motore del piano per la ripresa europea», riprende l’ipotesi di ampliamento delle risorse proprie dell’UE attraverso tributi ambientali al fine di garantire il rimborso dei fondi connessi al Recovery Fund, in particolare attraverso «nuove risorse proprie basate sui rifiuti non riciclati di imballaggi di plastica» – dove «queste ultime si baseranno sulle priorità e sulle politiche dell’UE volte a combattere i cambiamenti climatici, ma anche sull’equità fiscale in un mondo globalizzato» – al tempo stesso promuovendo «la transizione verde dell’economia e della società europee». Essa precisa che «tra le opzioni figura una risorsa propria basata sul sistema per lo scambio di quote di emissioni, che potrebbe essere estesa anche ai settori marittimo e aeronautico, e un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere». Quest’ultima risorsa «permetterebbe agli Stati membri di mantenere un importo pari ai proventi della vendita all’asta in un periodo recente. Eventuali introiti generati dal sistema per lo scambio di quote di emissioni che superino questo massimale sarebbero destinati al bilancio dell’UE di circa 10 miliardi di EUR, in funzione dell’evoluzione del prezzo del carbonio e dell’estensione del sistema ad altri settori». Il meccanismo di adeguamento alla frontiera serve per assicurare che le imprese UE possano competere con quelle di Paesi terzi su un piano di parità, prevenendo «la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio, che ostacola i tentativi dell’Ue di passare a una società neutra in termini di emissioni di carbonio”. Questo meccanismo «potrebbe generare entrate aggiuntive comprese tra 5 e 14 mld di EUR all’incirca, a seconda della portata e della progettazione».

La possibilità che il tributo possa avere anche finalità extra-fiscali per “indirizzare” il comportamento di produttori e consumatori è di particolare rilevanza ai fini costituzionali. Queste finalità extra-fiscali devono perseguire un valore di ordine costituzionale, ma a tale riguardo la Corte costituzionale italiana ha da tempo affermato che la protezione dell’ambiente è un valore primario del nostro ordinamento costituzionale, poiché determina la qualità di vita degli esseri umani139.

Si discute da tempo in dottrina se e in quale misura detti tributi debbano rispettare anche il principio di capacità contributiva (si pensi all’emissione di CO2, di cui si sostiene la natura ora tributaria ora indennitaria). Il problema non si pone, tuttavia, per i tributi in esame, poiché l’indice di capacità contributiva rilevante è qui il consumo.

La questione più rilevante riguarda invece se il presupposto può ritenersi adeguato alla ratio del tributo. La questione è pertanto più attinente il piano della ragionevolezza che quello della capacità contributiva.

Il tema non è nuovo nelle Corti costituzionali europee. Secondo la Corte costituzionale spagnola (n. 289/2000), ad esempio, le imposte ambientali devono essere idonee a raggiungere il loro obiettivo regolatorio. Ciò richiede, tra l’altro, una corretta definizione del presupposto e della base imponibile, di modo che minore è l’inquinamento, minore è l’imposta dovuta. Anche la Corte costituzionale francese si è pronunziata in argomento, considerando contraria a Costituzione la Carbon Tax introdotta dalla legge di bilancio per il 2010, poiché, per il suo ampio contenuto derogatorio, si rivelava non effettiva al raggiungimento dello scopo che si proponeva140.

Occorre tuttavia fare qualche ulteriore precisazione.

Innanzitutto, uno degli elementi fondamentali delle policies degli Stati che ricorrono a questa tipologia di tributi è di far sì che i contribuenti, siano essi individui o imprese, non debbano pagare complessivamente più tributi, ma paghino altri tributi rispetto a quelli tradizionali, nell’ottica di diversificazione dei presupposti imponibili.

Un esempio in tal senso è costituito dalla Danimarca che ha previsto l’aumento della tassazione sull’energia e sui trasporti, su tutti i combustibili fossili e le biomasse utilizzate per il riscaldamento, compensandolo tuttavia con una riduzione dell’imposizione sul reddito delle persone fisiche. Detto diversamente, il gettito dei tributi in esame potrebbe essere utilizzato, ad esempio, per ridurre le imposte sui redditi da lavoro così ottenendo anche un dividendo occupazionale. Per quanto riguarda le imprese, poi, i tributi in esame potrebbero prevedere che in presenza di un comportamento virtuoso a favore dell’ambiente esse abbiano la possibilità di limitare l’ammontare di tributo extrafiscale dovuto.

Per quanto poi riguarda le “sin taxes” ivi compresa la “sugar tax”, vale osservare che per poter raggiungere il loro obiettivo extrafiscale esse devono indurre i consumatori a scegliere prodotti meno nocivi per la propria salute e, di conseguenza, portare ad una riduzione, fino ad un azzeramento, delle entrate correlate a tale tipo di imposta. Tuttavia, ad oggi, gli studi svolti negli stati dove tali imposte sono state introdotte non sono univoci e spesso testimoniano che l’effetto sperato non si realizza e che, in ogni caso, l’imposta da sola, se non integrata in una più ampia riforma volta a sensibilizzare i consumatori, non è in alcun modo sufficiente a modificare le abitudini dei consumatori stessi.

Ciò che emerge, dunque, è l’importanza del design di questi tributi. Il loro successo non risiede solo nella scelta del presupposto da colpire, ma è strettamente connessa agli obiettivi extratributari che si intendono conseguire, alle modalità implementative nonché a quelle di utilizzo delle entrate derivanti da questi specifici tributi, anche al fine di preservare la competitività delle imprese e aiutare i ceti sociali più deboli in ragione della potenziale regressività dei tributi in esame.

Qualora non si tengano in considerazione questi elementi, l’unico obiettivo che il tributo può (e vuole) conseguire è quello di generare nuove entrate senza mai poter divenire un’efficace misura di tutela dell’ambiente e della salute.

Non vi è dubbio, peraltro, che le imposte ambientali abbiano rilevanti effetti sul consumo di determinati beni, dunque sulla relativa produzione e, conseguentemente, sul settore economico che di volta in volta viene in rilievo.

È sufficiente ricordare, quanto alle conseguenze di carattere economico che un tributo con finalità extra-fiscali può provocare, l’esperienza della Danimarca relativamente all’imposta sui grassi saturi che, a motivo dell’incremento dei prezzi, della crisi di intere filiere legate ai prodotti interessati e della possibilità di acquistare i medesimi prodotti nei paesi confinanti, hanno indotto il Governo all’abrogazione del prelievo.


CONCLUSIONI

Venendo adesso alle conclusioni, possono delinearsi i seguenti punti:

  1. il sistema tributario è un sistema complesso, che deve adattarsi a plurime esigenze ed istanze, pure di natura efficientista, sino al limite di regimi derogatori “attrattivi” che collidono frontalmente con il principio di capacità contributiva ma “seguono” (e al tempo stesso contrastano, con lo stesso “mezzo”) policies regolarmente attuate in altri Stati membri: non è pertanto possibile prefigurarsi un “migliore dei mondi possibili” fatto solo di grafici ed equazioni;

  2. non è richiesta una riforma radicale dell’Irpef, ma una serie di passaggi “mirati”, anche se non necessariamente privi di complessità ed incisività;

  3. questa scelta “mirata” è opportuna anche sotto altro profilo, posto che le riforme radicali non sono “a costo zero” per l’ordinamento, poiché richiedono tempo per essere digerite, durante il quale il livello di incertezza aumenta sensibilmente. In un sistema che ha raggiunto un suo equilibrio, paiono pertanto più utili interventi di manutenzione straordinaria. Andrebbe pertanto riproposta la strategia del Ministero Padoan, che ha proceduto a taluni importanti interventi appunto “mirati” collocati nel solco di precise e condivisibili strategie generali di fondo141. Sotto questo profilo, appare peraltro impensabile la messa in opera di un sistema duale puro, che porterebbe il sistema da un livello di complessità sostanzialmente ingestibile ed incompatibile con i principi di semplicità e certezza del diritto che devono informare un ordinamento competitivo.

  4. l’intervento dovrà, per quanto sopra dedotto e argomentato:

    • coordinarsi ed armonizzarsi con le componenti assistenziale, previdenziale e di accesso ai servizi pubblici (par. 2);

    • evitare qualsiasi ulteriore innalzamento delle aliquote massime, già ampiamente superiori al livello medio EU-19 (par. 2 e 3.1.);

    • affidare la redistribuzione prevalentemente a meccanismi di spesa (par. 2);

    • coordinare meglio il reddito di cittadinanza con l’imposta sul reddito al fine di renderlo meno disincentivante verso il lavoro (par. 2);

    • depurare le deduzioni ex art. 10 TUIR dalle misure “non strutturali” (par. 3.2.);

    • superare l’andamento erratico delle aliquote effettive, anche tenendo conto delle più rilevanti misure solidaristiche e redistributive previste nel nostro ordinamento (par. 3.3. e 3.4.);

    • superare le discriminazioni tra le diverse categorie dei redditi di lavoro, vuoi per la curva di progressività, vuoi per il reddito di riferimento, al tempo stesso però considerando gli effetti derivanti dalla diversa contribuzione previdenziale sul costo del lavoro (par. 3.4.);

    • tenere distinto il piano della capacità contributiva del singolo contribuente da quello delle condizioni di “necessità” (par. 3.4.);

    • ricostruire il piano della capacità contributiva nella sua dimensione “personale”, riconoscendo pertanto, a tutti i contribuenti, quelle deduzioni e detrazioni per quegli oneri che hanno carattere inevitabile e necessitato, diminuendo la disponibilità economica utilizzabile per il concorso alle spese pubbliche, e ciò indipendentemente dal livello di reddito (par. 3.4.);

    • considerare la funzione delle deduzioni o detrazioni anche quale modalità per determinare il reddito al netto dei costi di produzione, sussistente ad ogni livello di reddito (par. 3.4.);

    • tenere conto che non si può contribuire “in negativo”, ma al più non contribuire affatto (par. 3.4.);

    • mantenere l’esclusione dei redditi di natura finanziaria dal reddito complessivo (par. 4 e 4.2.);

    • mantenere la cedolare secca per gli immobili a destinazione abitativa, con la medesima aliquota attualmente prevista (par. 4.1.);

    • ripristinare la cedolare secca per gli immobili a destinazione non abitativa già prevista per il solo 2019 (par. 4.1.);

    • evitare qualsiasi ulteriore intervento sull’imposizione patrimoniale e successoria, men che meno una imposizione patrimoniale personale (par. 2, par. 4.1., par. 4.2., par. 4.4.);

    • consentire l’opzione per la tassazione in dichiarazione delle partecipazioni non qualificate (par. 4.2.);

    • procedere a stime accurate circa l’effettiva incidenza dell’aliquota al 15% per la tassazione forfetaria di imprese e professionisti, onde poterne valutare l’armonia con il sistema di imposizione dei redditi da lavoro alla luce dei vantaggi e degli svantaggi che essa comporta (par. 3);

    • valutare la posizione dei regimi speciali attrattivi nell’ottica dei principi ispiratori della nuova riforma Irpef (par. 4.4.);

    • sostituire l’attuale detrazione per i lavoratori dipendenti con una di ammontare fisso, senza limiti di reddito (par. 5);

    • non ampliare ulteriormente la fascia di compensi ai fini della tassazione forfetaria dei redditi di lavoro autonomo (par. 5);

    • valutare la reintroduzione dell’IRI, semmai attraverso meccanismi di semplificazione nella determinazione della base imponibile (par. 5);

    • avviare un’analisi costi/benefici per le detrazioni ed agevolazioni che costituiscono erogazione di reddito (par. 6);

    • nell’ipotesi in cui si mantenesse la linea dell’assegno unico, garantirlo a ciascun contribuente, al fine di tenere conto della differenza di capacità contributiva individuale tra un soggetto senza carichi familiari ed uno con figli a carico, oppure aggiungere il riconoscimento nell’imposta di uno sgravio in presenza di carichi familiari, motivata da considerazioni di equità orizzontale (par. 7);

    • tenere conto delle famiglie monoreddito (par. 7);

    • mantenere l’esenzione del reddito figurativo della abitazione principale (par. 8);

    • rivedere la disciplina complessiva dell’esenzione da IMU dell’abitazione principale, comprese le attuali limitazioni (par. 8);

    • proseguire nell’opera di adeguamento “puntuale” dei valori catastali, piuttosto che avventurarsi in improbabili revisioni generali (par. 9);

    • confermare l’attuale assetto definitorio del reddito (par. 12);

    • intervenire sulla disciplina degli immobili, delle operazioni straordinarie e delle STP nel reddito di lavoro autonomo (par. 14);

    • procedere all’unificazione delle due categorie in cui attualmente sono allocati i redditi di natura finanziaria (par. 15);

    • convergere sulla tassazione dei redditi di natura finanziaria “realizzati” (par. 15);

    • razionalizzare l’attuale moltiplicazione dei regimi di determinazione del reddito di impresa, anche approfondendo possibili ambiti di applicazione della c.d. “cash flow tax” (par. 16);

    • adattare il regime fiscale del reddito di impresa per tenere conto della crisi in atto, intervenendo inter alia sul riporto delle perdite, sulla limitazione alla deducibilità degli interessi passivi, sulla disciplina delle società di comodo (par. 16);

    • proseguire con incentivi sostanziali, stabili e strutturali, in generale, agli investimenti produttivi, all’innovazione e, in particolare, a quelli per la green economy e per la transizione digitale, all’innovazione e alla crescita dimensionale delle imprese (realizzata per mezzo di aggregazioni o relazioni di rete), tramite crediti d’imposta, tramite altri meccanismi di detassazione ed anche tramite la revisione delle aliquote di ammortamento (sovente anacronistiche) (par. 16).

1 La circostanza che l’Italia sia in linea con la media UE sia rispetto alla composizione percentuale delle entrate tra fiscali e contributive, sia rispetto alla distribuzione tra imposte dirette ed indirette, è rilevata anche dall’audizione ISTAT (2021), p. 7, in particolare sulla base del sistema di classificazione dei conti a livello europeo (SEC 2010 – Regolamento UE n. 549/2013).

2 Audizione prof. Paolo Liberati (2021), p. 52. Per un’analisi approfondita, P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, in Argomenti: Rivista di Economia, Cultura e Ricerca Sociale, 2021, p. 33 ss.

3 Sul punto, si segnala AA.VV. (a cura di F. Marchetti, G. Melis, P. Pistone e R. Tiscini), «La tassazione delle società nell’Europa allargata», realizzata nell’ambito del Ceradi (LUISS), Roma, Edizioni Discendo Agitur, 2012, i cui risultati sono riassunti in G. MELIS, R. TISCINI, La tassazione del reddito di impresa: problemi attuali e prospettive di riforma in chiave comparatistica, in Rassegna tributaria, 2014, p. 97 ss.

4 Sul punto, v. C. MAZZAFERRO, Quanto la pensione è un affare, in Lavoce.info, 7.2.2020, reperibile all’indirizzo web https://www.lavoce.info/archives/63349/quando-la-pensione-e-un-affare/, il quale evidenzia che i sistemi pensionistici pubblici realizzano differenti tipi di redistribuzione: la più nota è quella che deriva dal trasferimento di una parte del prodotto dell’economia dai lavoratori a chi è fuori dal mercato del lavoro perché ha raggiunto l’età di pensionamento. Lo Stato interviene poi con trasferimenti, finanziati attraverso la fiscalità generale, a favore della parte più povera della popolazione anziana. Vi è però un terzo tipo di redistribuzione ed è quella che si realizza lungo il ciclo di vita di un individuo. Ebbene, a tale riguardo, si evidenzia un rapporto superiore a 1 tra contributi versati e pensione ottenuta per tutte le classi di pensionati a decorrere dal 1995 (1,99) – anno in cui è stato introdotto in Italia il sistema contributivo per effetto della L. n. 335/1995, prevedendosi tuttavia un periodo di progressivo adeguamento al sistema contributivo medesimo e che terminerà all’incirca nel 2035 – al 2017 (1,21), con il massimo del rendimento per coloro che sono andati in pensione a 55 anni (2,03). Evidenzia tra l’altro l’autore che «Non sono infine i percettori di redditi elevati ad avvantaggiarsi di più di questo tipo di trasferimento, a causa del fatto che il rendimento dei contributi versati risulta decrescente al crescere del reddito all’interno della formula retributiva»: infatti, come evidenzia l’A., «il sistema retributivo ha una formula di computo della pensione tale per cui il coefficiente di rendimento è pari a 2% per ogni anno di contribuzione solo fino a 47 mila euro di retribuzione pensionabile. Per la parte eccedente il coefficiente si riduce. Questo significa che il tasso di sostituzione è decrescente, a parità di altri fattori, al crescere del reddito e questo si ripercuote sulle misure e rende effettivamente progressivo il sistema retributivo, caratteristica che si ha pure nel contributivo».

5 Si pensi, ad es., alle professioni forensi, in cui il 50% degli oltre 230mila avvocati non supera i 20.000 euro di reddito annuo. Cfr. P. MACIOCCHI, Avvocati, nel 2020 essenziale il reddito di ultima istanza, in Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2021, p. 8.

6 Corte cost., n. 173/2016.

7 Recentemente, si veda GIMBE, 4° Rapporto sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, 2019, reperibile all’indirizzo http://www.rapportogimbe.it/4_Rapporto_GIMBE.pdf.

8 Esse corrispondono infatti a multipli, anche rilevanti, delle tariffe del SSN (ad es., il SSN remunera una prima visita € 20, ed una visita di controllo € 12, importi ben diversi dai corrispettivi medi richiesti per visite in intramoenia).

9 Si tratta dei soggetti con meno di 6 anni o più di 65 anni con reddito familiare complessivo inferiore a € 36.165,98; dei disoccupati iscritti a un Centro per l'Impiego che hanno rilasciato dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (e loro familiari a carico) con reddito familiare inferiore o pari a € 8.263,31, incrementato a € 11.362,65 in presenza del coniuge, e in ragione di ulteriori € 516,46 per ogni figlio a carico; dei soggetti titolari (o a carico di altro soggetto titolare) di assegno (ex pensione) sociale; dei soggetti titolari (o a carico di altro soggetto titolare) di Pensione al Minimo, con più di 60 anni e reddito familiare inferiore o pari a € 8.263,31 incrementato a € 11.362,05 in presenza del coniuge, e in ragione di ulteriori € 516,46 per ogni figlio a carico (art. 8, co. 16 L. n. 537/1993 e s.m.i.).

10 P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 22.

11 Si v. anche il Rapporto n. 7/2020 «Il bilancio del sistema previdenziale italiano. Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2018», a cura del Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali, reperibile all’indirizzo https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/biblioteca/pubblicazioni/settimo-rapporto-bilancio-del-sistema-previdenziale-italiano.html.

12 P. SESTITO, Promemoria per una riforma fiscale: discussione e replica dell’autore, in Politica Economica, 2019, p. 420, che richiama anche N. CURCI, G. GRASSO, P. RECCHIA, M. SAVEGNAGO, Anti poverty measures in Italy: a microsimulation analysis, Banca di italia, Temi di discussione, 2019.

13 Audizione prof. Massimo Baldini (2021), p. 13.

14 Dati Audizione UPB (2021), p. 25 ss.

15 L. MARATTIN, Allentare la pressione sulle retribuzioni, in Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2020, p. 26.

16 Cfr. M. MOBILI, G. TROVATI, Redditi, sempre più pensioni e meno stipendi, in Il Sole 24 Ore, 2018, p. 3, i quali evidenziano che dal 2006 al 2016, i redditi da pensione sono aumentati del 25,6%, a fronte di un incremento del 15,6% dei redditi di lavoro dipendente. Nel 2006, il reddito medio da pensione era pari al 68,5% dei redditi da lavoro dipendente, nel 2016 era diventato il 83,1%. Nel 2000, i pensionati versavano il 20,8% dell’imposta, nel 2016 il 28,2%.

17 Corte cost., n. 288/2019.

18 Sottolinea l’Audizione UPB (2021), p. 29, come l’Irpef sia diventata negli anni più progressiva e più redistributiva di quella originaria, «un risultato apparentemente controintuitivo se si confrontano le aliquote legali massime di oggi e di allora».

19 Cfr. F. CRESCI, P. LIBERATI, A. SCIALÀ, L’illusione della progressività, in Il Sole 24 ore, 15 febbraio 2018, p. 8.

20 Come è infatti stato bene osservato, il processo di globalizzazione «ha reso incerto il presupposto su cui sono stati sino ad oggi elaborati gli ordinamenti fiscali, e cioè il presupposto della coincidenza tra chi fruisce della spesa pubblica e il contribuente»: F. GALLO, Disuguaglianze, giustizia distributiva e principio di progressività, in Rass. trib., 2012, p. 292.

21 V. VISCO, Promemoria per una riforma fiscale (a Briefing for a Tax System), in Politica Economica, 2019, p. 144, propone un ulteriore innalzamento delle aliquote massime, richiamando studi sull’aliquota ottimale del 73%, che tuttavia, considerata l’ulteriore proposta avanzata dall’A. di una tassazione personale progressiva sul patrimonio, dovrebbe essere fissata «a livelli non troppo superiori al 50%». Esprimono il loro favore all’innalzamento delle aliquote massime anche talune organizzazioni sindacali dei lavoratori: cfr., soprattutto, Audizione CGIL (2021), p. 6. Contrario all’innalzamento delle aliquote massime è anche P. LIBERATI, Promemoria per una riforma fiscale: discussione e replica dell’autore, in Politica economica, 2019, p. 405.

22 Queste proposte di riduzione dell’assistenza sanitaria pubblica si ritrovano, ad esempio, in Confindustria: si v. R. MAGNANO, Sanità, le imprese guardano al modello USA, in Il Sole 24 ore 1 febbraio 2018, p. 3. Critiche a impostazione ed avanzate in riferimento alla ben nota proposta dell’Istituto Bruno Leoni del 2017 – che, tuttavia, lo configurava come modalità di finanziamento della “flat tax” – si trovano anche in V. ONIDA, La Costituzione garantisce i diritti sociali dei cittadini, in Corriere della Sera, 21 luglio 2017, reperibile all’indirizzo https://www.corriere.it/opinioni/17_luglio_22/costituzione-garantisce-7e853854-6e40-11e7-adc0-ba2bd5ab3f02.shtml.

23 Cfr. anche Audizione Banca di Italia (2021), p. 8, secondo cui «un processo di riforma dell’Irpef non potrà prescindere dal riordino degli istituti a essa collegati (come i trasferimenti sociali e le addizionali locali), che andrà realizzato in maniera organica e coordinata»; audizione prof. Massimo Bordignon (2021), slide 4, che esprime la necessità di un approccio organico in cui la riforma Irpef sia elemento di una riforma più generale, coordinata anche con il sistema di welfare.

24 La forte progressività dell’Irpef e l’impatto redistributivo aumentato nel corso degli anni, vengono invero rilevati in numerose audizioni, tra cui quella del prof. Massimo Bordignon (2021), slide 32; quella del prof. Massimo Baldini (2021), p. 1 ss., il quale rileva che «la forte progressività degli anni ’70 era più apparente che sostanziale» e ritiene che il grado di progressività dell’Irpef non debba essere aumentato; quella del CNEL (2021), p. 7.

25 Ad esempio, V. VISCO, Promemoria per una riforma fiscale (a Briefing for a Tax System), in Politica Economica, 2019, p. 150; audizione del prof. Massimo Bordignon (2021), slide 24; audizione del dott. Carlo Cottarelli (2021), p. 2.

26 Di questa opinione è anche P. SESTITO, Promemoria per una riforma fiscale: discussione e replica dell’autore, in Politica Economica, 2019, p. 417.

27 Forte, Steve e Pedone, richiamati da P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 22.

28 Audizione prof. Massimo Baldini (2021), p. 4. Si rileva nell’audizione del prof. Paolo Liberati (2021), p. 38, che nei Paesi OCSE in media circa ¾ della riduzione della diseguaglianza nel passaggio dai redditi di mercato al reddito disponibile è imputabile ai trasferimenti monetari, con l’Italia posizionata a livelli inferiori, appoggiandosi l’Italia in misura maggiore sulle imposte piuttosto che sui trasferimenti monetari. V. anche e M. BALDINI, Avvicinare le aliquote e allargare il bonus gli interventi più urgenti, in Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2020, p. 17. Ricorda peraltro P. LIBERATI, Promemoria per una riforma fiscale: discussione e replica dell’autore, in Politica economica, 2019, p. 404, come già la Commissione per lo Studio della Riforma Tributaria avesse affermato che ove l’attuazione di un’imposta progressiva si fosse dimostrata molto difettosa – per carenza di inclusione di specifiche fonti reddituali – sarebbe stato preferibile scegliere forme di imposizione più semplici e affidare la retribuzione a strumenti di spesa. Una posizione critica nei confronti dell’uso del meccanismo fiscale in funzione redistributiva, si ritrova nell’audizione del prof. Giuseppe Vegas (2021), p. 3; nell’audizione di Nicola Rossi (2021), slide 9, che sottolinea come occorrerebbe fare «della spesa pubblica lo strumento principale di redistribuzione e [costruire] un fisco orientato alla crescita»; nell’audizione dell’IBL (2021), p. 3, secondo cui «L’obiettivo del sistema fiscale deve tornare a essere il finanziamento della spesa pubblica, nel rispetto della capacità contributiva e dell’equità del sistema; e non una politica di redistribuzione immediata».

29 P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 16 e 24; audizione del prof. Giuseppe Vegas (2021), p. 3.

30 Audizione del prof. Paolo Liberati (2021), p. 39.

31 P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 22.

32 Audizione prof. Simone Pellegrino (2021), p. 15-16.

33 F. MOSCHETTI, Profili generali, in AA.VV. (a cura di F. MOSCHETTI), La capacità contributiva, Padova, 1998, p. 37.

34 Audizione UPB (2021), p. 29.

35 Cfr. la tabella riportata nell’appendice dell’audizione del prof. Vincenzo Visco (2021), p. 10, che dimostra, tra l’altro, come la revisione del bonus nel 2020 abbia ridotto i salti in corrispondenza dei 24-26mila euro per trasferirli in avanti (audizione prof. Massimo Bordignon, 2021, slide 35).



36 La circostanza che le aliquote effettive fossero considerevolmente più elevate di quelle apparenti per tutti gli scaglioni di redditi era già stata rilevata nel 2008 nel «Libro bianco sull’imposta sul reddito delle persone fisiche ed il sostegno alle famiglie”.

37 Audizione prof. Paolo Liberati (2021), p. 55, che ne auspica un assorbimento delle risorse dal lato della spesa pubblica. Anche P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 27.

38 Cfr. Audizione CNA (2021), p. 6, secondo cui «in dettaglio, per un reddito pari a 12 mila euro l’imprenditore individuale in contabilità semplificata ed i professionisti subiscono una tassazione Irpef più alta di 15,1 punti percentuali rispetto ai lavoratori dipendenti; differenza che diventa di 23 punti percentuali se si è in contabilità ordinaria (…) Le differenze si attenuano al crescere del reddito e si azzerano in corrispondenza di un imponibile pari a 55.000 euro, oltre il quale non sono riconosciute più le detrazioni da lavoro dipendente».

39 Audizione prof. Massimo Baldini (2021).

40 Audizione Direttore Generale Agenzia delle Entrate (2021), p. 18; Audizione UPB (2021), p. 61; Audizione prof. Vincenzo Visco (2021), p. 7. Si v. anche V. VISCO, R. PALADINI, Irpef, l’aliquota continua che salva il ceto medio, in Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2020, p. 22, secondo cui «va anche ricordato che un’imposta con poche aliquote (o con una sola aliquota), come alcuni propongono è lo strumento meno indicato per ridurre il prelievo sui ceti medi perché è proprio queta struttura di aliquote che, a parità di gettito, concentra il carico fiscale sui ceti medi, ma soprattutto di quelli più elevati». Per le posizioni contrarie, cfr. Audizione prof. Maurizio Leo (2021), p. 5, che ne evidenzia il disincentivo alla creazione di ricchezza e lo stimolo di comportamenti evasivi.

41 Audizione della Corte dei conti (2021), p. 22.

42 P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 22.

43 Audizione Direttore Generale Agenzia delle Entrate (2021), p. 15.

44 Audizione UPB (2021), p. 32.

45 Audizione prof. Maurizio Leo (2021), p. 5.

46 Audizione prof. Vincenzo Visco (2021), p. 7.

47 Audizione del prof. Bordignon (2021), slide 39. In questo senso, anche l’audizione della Corte dei conti (2021), p. 11, laddove rileva che «ai fini di una revisione dell’Irpef (…) sarebbe sufficiente riconsiderare il ruolo delle detrazioni per fonte di reddito e per carichi familiari. In particolare, tali strumenti si potrebbero modulare non con obiettivi redistributivi, ma recuperando la loro funzione primaria consistente nel garantire un’adeguata misurazione della capacità contributiva e la realizzazione del criterio di discriminazione qualitativa del reddito».

48 F. MOSCHETTI, Profili generali, in AA.VV. (a cura di F. MOSCHETTI), La capacità contributiva, p. 39-40.

49 Sotto questo profilo, si condivide quanto sostenuto nell’Audizione della Corte dei conti (2021), p. 11, laddove afferma che «nel caso del lavoro dipendente, si aggiunge l’opportunità di riconoscere in via forfettaria spese di produzione del reddito che non trovano espressione in una contabilità analitica dei costi, come nel caso del lavoro autonomo e del reddito di impresa. In tutti i casi, l’attuale limitazione per livelli di reddito, funzionale a soddisfare vincoli di gettito, non costituisce la soluzione più razionale, proprio in ragione dell’incerto e confuso profilo di aliquote marginali effettive a cui dà luogo. Soluzioni più efficaci, allo scopo, dovrebbero essere orientate a rimuovere le detrazioni decrescenti per livelli di reddito, e a ripristinare importi costanti che, in ogni modo, corrisponderebbero ad una percentuale di reddito decrescente al crescere del reddito stesso, così da potersi giustificare anche sotto un profilo redistributivo». Favorevole alle deduzioni per i redditi di lavoro dipendente è anche l’audizione del dott. Carlo Cottarelli (2021), p. 5.

50 Cfr. anche audizione Corte dei conti (2021), p. 13. Vedi anche P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 22. Cfr. anche l’audizione del prof. Paolo Liberati (2021), p. 44, che evidenzia l’anomalia di assumere che un lavoratore dipendente con reddito superiore a 55mila euro non sostenga alcuna spesa di produzione del reddito, contraddicendo gli ovvii requisiti di razionalità che tali detrazioni dovrebbero garantire, ed evidenzia come questa soluzione trascuri persino il fatto che un’eventuale detrazione costante e universale corrisponderebbe ad una percentuale di reddito decrescente al crescere del reddito stesso, così da potersi giustificare anche sotto un profilo redistributivo.

51 F. GALLO, Quali interventi post pandemia attuare in materia fiscale e di riparto di competenze fra stato e regioni?, in Rass. trib., 2020, p. 597; L. CARPENTIERI, V. CERIANI, Proposte per una riforma fiscale sostenibile. Work in Progress, Paper elaborato dal gruppo di studio di Astrid su “Proposte per una riforma fiscale sostenibile”, in banca dati ASTRID, 2020, p. 15.

52 È sufficiente pensare all’applicazione del sistema duale ai redditi degli immobili, di cui il par. 4 dell’audizione del prof. Giampaolo Arachi (2021), p. 7, offre un esempio paradigmatico, nel momento in cui rileva che «Il rendimento del capitale investito sarà pari al rendimento nozionale utilizzato per l’ACE nell’ambito dell’attività di impresa moltiplicato per il costo d’acquisto dell’immobile. Nel caso delle abitazioni locate, dovrebbe quindi confluirebbe nel reddito complessivo Irpef, il canone di locazione al netto del reddito ACE. Per gli immobili non locati e le abitazioni principali rientrerebbe nel reddito complessivo Irpef la differenza fra il reddito figurativo, individuato attraverso la rendita catastale, ed il reddito ACE».

53 Per una stima, v. Audizione Direttore Agenzia delle Entrate (2021), p. 9, secondo cui l’imponibile sottratto alla progressività, per le tre tassazioni sostitutive indicate, è pari, rispettivamente a 15,7 mld, 43,6 mld e 9,7 mld. A ciò si aggiungono 2,9 mld per i premi di produttività e 7,4 mld per i redditi fondiari non imponibili.

54 Audizione Banca di Italia (2021), p. 13 e 34.

55 Audizione Banca di Italia (2021), p. 13 e 34.

56 Audizione Banca di Italia (2021), p. 13.

57 Audizione Banca di Italia (2021), p. 13.

58 Audizione Banca di Italia (2021), p. 34.

59 Audizione Banca di Italia (2021), p. 34.

60 https://www1.finanze.gov.it/finanze3/immobili/contenuti/immobili_2019.pdf.

61 MEF-Agenzia delle Entrate, Gli immobili in Italia 2019. Ricchezza, reddito e fiscalità immobiliare, p. 102.

62 MEF-Agenzia delle Entrate, Gli immobili in Italia 2019. Ricchezza, reddito e fiscalità immobiliare, p. 90.

63 Cfr. Audizione Banca di Italia (2021), p. 16, secondo cui «Attenzione va prestata agli effetti della coesistenza di diverse tipologie di prelievo. Nel sistema italiano l’interazione di imposte patrimoniali e reddituali può determinare un carico tributario prossimo, se non superiore, a quello che si avrebbe se gli stessi redditi fossero soggetti all’aliquota marginale massima dell’Irpef. L’applicazione del bollo sulle attività finanziarie implica un prelievo fiscale complessivo sul reddito che aumenta al diminuire dei rendimenti: ai tassi attuali, anche senza considerare l’inflazione, può arrivare a livelli superiori all’aliquota marginale dell’Irpef del 43 per cento. Livello elevati di prelievo si hanno anche nel caso di immobili locati, dato che l’Imu si somma all’imposizione sostitutiva mediante cedolare secca o a quella progressiva sui redditi».

64 Ci si riferisce alla nota pronuncia del 1995 (c.d. HalbteilungsgrundsatzBVerfGE 93, 121) che aveva ritenuto inammissibile, per violazione del diritto di proprietà, un’imposizione complessiva sui redditi di un imprenditore superiore al 50%, e alla successiva sentenza (BVerfGE, 2° Senato, 18-1-2006 - 2 BvR 2194/99), che, traendo argomento dall’art. 14, 2° co. della Costituzione tedesca – secondo cui «la proprietà deve servire anche al bene comune» – ha precisato che la sentenza del 1995 non andava letta nel senso che esiste un tetto massimo alla tassazione a difesa dell’economia privata e, in particolare, dei diritti proprietari, intendendo essa solo «gettare le basi per un giudizio di ragionevolezza circa la tassazione medesima». Evidenzia peraltro l’audizione CNEL (2021), p. 22, nota 25, il caso della Impôt sur la fortuna francese in cui, con alterne vicende, furono posti limiti superiori al livello complessivo del prelievo fiscale, inclusa la ISF, in modo che non eccedesse una percentuale (da ultimo, la metà) del reddito imponibile.

65 Cfr. Corte cost., n. 262/2020.

66 Sorprende pertanto leggere affermazioni di meraviglia nei confronti di questo regime contenute nell’audizione di qualche organizzazione sindacale dei lavoratori. Emblematica è l’audizione della CGIL (2021), p. 6 ss., che dedica pagine intere all’inasprimento dell’aliquota massima Irpef nella misura del 60%, alla maggiore tassazione delle rendite finanziarie, all’inasprimento della tassazione delle rendite immobiliari persino faticando «a trovare una motivazione alla cedolare applicata ai canoni liberi», alla censura della flat tax per i lavoratori autonomi affermando che essa avrebbe creato «una concorrenza sleale verso il lavoro dipendente che è facilmente comprensibile se si pensa che a parità di retribuzione lorda vs ricavi, a 65.000 euro annui, un autonomo in forfait finisce per avere un netto superiore di 5.000 euro», così confondendo retribuzione lorda e reddito netto, sull’inasprimento delle imposte patrimoniali, sull’inasprimento dell’imposta sulle successioni e via dicendo. L’unica forma di alleggerimento dell’imposizione ammessa dalla CGIL è la detassazione degli incrementi contrattuali (p. 12). Si tratta, va rilevato, di una posizione radicale della sola CGIL, essendo le audizioni delle restanti sigle sindacali (CISL, UIL, UGL) molto più ragionevoli ed equilibrate, tant’è che delle menzionate posizioni della CGIL non vi è traccia nella piattaforma condivisa con CISL e UIL.

67 Ad es., quella contenuta nell’Allegato 1 – Rapporto sulla Riforma dell’Irpef, Audizione CNDCEC (2021), p. 6.

68 Audizione dott. Carlo Cottarelli (2021), p. 4.

69 Audizioni prof. Vincenzo Visco (2021), p. 5.

70 V. TAMBURRO V., Ires alle stelle sui dividendi percepiti, Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2015, p. 14.

71 Audizione Banca di Italia (2021), p. 17.

72 Sul fatto che qualsiasi valutazione sull’alternativa tra proporzionalità e progressività non possa prescindere da un adeguato apprezzamento del complesso delle imposte che incidono gli impieghi del capitale in Italia, si veda il documento Redditi finanziari. Distorsioni del sistema impositivo e prospettive di riforma, redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Domenico Muratori e composto da V. Ceriani, G. D’Alessio, C. Lo Porto, N. Manuti, F. Marchetti e L. Zaccaria, nell’ambito del “Laboratorio Fiscale”, p. 11, i quali rilevano che «l’esistenza di una cospicua imposizione patrimoniale sulla ricchezza finanziaria […] non solo contribuisce a riequilibrare in senso progressivo il sistema rispetto alla tassazione proporzionale dei proventi, ma comporta anche effetti di stabilizzazione del gettito e, soprattutto, accentua notevolmente l’incidenza fiscale effettiva sui redditi» e che «qualsiasi intervento riformatore in materia dovrebbe cercare l’equilibrio (in termini di progressività complessiva e di flussi di gettito) nel mix tra imposizione sui redditi e prelievo patrimoniale, evitando l’errore di considerare partitamente i due settori impositivi».

73 Cfr. Audizione Confartigianato (2021), p. 15, secondo cui «non tutti i potenziali interessati dal regime aderiscono allo stesso in considerazione del fatto che le percentuali di redditività previste, in molti casi, non garantiscono la copertura dei costi effettivi del soggetto».

74 Audizione Confartigianato (2021), p. 16.

75 Così, ad esempio, audizione del prof. Massimo Bordignon (2021), slide 26, laddove afferma che «il sistema attuale introduce violazioni molto forti nel principio di equità orizzontale (rispetto ad un lavoratore dipendente dello stesso reddito, il forfettario implica un risparmio di imposta di 5.000 euro ad un reddito lordo di 40.000 euro, di 10.000 euro ad un reddito di 60.000 euro». Qual è, infatti, il “reddito” del lavoro autonomo dell’esempio, il totale dei compensi percepiti?

76 P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 26.

77 Numerose anche le audizioni che hanno manifestato una ferma contrarietà. Tra queste audizione Confcommercio (2021), p. 3; audizione CNEL (2021), p. 21, che ricorda anche le vicende dell’imposta patrimoniale personale francese; audizione prof. Paolo Liberati (2021), p. 50.

78 Cfr. P. LIBERATI, Promemoria per una riforma fiscale: discussione e replica dell’autore, in Politica economica, 2019, p. 407.

79 Audizione CNEL (2021), p. 15; audizione prof. Paolo Liberati (2021), p. 50. Cfr. anche V. CERIANI, Promemoria per una riforma fiscale: discussione e replica dell’autore, in Politica Economica, 2019, p. 397.

80 Audizione del prof. Vincenzo Visco (2021), p. 6, il quale auspica che le famiglie, grazie a questo meccanismo, si assumano maggiori rischi negli investimenti.

81 Audizione del prof. Dario Stevanato (2021), p. 8.

82 Sul punto, si rinvia alla esaustiva Audizione dell’UPB (2021), p. 23, laddove si evidenzia che «nel caso del lavoro dipendente, l’operare delle detrazioni e del bonus Irpef fa sì che al disotto dei 12.500 euro non sia dovuta imposta. Tra le 8.150 e i 12.500 euro, poiché il bonus è erogato integralmente anche in assenza di capienza fiscale, i contribuenti beneficiano di un trasferimento che può valere sino al 15 per cento del reddito percepito (aliquota negativa). Per i redditi interiori agli 8.150 euro il bonus non spetta e non è dovuta imposta. In corrispondenza del reddito medio da lavoro dipendente (circa 21.000 euro) le detrazioni e il bonus valgono complessivamente circa il 13 per cento del reddito imponibile, riducendo l’aliquota media effettiva all’11 per cento»,

83 Audizione UPB (2021), p. 49, che propone pertanto una revisione di tale bonus, ricorrendo ad esempio a un credito d’imposta commisurato al reddito da lavoro percepito in modo da incentivare la partecipazione al mercato del lavoro e di favorire anche gli incapienti.

84 Cfr. Audizione dell’UPB (2021), p. 25.

85 Cfr. il sito web Censis. Sotto questo profilo, non si comprende l’affermazione contenuta nell’audizione del prof. Vincenzo Visco (2021), p. 5, secondo cui si tratterebbe di un’agevolazione soprattutto nell’interesse delle imprese. E ciò è tanto più sorprendente, se si pone mente al fatto che questo sistema ha trovato ingresso nel nostro ordinamento proprio a seguito della c.d. “Riforma Visco” del 1996.

86 P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 28.

87 Si v. audizione Confcommercio (2020), p. 8; Audizione Confartigianato (2021), p. 12; Audizione CNA (2021), p. 7; audizione Casartigiani (2020), p. 7. C’è peraltro da chiedersi come mai vi sia tuttora un ricorso così massiccio all’impresa individuale (1,5 mln) o alla società di persone (650.000) quando ormai il diritto societario offre strumenti assai flessibili e poco onerosi che consentono di evitare la responsabilità personale illimitata, anche tributaria; è noto, infatti, che in ambito tributario i redditi evasi vengono imputati al socio “per trasparenza” anche laddove egli, pur attivandosi, non sia riuscito ad avere alcun resoconto della gestione (Corte cost., n. 201/2020), oppure, per i tributi della società, operando la responsabilità solidale del socio finanche per le sanzioni amministrative anche laddove egli sia rimasto completamente estraneo alla gestione. La spiegazione non può che essere il maggior costo della contabilità ordinaria e l’impossibilità di accedere ai regimi di flat tax. Ed in effetti, per le imprese individuali, a seguito dell’estensione a 65.000 euro della soglia dei ricavi, il 33% degli imprenditori individuali opera in regime forfettario, il 60% in contabilità semplificata e il 7% in contabilità ordinaria: cfr. Audizione CNA (2021), p. 1.

88 Si v. per tutti D. CANÈ, Dall’Iri ai regimi sostitutivi: profili critici e spunti per una riforma dell’imposta sui redditi delle persone fisiche, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2018, p. 453.

89 Audizione Banca di Italia (2021), p. 6.

90 Nell’audizione della Corte dei conti (2021), p. 13, vengono indicate altre 30 spese fiscali riferibili all’Irpef.

91 In ultimo, con sent. n. 111/2016, ove si legge che «Questa Corte ha già chiarito che la ratio delle misure fiscali censurate nel presente giudizio «va individuata in una esigenza di equità fiscale, derivante dalla considerazione della minore utilità economica che presentano i beni immobili di interesse storico o artistico in conseguenza del complesso di vincoli e limiti cui la loro proprietà è sottoposta», di modo che «l’applicazione di un beneficio fiscale trova […] il suo fondamento oggettivo proprio nella peculiarità del regime giuridico dei beni di cui si tratta» (sentenza n. 345 del 2003, relativa all’art. 2, comma 5, del d.l. n. 16 del 1993). Ha inoltre aggiunto, in altra occasione, che la scelta del legislatore appare «tutt’altro che arbitraria o irragionevole, in considerazione del complesso di vincoli ed obblighi gravanti per legge sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall’art. 9, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 346 del 2003, relativa all’art. 11, comma 2, della l. n. 413 del 1991). Tali conclusioni sono condivise dalla giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 marzo 2011, n. 5518). Il fondamento del trattamento fiscale più favorevole riservato ai beni di interesse culturale va rinvenuto nella considerazione che la proprietà di tali beni denota una capacità contributiva ridotta, per effetto degli oneri che la normativa di settore impone ai loro titolari. Fra essi spiccano quelli connessi all’obbligo del proprietario di «garantirne la conservazione» (art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004) e al potere del Ministro competente di «imporre al proprietario [...] gli interventi necessari per assicurare la conservazione dei beni culturali, ovvero provvedervi direttamente» (art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004). Salve limitate eccezioni, «gli oneri per gli interventi su beni culturali, imposti o eseguiti direttamente dal Ministero ai sensi dell’articolo 32, sono a carico del proprietario» (art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004)».

92 Si veda sul punto l’audizione dell’Associazione dimore storiche italiane presso la Commissione finanze del 8 ottobre 2015, reperibile all’indirizzo https://www.camera.it/temiap/2015/10/09/OCD177-1541.pdf, che evidenzia, tra l’altro, che «uno studio condotto da Deloitte per la Provincia di Firenze ha evidenziato alcuni dati importanti (che possono essere proiettati anche su base nazionale): - in base ad ulteriori analisi di sotto-campioni localizzati nella città di Firenze, il costo medio di manutenzione e restauro della facciata è risultato circa 9 volte maggiore rispetto ai dati medi di mercato (Prezziario delle Tipologie Edilizie) degli altri immobili». Cfr. anche il I Rapporto dell’Osservatorio Patrimonio Culturale Privato, a cura della Fondazione Bruno Visentini, Gangemi Editore Internationals, reperibile all’indirizzo web https://www.osservatoriopatrimonioculturaleprivato.org/rapporto-2020.

93 V. VISCO, Promemoria per una riforma fiscale (a Briefing for a Tax System), in Politica Economica, 2019, p. 145, ribadito nell’Audizione (2021), p. 5.

94 Secondo la Corte costituzionale, infatti, «restringere la tassabilità dei redditi secondo un indeterminato criterio di libera disponibilità di essi significherebbe imporre senza limiti la detraibilità dal reddito disponibile di ogni erogazione di esso, e senza limiti quantitativi, in necessità primarie dell’esistenza: non, dunque, soltanto le spese mediche, ma anche, e a maggior ragione, perché più difficilmente comprimibili, quelle per il sostentamento, per il tetto ecc. La assurdità di una tale conclusione impone di riportare il problema nei suoi veri termini, riconoscendo che la detraibilità non è secondo Costituzione necessariamente generale ed illimitata, ma va concretata e commisurata dal legislatore ordinario secondo un criterio che concili le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva, non meno pressanti della vita individuale»: Corte cost., n. 134/1982. Vedi anche Corte cost., n. 368/1987, secondo cui «la deduzione è infatti ammessa soltanto nei casi e con le modalità stabilite di volta in volta discrezionalmente dal legislatore».

95 Quest’ultimo intervento ha un oggetto assai limitato, sicché non si comprende l’affermazione contenuta nell’audizione del prof. Visco (2021), p. 5, per la quale questa nuova agevolazione non giustificherebbe la permanenza dell’incentivo per interventi di recupero del patrimonio edilizio.

96 Corte cost., n. 358/1995, sul punto chiarissima: «Deve osservarsi conclusivamente che dai calcoli tributari si constata senza dubbio che l'attuale trattamento fiscale della famiglia penalizza i nuclei monoreddito e le famiglie numerose con componenti che non producono o svolgono lavoro casalingo. Queste famiglie infatti - che dovrebbero essere agevolate ai sensi dell'art. 31 della Costituzione - sono tenute a corrisponde re un'imposta sui redditi delle persone fisiche notevolmente superiore rispetto ad altri nuclei familiari composti dallo stesso numero di componenti e con lo stesso reddito, ma percepito da più di uno dei suoi membri. Tali effetti distorsivi furono - come si è già notato - segnalati più volte da questa Corte, dalla dottrina e dallo stesso legislatore che, con la legge n. 408 del 1990, delegò il Governo a provvedere adeguatamente, senza peraltro che tale delega abbia avuto, fino ad oggi, alcun seguito. Ciò nonostante, è altrettanto evidente che i rimedi per il necessario ristabilimento dell'equità fiscale in materia e la tutela della famiglia sotto questo aspetto non possono essere apprestati da questa Corte mediante l'accoglimento della questione nei termini in cui è proposta, in quanto ciò implicherebbe pluralità di complesse scelte, come emerge dalle varie ipotesi prospettate dalla citata sentenza n. 76 del 1983, dalle diverse esperienze di altri Stati e dall'ampio recente dibattito parlamentare: scelte che competono esclusivamente al legislatore».

97 Audizione ISTAT (2021), p. 17; Audizione UPB (2021), p. 31 ss., che evidenzia come «a parità di condizione economica familiare, una coppia di due percettori paga fino a 7.700 euro di imposta in meno rispetto a un nucleo con un solo percettore. Il risparmio di imposta è crescente con il reddito del nucleo e raggiunge il massimo in corrispondenza di un reddito familiare di circa 56.000 euro, con un risparmio di imposta che supera i 14 punti percentuali».

98 Audizione Banca di Italia (2021), p. 6.

99 Per un approfondimento, si veda la Testimonianza del Capo del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, Paolo Sestito, nell’ambito dell’Audizione preliminare sulla delega al Governo per riordinare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico (A.S. 1473) presso la 6° Commissione (Finanze e tesoro) del Senato della Repubblica, reperibile all’indirizzo https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-vari/int-var-2016/sestito_11102016.pdf.

100 Audizione del prof. Paolo Liberati (2021), p. 28.

101 Audizione del prof. Paolo Liberati (2021), p. 26.

102 Audizione UPB (2021), p. 47.

103 F. PEPE, Vantaggi, criticità ed implicazioni sistematiche dell’istituendo “Assegno Unico e Universale per i figli a carico”, in Riv. tel. dir. trib., 9 ottobre 2020.

104 Rileva l’audizione CNEL (2021), p. 35, che «eliminare questa detrazione dall’Irpef significa rimuovere del tutto le considerazioni di equità orizzontale che ne avevano giustificato l’introduzione, non riconoscendo più che la capacità contributiva si riduce in presenza di figli a carico».

105 Cfr. anche P. LIBERATI, Promemoria per una riforma fiscale: discussione e replica dell’autore, in Politica economica, 2019, p. 405. In questo senso, anche Audizione Corte dei conti (2021), p. 26.

106 P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 29.

107 Audizione CNEL (2021), p. 35.

108 Audizione UPB (2021), p. 36 e 72. M. MICCINESI, Il reddito dei fabbricati: profili e considerazioni critiche, in AA.VV., La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive. III. Aspetti finanziari e tributari, Milano, 1986, p. 199, ove ampie riflessioni (critiche) sul tema della tassazione dei fabbricati utilizzati come abitazioni e dei fabbricati sfitti.

109 Audizione UPB (2021), p. 36; audizione CNEL (2021), p. 19. Vedi anche l’audizione del prof. Massimo Bordignon (2021), slide 23, secondo cui «andrebbe ricondotta a tassazione a livello locale l’abitazione di residenza, anche per motivi legati ad una corretta applicazione del federalismo fiscale. Nessun paese europeo esenta totalmente l’abitazione di residenza dalla tassazione (patrimoniale o reddituale)».

110 Sotto questo profilo, si segnala, in senso contrario, l’audizione del prof. Simone Pellegrino (2021), p. 20, che propone addirittura di includere nel reddito complessivo gli affitti imputati – vale a dire un ipotetico canone di locazione percepito nel caso in cui l’immobile fosse concesso in locazione – pari a 10 volte le attuali rendite catastali!

111 Audizione CNEL (2021), p. 22.

112 Audizione prof. Simone Pellegrino (2021), p. 6.

113 Cass., n. 23235/2014, secondo cui «la legge non pone una specifica definizione delle categorie e classi catastali, sicché la qualificazione in termini di "signorile", "civile", "popolare" -di cui alla nota C-1/1022 del 4.5.1994 del Ministero delle Finanze esplicativa delle varie categorie catastali- di un’abitazione costituisce il portato di un apprezzamento di fatto da riferire a nozioni presenti nell'opinione generale alle quali corrispondono specifiche caratteristiche, che sono, pure, mutevoli nel tempo, sia sul piano della percezione dei consociati sia sul piano oggettivo, per il deperimento dell’immobile, o per il degrado dell'area ove lo stesso si trovi (così Cass. n. 22557 del 2008, in motivazione). Le anzidette caratteristiche non vanno, tuttavia, mutuate dal D.M. 2/8/69 che indica, invece, i diversi parametri in base ai quali stabilire la caratteristica "di lusso" delle abitazioni, e ciò in quanto l’attribuzione della categoria catastale A/1 (Abitazioni di tipo signorile: Unità immobiliari appartenenti a fabbricati ubicati in zone di pregio con caratteristiche costruttive, tecnologiche e dì rifiniture di livello superiore a quello dei fabbricati di tipo residenziale) non implica, necessariamente, che l’immobile costituisca un’abitazione di lusso (cfr Cass. n. 7329 del 2014; ed anche, in riferimento al benefìcio c.d. prima casa, Cass. n. 8502 del 26.9.1996; n. 8600 del 2000; n. 17604 del 2004, che, nell’ipotesi speculare in cui viene in rilievo la qualificazione "di lusso" di un immobile, affermano, appunto, l’irrilevanza della classificazione catastale)».

114 Seguono Firenze (3.680), Milano (3.399), Roma (2.921), Napoli (2.707), Torino (2.123). Dati Agenzia delle Entrate – Osservatorio del Mercato Immobiliare relativi all’2019 e risultanti dal sito https://www.agenziaentrate.gov.it/portale/Schede/FabbricatiTerreni/omi/Pubblicazioni/Statistiche+catastali/.

115 Osserva peraltro P. LIBERATI, Note per una revisione del sistema tributario: Irpef, Iva e tributi locali, cit., p. 41, che questa esclusione impedisce anche il rafforzamento di un sistema di separazione delle fonti tra governo centrale e locale, idoneo a limitare le interferenze che derivano dalle ricadute – a livello locale – di decisioni centrali su specifici tributi.

116 Sull’importanza della reciprocity quale motivazione della volontà di pagare le imposte (Tax Morale) dipendente dalla relazione del singolo individuo con lo Stato, si veda E.F.B. LUTTMER - M. SINGHAL, Tax Morale, in Journal of Economic Perspectives, Vol. 28, nr. 4, Fall 2014, pag. 157 ss. Per una recente dimostrazione della correlazione sinanche tra political alignment e tax compliance, si veda lo studio di J.B. CULLEN - N. TURNER - E. WASHINGTON, Political Alingment and Tax Evasion, NYU University, School of Law, Spring 2017, i quali concludono che «where a higher fraction of county residents hold a positive view of government, a lower fraction of taxes is evaded». In particolare, secondo gli A., «alignment predicts a significant 3.5% increase in the self-reporting of less visible income for the average county, a finding that is consistent with alignment causally decreasing evasion».

117 Si legge nel discorso di insediamento del Presidente della Corte dei Conti R. Squitieri dell’11 dicembre 2013, che «poiché ormai nella nostra economia il prelievo fiscale ammonta a circa il 45% del prodotto, non si potrà avere un consistente miglioramento nell’allocazione delle risorse, e con esso un rilevante accrescimento della produttività totale e, dunque, una sensibile accelerazione della crescita economica, se non sapremo spendere, meglio di quanto ora facciamo, le ingentissime risorse derivanti dal prelievo fiscale».

118 Principii, Principii di politica, diritto e scienza delle finanze, Padova, 1929, pag. 50.

119 Tra i più recenti, il gravoso adempimento dell’invio dei dati al sistema Tessera sanitaria, evidenziato nell’audizione di Confapi (2021), p. 6. Sul fatto che «da anni si tende ad accollare ai contribuenti l’onere di adempimenti formali propedeutici all’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria» e sulla necessità di abrogarli, cfr. Audizione CNA (2021), p. 9.

120 F. RASI, La tassazione dei redditi societari in ambito U.E.: il nuovo modello italiano a confronto con i sistemi degli altri paesi, in Rass. trib., 2004, pag. 1789 ss..

121 G. MELIS, Financial crisis and tax strategy: general trends in Europe and the Italian case, in Revue de droit fiscal, 2012, n. 9, p. 14 ss.

122 Corte cost., n. 102/2008. Sotto questo profilo, l’audizione del dott. Carlo Cottarelli (2021), p. 4, è avulsa dal contesto giuridico di riferimento nel momento in cui propone di «ripensare il trattamento delle plusvalenze immobiliari realizzate dopo il quinquennio dall’atto di acquisto o di costruzione».

123 Corte cost., n. 201/2020.

124 Cass., n. 3400/2019.

125 Audizione del prof. Giuseppe Vegas (2021).

126 Sostenuta, ad esempio, nell’audizione del dott. Carlo Cottarelli (2021), p. 3.

127 Sul punto, Allegato 2 – Proposte fiscali di semplificazione e razionalizzazione normativa e per la ripartenza e lo sviluppo, Audizione CNDCEC (2021), p. 7.

128 Si allude al già richiamato documento Redditi finanziari. Distorsioni del sistema impositivo e prospettive di riforma, redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Domenico Muratori e composto da V. Ceriani, G. D’Alessio, C. Lo Porto, N. Manuti, F. Marchetti e L. Zaccaria, nell’ambito del “Laboratorio Fiscale”.

129 Ivi, p. 21.

130 Ivi, p. 24.

131 Per i profili tecnici, compresa l’applicazione di un equalizzatore semplice, ivi, p. 37 ss..

132 La posizione maggiormente contraria a tale ipotesi si registra nell’audizione della Corte dei conti (2021), p. 17. Posizioni favorevoli si ritrovano nell’audizione del Direttore generale dell’Agenzia delle Entrate (2021), p. 19; nonché nell’audizione del dott. Carlo Cottarelli (2021), p. 3.

133 Si v. G. MELIS, Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion: Conclusions, in AA.VV. (edited by G. Bizioli, M. Grandinetti, L. Parada, G. Vanz, A. Vicini Ronchetti), Corporate Taxation, Group Debt Funding and Base Erosion, Eucotax Series on European Taxation, Vol. 67, Kluwer Law International, 2020, p. 235 ss.

134 G. MELIS, Disciplina sulle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, in Dialoghi di diritto tributario, 2006, p. 1323 ss.

135 Dal documento Paying Taxes 2020 della Banca Mondiale, l’Italia risulta al 128° posto con un carico fiscale complessivo del 59,1% dei profitti (la media a livello mondiale è del 40,5% e del 38,9% a livello europeo). I dati sono reperibili all’indirizzo web https://www.pwc.com/gx/en/services/tax/publications/paying-taxes-2020/overall-ranking-and-data-tables.html.

136 Si tenga conto che in base agli indirizzi approvati a livello unionale, le risorse di cui al Recovery and Resilience Facility (c.d. Recovery Plan) dovranno essere indirizzate per almeno il 37% del totale a favore di “climate and investment reforms” e per un ulteriore 20% del totale a favore della “digital transition”.

137 Corte cost., n. 288/2019.

138 Sul punto, F. GALLO, Quali interventi postpandemia attuare in materia fiscale e di riparto di competenze fra Strato e Regioni?, in Rass. trib., 2020, p. 595 ss..

139 Corte cost., n. 641 del 30.12.1997.

140 Décision n. 2009-599 DC, 29 dicembre 2009: «qu'en conséquence, 93 % des émissions de dioxyde de carbone d'origine industrielle, hors carburant, seront totalement exonérées de contribution carbone; que les activités assujetties à la contribution carbone représenteront moins de la moitié de la totalité des émissions de gaz à effet de serre ; que la contribution carbone portera essentiellement sur les carburants et les produits de chauffage qui ne sont que l'une des sources d'émission de dioxyde de carbone ; que, par leur importance, les régimes d'exemption totale institués par l'article 7 de la loi déférée sont contraires à l'objectif de lutte contre le réchauffement climatique et créent une rupture caractérisée de l'égalité devant les charges publiques”.

141 Tra queste: i) stimolare, grazie alla leva fiscale, le imprese al fine di promuovere fattori “sensibili” della produzione (ad es., costo del lavoro ed IRAP, proprietà intellettuale ed IP Box, rinnovo investimenti, industria 4.0, super- e iper-ammortamenti); ii) valorizzare il principio di “proporzionalità” delle sanzioni tributarie; iii) infine, attribuire la giusta e doverosa considerazione alla “certezza del diritto” e alla tutela dell’affidamento quali fattori fondamentali per la promozione del “sistema Paese”. A tale ultimo riguardo, non si può infatti pensare di sviluppare un sistema economico senza l’impresa, e non si può pensare di “fare impresa” in un sistema incerto. Non è solo il carico fiscale eccessivo ad allontanare gli investimenti esteri: ciò che più può allontanarli è la mancanza di certezza, intesa quale perenne indeterminatezza delle conseguenze giuridiche di un determinato comportamento o quale rilevante possibilità di un cambio delle regole “in corsa”. Il costo fiscale si può determinare ex ante, il costo dell’incertezza no. In questa nuova prospettiva si sono collocati, tra l’altro, le seguenti misure adottate: la riforma degli interpelli, con la generalizzazione della sanzione di nullità degli atti impositivi adottati in difformità della risposta; l’interpello “rafforzato” per i nuovi investimenti, che preclude sin anche il revirement dell’Agenzia; la riforma delle sanzioni penali, che sottrae al regime sanzionatorio penale fattispecie connotate da ampi margini di indeterminatezza o dall’assenza di danni erariali (ad es., l’abuso del diritto, le valutazioni, gli errori sulla competenza); la “codificazione” e l’unificazione con l’elusione fiscale, del principio dell’abuso del diritto; l’individuazione e soluzione di serie di problematiche specifiche relative alla determinazione del reddito di impresa (perdite su crediti, prezzi di trasferimento tra imprese residenti, ecc.); da ultimo, l’intervento sull’art. 20 della legge sul registro, ambito in cui l’incertezza regnava sovrana e che, nonostante ciò, è persino finito dinanzi alla Consulta. Sul punto, v. G. MELIS, L’art. 20, d.p.r. n. 131/1986 e l’interpretazione degli atti sottoposti al registro: The End!, in Giustizia Insieme, 11 settembre 2020, p. 1 ss..