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L’esterovestizione societaria: parabola interpretativa dalla normativa domestica sino alla recente versione del modello Ocse. I limiti delle contestazioni mosse dal fisco in chiave difensiva

Scritto da Leonardo Maria Galieni • dic 2022

Sintesi

Uno sguardo all’esterovestizione societaria: un fenomeno patologico agli occhi del Fisco. Dal confronto tra disciplina nazionale e convenzionale, sulla falsariga del modello OCSE e delle sue evoluzioni, alla sintesi interpretativa riscontrabile nella più recente giurisprudenza anche alla luce del principio inaugurato dalla Suprema Corte nel noto caso “Dolce & Gabbana” sul concetto del “wholly artificial arrangement”. Uno sguardo all’approccio giurisprudenziale estero in tema di dual residence: l’esperienza olandese. La valenza del certificato di residenza fiscale. PAROLE CHIAVE: Esterovestizione – Requisiti – Modello OCSE – Sede di direzione effettiva – Prova realtà artificiosa

Abstract

A vision on the phenomenon of the “foreign dressed companies”: a pathological phenomenon according to the Revenue. From the comparison bewteen italian and international tax discipline, along the lines of Model OCSE, to a synthesis due to a practice approach introduced by the Supreme Court in the famous case “Dolce&Gabbana”, focused on the principle of “wholly artificial arrangements”. A focus on dutch jurisprudence experience. Importance or irrelevance of tax residence certificate in order to contrast the tax claim. . KEYWORDS: Foreign dressed companies – Requirements – Model OCSE – PoEM – Proof of wholly artificial arrangements.

Contenuto


1. L'esterovestizione societaria: siamo dinanzi ad un fenomeno patologico? l'inevitabile interazione con il versante penalistico

Con il presente contributo si intende affrontare la tematica legata al fenomeno dell’esterovestizione; vale a dire quella che gli anglosassoni sono soliti definire utilizzando l’espressione nota come “foreign dressed companies”.

Al riguardo, appare opportuno comprendere sin da ora come, agli occhi dell’Amministrazione finanziaria, si sia in presenza di un vero e proprio fenomeno “patologico” rispetto a quella che dovrebbe costituire la naturale residenza della società interessata for tax purposes.

Difatti, esso involge quella serie di contestazioni mosse nei confronti di società che, sebbene formalmente siano costituite all’estero e quindi assoggettabili alla disciplina tributaria dello Stato di riferimento, sotto la lente del Fisco risultano invece fiscalmente residenti nel territorio italiano; di lì, una serie di inevitabili conseguenze sia sotto il profilo strettamente fiscale che, all’uopo, anche di natura penale-tributaria ove ne siano integrati i presupposti giuridici (primo tra tutti quello relativo al quantum dell’imposta ritenuta evasa in base alla soglia di punibilità fissata per la singola fattispecie) di cui al D.Lgs. n. 74/2000.

Orbene, se l’intento del presente contributo è cercare di illustrare ed approfondire taluni aspetti che contraddistinguono tale fattispecie, può risultare d’ausilio soffermarsi su un aspetto.

Come accennato poc’anzi, in presenza di siffatte contestazioni non è raro che esse possano integrare anche fattispecie di reato, da cui possono scaturire i relativi procedimenti penali.

Di lì, un’inevitabile frizione e sovrapposizione tra svolgimento dell’eventuale procedimento tributario da parte del contribuente (la medesima Società quale soggetto passivo) e quello penal-tributario che vedrà verosimilmente invece “sul banco degli imputati” il rappresentante legale della medesima all’epoca dei fatti contestati.

Tralasciando in tal sede l’analisi approfondita della tesi del doppio binario penale-tributario1 che, come noto, si impernia attorno all’art. 20 del D.Lgs. n. 74/2000,2 non deve comunque sorprendere come la Suprema Corte, ai fini del decisum3 tributario, abbia comunque accordato rilevanza alla decisione assunta nel procedimento penale parallelamente instauratosi; il tutto, anche in ossequio al principio cardine del libero convincimento del giudice di cui all’art. 116 c.p.c.

L’interazione cui poc’anzi si accennava, dal lato pratico si traduce nel senso che a fronte della medesima contestazione:

  • sul versante tributario il contribuente dovrà difendersi dalla tesi addotta dall’Agenzia delle Entrate, pressoché imperniata su prove ed elementi di natura presuntiva;

  • mentre, a seguito dell’inoltro della notitia criminis alla Procura della Repubblica, ove quest’ultima avvii un procedimento penale sarà la medesima – in persona del P.M. – a dover provare in maniera rigorosa e, secondo la nota formula dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” compendiata all’art. 533 c.p.p., la sussistenza di tutti i presupposti per ritenersi integrata la fattispecie penal-tributaria di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000, in particolare al superamento della soglia di punibilità ivi prevista,4 vale a dire l’omessa dichiarazione.5

A tal proposito, allorché il Fisco ritenga che, per quanto d’interesse, una società sia esterovestita, ciò postula non soltanto che il reddito prodotto all’estero venga attratto a tassazione nel territorio italiano quasi a voler evocare invocare l’istituto privatistico della c.d. accessione ma, ed è questo l’effetto ancor più dirompente, la conseguente tassazione di tutti i redditi ovunque essi siano prodotti in applicazione del principio cardine del “worldwide taxation principle” di cui agli artt. 2, 3 e 73 del T.u.i.r.6

Ed è proprio in ragione di questa stretto nesso che involge – utilizzando un modo facilmente intuibile – “le due facce della stessa medaglia”, che volendo approcciare un’analisi di tale fattispecie da un punto di vista tributario, si è dell’avviso che non si possa prescindere da quello che assurge ad un vero e proprio reviroment sul tema; si sta per l’appunto facendo riferimento al noto principio di diritto forgiato dalla Suprema Corte Penale nella nota vicenda “Dolce&Gabbana”7 che, dopo aver preso inizialmente le mosse dalla contestazione di esterovestizione da parte del Fisco italiano, è stata parallelamente trasposta anche in sede penale.

Secondo gli Ermellini, difatti, ai fini dell’integrazione della fattispecie in esame, e quindi del corrispondente reato di omessa dichiarazione, la società estera deve costituire ineludibilmente una costruzione di puro artificio, connotata dai requisiti della artificiosità e della finalità dell’indebito vantaggio fiscale, da valutarsi congiuntamente.

Da lì, tale principio è stato poi recuperato nella speculare sede tributaria, fino ad essere sempre assunto sempre più a fondamento delle successive decisioni da parte dei Giudici tributari.8

Si tratta dunque di stabilire se la collocazione della società all’estero rappresenti una costruzione di puro artificio ovvero risponda a delle scelte strategiche-organizzzative ben precise da parte dell’imprenditore.

In tale ottica, se non può disconoscersi in capo agli Uffici il compito di contrastare tutte quelle iniziative “fittizie” animate dalla sola ed unica finalità di conseguire indebitamente vantaggi fiscali, è altrettanto vero che ove ciò non si configuri, l’Amministrazione finanziaria non può arrogarsi la potestà di sindacare scelte strategiche-imprenditoriali altrettanto meritevoli.

Una simile lettura, a parere di chi scrive, andrebbe inevitabilmente a ledere quel legame che si viene ad instaurare tra il principio costituzionale della libertà d’iniziativa economica ex art. 41 Cost.9 e, in chiave europea, il diritto di stabilimento.10

Non a caso la C.G.U.E.,11 facendo leva su tali libertà, in più occasioni ha sottolineato come gli Stati membri debbano riconoscere ai contribuenti la facoltà di collocare le proprie attività economiche in uno Stato differente da quello di origine, ancorché il primo contempli un regime fiscale più vantaggioso (c.d. tax haven).

In sintesi, il diritto di stabilimento di cui all’art. 49 dell’attuale T.FU.E.12 contempera:

  • da una parte, la possibilità che ad una società e/o ente non residente sia riconosciuto il medesimo trattamento che lo Stato ospitante riserva agli enti residenti (principio di reciprocità13);

  • dall’altra, la garanzia di vedersi rimuovere quelle limitazioni che potrebbero impedire la costituzione di filiali, sedi secondarie, agenzie, succursali in altri Stati U.E. al fine di promuovervi la propria attività d’impresa.

Invero, senza pretermettere quella serie di elementi di cui si andrà a trattare nei prossimi capoversi, si ritiene fondamentale, anche da un punto di vista squisitamente difensivo, precisare sin da ora come l’Amministrazione finanziaria sia tenuta a dimostrare che la società estera – che si assume esterovestita – configuri di fatti un “wholly artificial arrangement”; e cioè, una costruzione di puro artificio priva di un’effettiva realtà operativa e dimensionale sul mercato del Paese in cui risulta essersi insediata.14

Ove tale circostanza non si possa effettivamente evincere dagli atti di causa, senz’altro ciò costituirà un punto di favore per la difesa del contribuente e, correlativamente, un ostacolo in più in ottica erariale.


2. La normativa di riferimento, lato domestico: l'art. 73 del D.P.R. n. 917/86 (T.u.i.r.)

Nel voler delineare i tratti essenziali, ma al contempo distintivi, l’approccio che si intende seguire è di stampo normativo.

Più precisamente, iniziando dalla disciplina domestica, per poi soffermarsi sulla regolamentazione accordata in sede “convenzionale”.

Ma andiamo per gradi.

Sul versante nazionale, le normative di riferimento sono, in buona parte, rappresentate: dall’art. 73 del TUIR sotto un punto di vista strettamente sostanziale e, sul versante applicativo, dall’art. 1 del D.P.R. n. 600/1973.

L’art. 73, co. 3, del TUIR recita testualmente che “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato” dove, per oggetto principalesi intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”.

A tale previsione di carattere generale, al comma 5-bis si affianca un’altra con cui il legislatore ha voluto introdurre una vera e propria praesumptio iurs tantum, prevedendo che “Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:

a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;

b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato…”.

Per quanto emerge dal dettato letterale dunque, al comma 3 si rinviene la disciplina di carattere generale, mentre al comma 5-bis è inserita una presunzione legale relativa che, come noto, esonera chi la invoca dal dimostrarne l’esistenza dei presupposti applicativi.

Orbene, allorché si realizzi una delle condizioni previste dal citato art. 73,15 viene dunque ad integrarsi uno dei presupposti indefettibili per l’assoggettamento delle persone giuridiche all’obbligazione tributaria: la c.d. soggettività passiva.16

Di rimando, scatta l’obbligo dichiarativo fissato dall’art. 1 del D.P.R. n. 600/1973 per cui “Ogni soggetto passivo deve dichiarare annualmente i redditi posseduti anche se non ne consegue alcun debito d’imposta. I soggetti obbligati alla tenuta di scritture contabili, di cui al successivo art. 13, devono presentare la dichiarazione anche in mancanza di redditi. La dichiarazione è unica agli effetti dell’imposta sul reddito delle persone fisiche o sul reddito delle persone giuridiche e dell’imposta locale sui redditi e deve contenere l’indicazione degli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione degli imponibili secondo le norme che disciplinano le imposte stesse. I redditi per i quali manca tale indicazione si considerano non dichiarati ai fini dell’accertamento e delle sanzioni.

A tal proposito, prendendo le mosse dall’incipit normativo testé esposto, quel che è chiaro attiene al fatto che dapprima il legislatore ha indissolubilmente ancorato il fenomeno dell’esterovestizione al criterio della residenza fiscale; successivamente, su tale presupposto normativo, l’A.F. ha discrezionalmente ricamato una serie di elementi con cui poter corroborare le proprie contestazioni in subiecta materia.

In tal senso, è d’ausilio quanto rilevato in sede europea dalla C.G.U.E. che, con la celeberrima sentenza Centros, ha affermato il principio per cui gli Stati membri sono liberi di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato.17

Orbene, nell’ipotesi in cui si assuma che una società formalmente situata nel territorio di uno Stato estero, in realtà operi nel territorio italiano, ritenendola così esterovestita, non può prescindersi dal fatto che l’onus probandi grava in prima battuta sul Fisco.

Invero, ai fini dell’esterovestizione, costituisce condicio sine qua non che l’Amministrazione finanziaria dimostri inequivocabilmente, e non sulla base di mere suggestioni, come la società estera abbia in realtà la propria residenza fiscale in Italia.

E per far ciò, l’Amministrazione finanziaria deve “mostrare sul piatto” quello che può definirsi come un vero poker, vale a dire:

  • in primis, l’esistenza di un vantaggio fiscale scaturente dalla possibilità di godere nello Stato estero di un regime fiscale maggiormente favorevole rispetto a quello domestico18 e quindi appetibile per chi intende conseguire un risparmio d’imposta;

  • in secundis, l’effettivo e comprovato svolgimento in Italia del core business (PoEM19), risultando l’insediamento all’estero privo di valide ed apprezzabili ragioni economiche;

  • tertium, l’assenza di autonomia gestionale e finanziaria della sede estera;20

  • ultimo, grazie all’approccio innovativo cui è giunta la Suprema Corte con la nota vicenda Dolce & Gabbana, il carattere figurativo ed artificioso della sede estera in cui non sia apprezzabile lo svolgimento di alcuna attività economica da parte della business entity.

Orbene, se è vero che l’A.F. è tenuta ad assolvere il proprio onere probatorio in maniera rigorosa, altrettanto vera è la possibilità di avvalersi della praesumptio iuris di cui al comma 5-bis ove ricorrano due condizioni, tra loro alternative.

Di queste, la prima è legata al controllo civilistico disciplinato all’art. 2359 c.c.

A tal proposito, ricorrendo una di dette condizioni (ad esempio in virtù del rapporto di controllo che la holding italiana esercita nei confronti della propria controllata estera), è inevitabile che si crei una sorta di “frizione” con la disciplina parallela della c.d. C.F.C. (controlled foreign companies) di cui all’art. 167 del T.U.IR.; quest’ultima, difatti, è imperniata sui rapporti di controllo che le entities italiane esercitano sulle subsidiaries estere.

Dinanzi a tale situazione di impasse, era auspicabile oltre che necessario un chiarimento dell’Amministrazione finanziaria.

L’occasione si è presentata con la Circolare n. 28/E/2006 del 04.08.2006 in cui, precisato che dinanzi a questo conflitto apparente di norme – espressione che si mutua dal diritto penale – la disciplina delle C.F.C. si pone in un rapporto di sussidiarietà rispetto all’esterovestizione, la prima non può che risultare inoperante nei riguardi del contribuente.21

Giocoforza, laddove quest’ultima ipotesi venga meno, ad esempio perché sconfessata dall’esito del relativo contenzioso tributario, potrebbe tornare ad applicarsi la disciplina di cui all’art. 167 del T.u.i.r. purché nel caso di specie siano integrate le condizioni di legge.

Ebbene, quel che appare anomalo, anche per quanto riguarda le ipotesi di controllo civilistico, è che il Fisco contesti l’esterovestizione facendo inspiegabilmente leva sui rapporti di direzione-coordinamento che la holding italiana esercita naturalmente sulle proprie subsidiaries estere.

Rispetto a tale impostazione, doverosa è una precisazione.

È “nell’ordine delle cose” che la holding, quale soggetto controllante che presiede un gruppo societario, assuma un ruolo-chiave anche nella strategy del gruppo, anche in ottica di preservare l’esistenza economico-finanziaria dello stesso.22

Ma tale condizione, non può di certo legittimare un’acritica equiparazione tra l’attività di direzione e coordinamento, codificata all’art. 2359 c.c. e la c.d. etero-direzione.23

Quel che rileva, a sommesso avviso di chi scrive, è un approccio case to case, così come inaugurato nella nuova versione del Modello OCSE, e di cui a breve si tratterà.

In pratica, occorre verificare se l’attività di direzione e coordinamento – talvolta sostanziatasi in direttive impartite dalla società capogruppo – configuri o meno un’effettiva ingerenza gestionale ed amministrativa nell’attività delle società estere controllate tale da incidere significativamente sull’autonomia propria delle singole entities estere e che quest’ultime sono deputate ad esercitare in funzione del gruppo stesso.24

Essenziale, dunque, è comprendere come nei rapporti tra holding-controllante e società partecipate estere, special modo se inserite all’interno di un gruppo societario articolato e conseguentemente complesso, è fisiologico che la controllante fissi delle scelte strategiche, funzionali anche allo sviluppo delle altre entities, senza con ciò assimilare tale “imperio” ad un vera etero-direzione;25 semmai, tale coordinamento sarà riconducibile alle ordinarie funzioni di direzione unitaria che sovente si rintracciano nei rapporti tra controllante e le proprie controllate site in altri Paesi.

In tale casistica, quello che rileva ai fini della residenza fiscale di una società non è il luogo dove vengo assunte le decisioni di ordine generale – destinate a riflettersi sull’intero gruppo societario – e da dove promanano gli impulsi gestionali della controllante, sibbene quello del c.d. day to day management.26

Tale criterio, pare essere l’unico valido ed attendibile al contempo per individuare il luogo nel quale si realizza effettivamente l’attività principale e sostanziale dell’impresa,27 tenendo debitamente conto della sottile linea di confine che intercorre tra l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento posto in essere dalla controllante e la c.d. etero-direzione.

E dunque, in presenza di un gruppo societario di stampo internazionale, questa sin qui delineata si atteggia come la linea d’indagine più accreditata ed al contempo accettata ai fini della corretta individuazione della residenza fiscale di una società controllata con sede in un altro Stato.


3. L'approccio "convenzionale" al concetto di residenza fiscale: dall'avvento del progetto BEPS con l'Action 6 alla nuova versione del modello OCSE; focus sulla disciplina convenzionale italo-lussemburghese. Uno sguardo verso la giurisprudenza olandese sulla tematica in esame

Se il percorso argomentativo sin qui delineato attiene, in larga parte, alla disciplina domestica (ex art. 73 del T.U.IR.), tale inquadramento non può affatto prescindere dalla disciplina parallelamente disegnata sul piano “convenzionale”.

Nella sostanza, talché l’Italia, alla pari della maggioranza degli altri Paesi, ha siglato una mole di convenzionali fiscali contro le doppie imposizioni tra i diversi Stati, membri UE e non, è opportuno che per ogni singolo istituto trattato sul piano “pattizio” (vedasi a titolo esemplificativo: dividendi, interessi, stabile organizzazione etc…) si instauri un parallelismo con la disciplina parallelamente applicabile dal lato domestico (rectius di diritto interno).

Orbene, tra questi, il primo di richiamo è naturalmente quello della residenza fiscale poiché sulla base al requisito della territorialità che poi si articolano le potestà impositive dei singoli Stati.

Esemplificazione di quanto accennato è rinvenibile nel nostro impianto normativo.

Invero, i criteri stabiliti dall’art. 73, co. 3, del T.u.i.r. sono residuali e subordinati rispetto a quanto fissato dalle convenzioni internazionali per ben due ragioni:

  1. la prima, risponde alla previsione di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 600/197328 e, in parte, all’art. 169 del T.u.i.r. ove risultino più favorevoli;

  2. la seconda, al principio di specialità che, mutuato dal diritto penale ove è disciplinato all’art. 15 c.p., prevede per l’appunto che la natura “speciale” delle disposizioni pattizie prevalga rispetto a quelle di diritto interno.29

Volendo portare un esempio di stampo “internazionale”, se una holding spagnola ha delle subsidiaries con sede legale in Olanda, laddove il Fisco spagnolo contesti la presunta esterovestizione di quest’ultime, al fine di stabilire l’effettiva residenza fiscale e quindi il riparto impositivo tra i due Stati coinvolti occorrerà, quantomeno, richiamare la Convenzione ad hoc siglata tra Spagna ed Olanda.

Quest’ultima, verosimilmente, ricalcherà quanto stabilito in linea generale dal modello OCSE per quanto ci si accinge ad illustrare.

Innanzi al fenomeno, sempre più insidioso, legato alle c.d. A.T.P. (aggressive tax planning), si è avvertita sempre più l’esigenza di porvi rimedio, arginando il più possibile la possibilità che i contribuenti sfruttassero i diversi e più vantaggiosi regimi impositivi accordati dai diversi Stari per erodere materia imponibile.

Di tale necessità se n’è fatta carico l’OCSE, in particolare grazie all’ambizioso progetto che viene compendiato sotto l’acronimo di BEPS,30 il quale comprende ben 15 Actions.

Dopo taluni progetti iniziali, che comunque hanno dato luogo ad una prima stesura ufficiale, la vera novità da segnalare è data dall’implementazione del nuovo Modello di Convenzione contro le Doppie Imposizioni nel 2017, introdotto proprio al fine di dar vita alle nuove soluzioni elaborate nell’ambito del Progetto BEPS, come accennato sostanziatesi nelle c.d. Actions.

Disquisendo in tema di esterovestizione, per ovvie ragioni si fa cenno soltanto a quella di riferimento, ovverosia l’Action 6.31

Detta Action, si pone l’obiettivo di fornire agli Stati strumenti idonei a prevenire i fenomeni di “abuso dei trattati” (c.d. treaty shopping) realizzati mediante strumenti ed entità ibridi che, con l’escamotage della doppia residenza, sfruttano le opportunità offerte dai trattati per sottrare del tutto o in parte i propri redditi dall’imposizione fiscale.

Non deve sorprende come nell’Action 6 sia contemplata una vera e propria clausola anti-abuso, nota come P.P.T (principal purpose test rule) che risponde ad un obiettivo ben preciso: con essa si tende a verificare quale sia l’effettiva finalità di una struttura o di un’operazione al fine di ovviare alla possibilità, non remota, che tali strutture “ibride” vengano di fatto strumentalizzate.32

Ed il modo più immediato per dribblare una tassazione più onerosa sta proprio nel porre formalmente la residenza fiscale in uno Stato con un regime impositivo più vantaggioso rispetto a quello in cui effettivamente tali società operano.33

Di lì, si è avvertita l’esigenza di intervenire, per quanto si dirà, sull’art. 4 del Modello OCSE che disciplina il profilo della residenza fiscale.

L’occasione si è presentata nel 2017 dove, seguendo la scia già tracciata con il progetto BEPS, nella nuova stesura del Modello OCSE di Convenzione contro le Doppie Imposizioni si stabiliscono nuovi criteri per individuare la residenza fiscale, anche dei soggetti diversi dalle persone fisiche.

Difatti, se la previgente versione dell’art. 4, par. 3, poneva come criterio unico di riferimento quello del place of effective management,34 la nuova stesura adotta una chiave di lettura35 per certi versi speculare, ma per altri innovativa.

Ad oggi, essa prevede infatti che “Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente in entrambi gli Stati Contraenti, le autorità competenti degli Stati Contraenti dovranno fare del loro meglio per determinare di comune accordo lo Stato Contraente in quale detta persona dovrà essere considerata residente ai fini della Convenzione, avendo riguardo al luogo di direzione effettiva, il luogo dove è incorporata o in altro modo costituita e ogni altro fattore rilevante.

In mancanza di tale accordo, tale persona non ha diritto a rivendicare alcuno sgravio o esenzione dalle imposte previsto dalla Convenzione salvo che nella misura e secondo le modalità concordate dalle autorità competenti degli Stati Contraenti”.36

In tal guisa, si viene a delineare un approccio tendenzialmente “case-by-case” per cui gli Stati membri dovranno collaborare nell’individuare la residenza fiscale di una determinata entity sulla base delle peculiarità di ogni singolo caso.

Trattandosi di un’analisi complessa e non di agevole portata, viene in ausilio il Commentario al Modello OCSE37 il quale, per risolvere le questioni che sorgono sulla c.d. dual residence companies, traccia dei criteri-guida per individuare lo Stato titolare della potestà impositiva.

In particolare, al paragrafo 24.1 del Commentario vengono riportati:

  • il luogo dove si riunisce il consiglio di amministrazione;

  • il luogo dove il C.E.O. ovvero senior management svolgono la loro attività;

  • il luogo dove il day-to-day management viene svolto;

  • il luogo dov’è collocalo l’headquarter della società;

  • la legge che governa la società;

  • il luogo dove vengono conservati i documenti contabili.

Ad ogni modo, non bisogna trascurare come l’Italia, formulando specifiche osservazioni all’art. 4 del Modello OCSE ha introdotto una particolare riserva per effetto della quale, nel determinare la residenza fiscale di una società, oltre alla “sede della direzione effettiva”, deve attribuirsi rilievo anche al luogo nel quale viene svolta l’attività principale dell’impresa.38

In aggiunta, nel Commentario si accenna alla possibilità di inserire nelle Convenzioni siglate la previgente impostazione dell’articolo 4 del Modello OCSE la quale fissava come unico criterio quello del place of effective management.

E dunque, talché occorreva trovare un punto di incontro tra regolamentazione interna affidata ai criteri di cui all’art. 73, co. 3, del TUIR, e disciplina pattizia che, in buona sostanza, all’art. 4, par. 3, del modello OCSE rimanda, al criterio del place of effective management, sul versante domestico la Corte di Cassazione è intervenuta per offrire una soluzione interpretativa pressoché univoca.

In tale prospettiva, rilevando una sostanziale sovrapposizione tra il criterio della sede dell’amministrazione (disciplina domestica) e sede della direzione effettiva (regolamentazione pattizia) si è ritenuto, non dissimilmente da quanto già espresso dall’Amministrazione finanziaria,39 che la sede amministrativa di una company, differenziandosi dalla sede legale, si identifica sia nel luogo in cui vengono assunte le determinazioni sociali più rilevanti per l’esistenza della società, sia in quello di direzione dell’ente oltre che, all’uopo, quello di convocazione delle assemblee.

Delineato l’approccio che l’OCSE ha inteso attualizzare con le ultime modifiche in tema di dual residence, appare interessante soffermarsi, seppure in brevitas, su un esempio concreto di come le Convenzioni siglate tra Stati abbiano inteso recepire detta impostazione ai fini del riparto della potestà impositiva.

Per quanto d’interesse, si vuole ora soffermarsi proprio in merito alla richiamata disciplina pattizia che, come già ribadito, trova la propria fonte regolamentare nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni siglate tra i vari Stati aderenti; tra queste, nello specifico, appare opportuno guardare alla Convezione che è stata redatta tra Italia e Lussemburgo.40

A tal riguardo, poiché la tematica in esame attiene proprio al fenomeno della dual residence, il punto normativo di riferimento è senz’altro rappresentato dall’art. 4 della ridetta Convenzione che, per l’appunto, attiene alla tematica della residenza fiscale.

Tralasciando la regolamentazione destinata alle persone fisiche e per cui la Convenzione si propone l’obiettivo di prevenire l’evasione fiscale ed al contempo evitando doppie imposizioni per cittadini italiani che hanno la loro residenza e/o domicilio in Lussemburgo,41 ci si concentra sul trattamento riservato alle persone giuridiche.

L’art. 4, par. 3, prevede difatti che “Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica, è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato contraente in cui si trova la sede della sua direzione effettiva”.

Orbene, anche in base alla Convezione tra Italia e Lussemburgo, seguendo l’impostazione storicamente adottata dal Modello OCSE, la residenza fiscale delle persone giuridiche deve rintracciarsi nella sede di direzione effettiva come tra l’altro recentissimamente confermato anche dalla Corte di legittimità.42

Delineate le linee chiave dell’approccio adottato sul piano convenzionale in tema di dual residence, vediamo come viene trattata tale questione da parte dei Giudici degli altri Stati.

In tal senso, ci si vuole soffermare su un caso di respiro strettamente internazionale che è stato affrontato dalla giurisprudenza olandese.

Nella fattispecie, la Lower Court of Arnhem è stata chiamata a pronunciarsi sulla contestazione mossa dall’Amministrazione finanziaria olandese ad una società sita ad Hong Kong.43

Invero, dal momento che la società cinese era partecipata da due persone fisiche residenti in Olanda, di cui una peraltro ricopriva il ruolo di Amministratore Unico oltre ad impartire precise direttive, il Fisco olandese presumeva che la prima fosse esterovestita, recuperando così a tassazione le imposte sul reddito d’impresa non dichiarato.

Orbene, tale ricostruzione non ha trovato accoglimento nei Giudici olandesi.

È d’interesse evidenziare, anche al fine di sottolineare come l’onere probatorio gravante sul Fisco debba esser rigoso e non fermarsi a delle mere circostanze fattuali poste a base dell’accertamento, come ad avviso della Corte olandese il fatto che il socio-amministratore della società sita ad Hong Kong si fosse ivi recato solo sporadicamente e che avesse supervisionato la relativa attività dall’Olanda, non poteva considerarsi bastevole per sostenere l’esterovestizione.

Ciò che dunque rileva in tema di residenza delle persone giuridiche è dato in primis dalle circostanze che connotano il caso concreto44 per poi, eventualmente, dar rilievo ai profili formali afferenti la costituzione della società; tra queste, senz’altro, così come impresso dal modello OCSE, il primo criterio direttivo è dato dal place of effective management.

Sempre nell’ottica di sottolineare l’ineludibile onere probatorio gravante sul Fisco, nella storica casistica affrontata dalla giurisprudenza olandese, è imprescindibile tornare indietro negli anni fino a giungere ad una importante pronuncia della Hoge Raad der Nederlanden (Corte Suprema dei Paesi Bassi).45

Quest’ultima, chiamata a valutare se la sede svizzera di una società fosse o meno fittizia, ha negato ingresso alla tesi erariale sottolineando, in particolare, come l’Amministrazione finanziaria non aveva fornito la prova che la sede della direzione effettiva della società svizzera fosse localizzata nei Paesi Passi nonostante i soggetti controllanti erano ivi residenti.

Anche questo rapido sguardo volto a comprendere quale sia, in linea generale, l’imprinting dato in altre giurisdizioni – in tal caso olandese – alle contestazioni mosse in tema di residenza fiscale delle persone giuridiche, conferma come sia essenziale che l’attività e la gestione della società incriminata possano rintracciarsi, quantomeno in maniera non irrilevante, nella sede estera.46


4. Il certificato di residenza fiscale rilasciato dall'Autorità estera: focus sulla relativa valenza probatoria in ipotesi di contestata esterovestizione

Illustrate le questioni sottese alla disciplina nazionale e, di rimando, di stampo convenzionale in tema di dual residence, vi è un altro interessante elemento da cui si ritiene non possa prescindersi laddove l’Amministrazione finanziaria contesti l’esterovestizione, vale a dire: il certificato di residenza fiscale.

Trattasi, infatti, di un documento ufficiale rilasciato dalle autorità fiscali di uno Stato estero con cui si attesta la residenza fiscale di un soggetto o di una società.

Compreso ciò, appare necessario inquadrare in che termini esso venga inquadrato dalla nostra disciplina domestica e, special modo, se vi sia una disciplina riservata con riguardo alla tematica di cui trattasi.

Orbene, partendo da un approccio normativo, il certificato estero viene richiamato nel nostro dettame normativo di stampo tributario in ben due occasioni:

  • una prima volta, dalla disciplina sull’esenzione da ritenuta per interessi e royalties “in uscita” di cui all’art. 26-quater del D.P.R. n.600/1973;

  • una seconda, dalla disciplina sull’esenzione da tassazione per i dividendi incassati e pagati tra società italiane ed estere facenti parte del medesimo gruppo.

Come può chiaramente notarsi, non vi è alcun espresso riferimento all’impatto che il certificato di residenza fiscale possa assumere in tema di dual residence e, di converso, con riferimento al fenomeno “patologico” dell’esterovestizione.

Tuttavia, ciò non deve essere inteso come assenza di interesse da parte delle Autorità fiscali, tutt’altro.

Invero, proprio al fine di colmare questa sorta di “vulnus” normativo ed al contempo stimolarne un intervento.

Si è mossa l’AIDC47 partendo proprio dalla legittimità della presunzione di cui all’art. 73, co. 5-bis, del T.u.i.r.

Difatti, sostenendo che tale previsione normativa risultasse in contrasto con i principi comunitari di libertà di stabilimento, proporzionalità e non discriminazione, ha sollecitato l’intervento della Commissione europea.

Quest’ultima, investita della questione, ha così richiesto all’Amministrazione Finanziaria di chiarire taluni aspetti; il tutto, implementando il c.d. procedimento EU Pilot/2010/777 TAXU.48

Più precisamente:

  1. In quale modo l’A.F. valuta i requisiti della residenza della maggioranza dei soci o degli amministratori ai fini della presunzione della residenza;

  2. Come il contribuente possa fornire la prova contraria ammessa dalla normativa;

  3. La predisposizione di una statistica in ordine la localizzazione in altri Stati della UE o dello Spazio Economico Europeo di società o di enti la cui residenza effettiva è stata considerata sistematicamente riconducibile in Italia;

  4. Le conseguenze pratiche derivanti dall’applicazione della normativa sulle esterovestizioni, ad esempio, in termini di sanzioni;

  5. L’efficacia probatoria del rilascio da parte delle autorità fiscali estere del certificato di residenza fiscale per contrastare e superare la presunzione di esterovestizione;

  6. La possibilità di avvalersi di strumenti di supporto allo scopo di accertare l’effettiva residenza di un soggetto estero che si taccia di essere esterovestito.

Con Note prot. n. 2010/39678 del 19-03-2010 e prot. 2010/157346 del 20-12-2010, l’Agenzia delle Entrate si è così espressa: “il certificato di residenza fiscale o altra certificazione (rilasciata dalle autorità dello Stato Membro) attestante l’assoggettabilità a imposizione nello Stato membro di stabilimento della società rilevano significativamente ai fini della prova dell’insussistenza di un attendibile collegamento con l’Italia. Tuttavia, si tratta di prova necessaria e valida, ma non sufficiente per rigettare la presunzione in questione... Ciò comporta che il certificato di residenza fiscale rilasciato dall’autorità fiscale dei predetti Stati certamente configura un elemento rilevante ai fini della prova della non-residenza in Italia del contribuente, ma necessita di ulteriori elementi di prova, di natura fattuale, che dimostrino che il soggetto è effettivamente amministrato al di fuori del territorio italiano”.

In sostanza, se da un lato il Fisco riconosce l’importanza probatoria di tale documentazione, al contempo esclude che sia da sé idonea per superare la citata presunzione di esterovestizione.

La dottrina, innanzi a tale presa di posizione, non è stata di certo inerme, tutt’altro.49

Ad ogni modo, preso atto delle risposte rese dall’A.F., la Commissione europea ha ritenuto pienamente conforme al diritto comunitario la normativa italiana sulla esterovestizione.

Nello specifico, in considerazione del fatto che, come precisato dalla stessa A.F., i riscontri degli organi verificatori devono basarsi su un’analisi globale della situazione dell’impresa che non può esser condizionata, almeno in linea teorica, da una valutazione che si palesi acritica rispetto alle specificità del caso in esame, risultando così legata soltanto all’operatività di detta presunzione.

Rispetto a quanto detto, aggiungasi che la medesima A.F. si è prodigata nell’indicare quale documentazione assuma rilevanza ai fini probatori.

Nel dettaglio, si è ritenuto che per dimostrare l’effettiva residenza all’estero di una società è significativo e, perché no decisivo, valutare:

- il regolare e periodico svolgimento delle riunioni del C.D.A., di cui si potrebbe fornire la relativa documentazione a documentazione unitamente all’evidenza che le riunioni sono tenute all’estero presso la sede sociale con la partecipazione dei diversi consiglieri (ad esempio mediante delibere del C.D.A. assunte all’estero, biglietti dei viaggi, ricevute di alberghi che attestano gli spostamenti dei consiglieri dall’Italia);

- l’effettività della gestione sociale da parte dei membri del C.D.A., nel qual caso la predetta documentazione potrebbe essere rappresentata da progetti ed interventi diretti degli amministratori, volti a migliorare la performance della società estera.

Al contrario, risulterebbe alquanto penalizzante ai fini difensivi la domiciliazione della società estera – oggetto di verifica – presso società di servizi e studi legali (ad es. con sede in Inghilterra, Andorra) in quanto potrebbe costituire un indice di esterovestizione;

- l’effettivo svolgimento all’estero della gestione operativa della società, nel qual caso la documentazione probatoria, atta a dimostrare il grado di autonomia funzionale della società dal punto di vista organizzativo, amministrativo e contabile, potrebbe essere formata anche da:

  • direttive interne; contratti di natura commerciale o finanziaria;

  • corrispondenza ed altri documenti che integrano le trattative commerciali cui è orientata la strategia aziendale;

  • documentazione comprovante il corretto adempimento degli obblighi fiscali nello Stato estero;

  • qualsiasi altro documento che provi che gli atti di gestione e l’attività negoziale sono stati posti in essere a livello locale e che i dirigenti locali godono di autonomia nell’organizzazione del personale, nelle decisioni di spesa e nella stipula dei contratti.

A ben vedere, la documentazione esemplificativa stilata dall’A.F. può essere inquadrata come un vero e proprio vademecum50 che può essere letto in duplice prospettiva:

  • da un lato, una utile guida che le società estere sono invitate ad osservare per non incorrere nella presunzione di esterovestizione di cui al citato art. 73 del T.u.i.r. ma,

  • dall’altro, un ottimo strumento di difesa da poter impiegare ove l’A.F. contesti l’efficacia probatoria della documentazione prodotta dal contribuente in sede di accertamento.

E dunque, pur apprezzando lo sforzo di “orienteering” da parte dei più alti rappresentanti dell’Amministrazione finanziaria, ciò non toglie che privare il certificato di residenza rilasciato dall’Autorità di uno Stato UE la valenza intrinseca che gli è propria, non può lasciare indifferenti; tanto più in ragione dell’orientamento già proprio della C.G.U.E., sebbene concernente l’aspetto del rimborso IVA, per cui le attestazioni di residenza rilasciata da un’autorità fiscale comunitaria lasciano presumere che l’interessato vi risieda effettivamente.51

Ad ogni buon conto, che il certificato di residenza fiscale rilasciato dall’Autorità di uno Stato estero assuma senz’altro valore agli occhi del Fisco italiano, lo conferma anche una sua Prassi ufficiale, sebbene concernente il trattamento fiscale dei dividendi in uscita dall’Italia verso uno Stato UE.52

Per quanto sin qui illustrato, ciò che appare alquanto evidente attiene al fatto che la valenza probatoria del certificato di residenza fiscale estero, lungi dal rappresentare una tematica statica e ben definita, è invece una tema di forte discussione che non può che esser destinato a svilupparsi su un “terreno” ove per sua natura si staglia la contrapposizione tra visioni differenti, vale a dire quella giudiziale.

Orbene, come sovente accade per questioni che sono tutt’altro che assodate, è dato registrarsi una sostanziale dicotomia nelle decisioni assunte dai Giudici tributari. Ma vediamo in quali termini.

La linea di confine sta propria nella vincolatività o meno della suddetta documentazione sul piano probatorio, vale a dire: se da un lato si rintracciano decisioni che attribuiscono un valore quasi pregnante al certificato di residenza fiscale estero, dall’altro ve ne sono altre che invece richiedono che sia fornita la prova dell’effettiva residenza fiscale in uno Stato estero, relegando il primo ad dato meramente formale e come tale privo di forza vincolante ai fini del superamento dell’esterovestizione.

Prendendo le mosse dal primo dei due orientamenti giurisprudenziali cui si è poc’anzi accennato, è forse d’obbligo rammentare come la Suprema Corte, sebbene con una pronuncia risalente, ha attribuito valenza probatoria al certificato rilasciato dall’Aurorità estera in quanto si attestava la residenza fiscale della società in Olanda.53

Al di là di tale sentenza resa in sede di legittimità, a parere di chi scrive tale linea interpretativa ha preso maggiormente il largo sul piano della giurisprudenza di merito; non è un caso che anche la pronuncia in commento, sebbene tra le righe, abbia ribadito che sembra rintracciarsi tra i Giudici tributari un maggiore convincimento circa la sufficienza probatoria del certificato di residenza fiscale estera.

Oltre alle varie decisioni rese in tal senso dalla più autorevole giurisprudenza di seconde cure,54 riveste particolare interesse quella pronunciata da una Corte Provinciale Milanese che, sulla scorta di altre rese sempre in sede di merito, con sentenza del 27-11-2017 ha stabilito che in presenza di contestazioni sull’esterovestizione di una società, i certificati rilasciati dalle autorità fiscali estere in ragione dello scambio automatico di informazioni e delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni hanno valenza probatoria vincolante.55

Di rincalzo, anche per la dottrina già interessatasi della questione, non poteva escludersi a priori la rilevanza probatoria di tale documentazione.56

In contrapposizione a tale linea “garantista”, le posizioni assunte da altra parte della giurisprudenza di merito mirano verso tutt’altra direzione.

In sostanza, per il secondo orientamento giurisprudenziale, l’attestazione riportata nel certificato di residenza fiscale estera non esime comunque il contribuente dal dimostrare in maniera compiuta e convincente l’effettività di quanto formalmente rappresentato.

Un’esemplificazione di ciò, può rinvenirsi nelle più recenti pronunce assunte dalla giurisprudenza di seconde cure57 in cui si evince come tale attestazione non assurgerebbe altro che a dato formale e, come tale, inidoneo a dimostrare in maniera decisiva l’effettiva residenza fiscale nello Stato interessato.

Invero, il criterio oramai universalmente adottato dal Modello OCSE oltre che dalle convenzioni contro le doppie imposizioni, per individuare la residenza fiscale delle persone giuridiche è quello del place of effective management.


5. Considerazioni finali

E dunque, volendo dare una chiosa agli spunti normativi ed interpretativi sviluppati in tal sede, non si può prescindere da un punto cardine.

Ad oggi, è oramai manifesto come la tematica domestica dell’esterovestizione, ancor più di altre che parimenti risentono dell’influsso “internazionale”, non può non raffrontarsi con la regolamentazione predisposta in sede pattizia tra i vari Stati; di rimando, con riguardo alla disciplina approntata, da ultimo, con la nuova versione del Modello OCSE.

Quel che è chiaro, così come emerge dal percorso interpretativo tracciato, che il modello da privilegiare in ipotesi di dual residence è quello del c.d. case to case, così da appurare ove collocare la residenza fiscale di una persona giuridica.

Lo sforzo interpretativo, special modo offerto dalla giurisprudenza, sia interna (legittimità e di merito) oltre che unionale, è risultato senz’altro notevole.

A tal riguardo, quello che si ritiene di poter inquadrare come un vero e proprio “reviroment”, senz’altro di impatto innovativo con riguardo alla tematica dell’esterovestizione, è dato dal principio di diritto emanato nella nota vicenda Dolce&Gabbana sul concetto del “wholly artificiall arrangement”.

Affermato sotto l’egida della Suprema Corte, sino ad arrivare alle più recenti pronunce quivi richiamate, ad oggi assume una valenza importante sul versante tributario.

Unitamente a ciò, risentendo inevitabilmente del modello apportato dall’OCSE, il criterio principe assunto per dirimente le contestazioni in tema di dual residence non può che riposare su quello dettato dal place of effective management, vale a dire il luogo della direzione effettiva.

Invero, grazie al contributo offerto sul versante internazionale dal Commentario al Modello OCSE, mentre su quello prettamente nazionale dalla Prassi dell’A.F. e dalle più autorevoli decisioni assunte sul punto, la ricerca del c.d PoEM pare acquisire sempre più un denominatore comune, e cioè: concentrarsi nel luogo in cui vengono assunte le determinazioni sociali più rilevanti, in cui è posta la direzione dell’ente oltre che di convocazione delle assemblee e di accentramento dei propri organi anche in relazione ai rapporti instaurati con terzi.

Indubbiamente, se al pari di qualsivoglia altra contestazione in cui il ruolo di attore principale deve essere assolto dal Fisco, stesso dicasi, ma ad osare si potrebbe arguire anche a maggior ragione, in tema di esterovestizione ove, sul versante probatorio, è il Fisco che deve provare la sussistenza dei presupposti costitutivi della fattispecie contestata.

Cionondimeno, considerato l’approccio sostanziale che oramai viene assunto in sede giudiziale, e ferme restando le eccezioni che possono essere mosse dalla difesa in punto di diritto, non può ritenersi che il contribuente sia ex se esentato dal sottoporre al vaglio dei Giudici tributari materiale documentale e probante atto a dimostrare l’effettività della società sita in un altro Stato e correlativamente l’infondatezza della tesi erariale.

Laddove invece si disquisisca di esterovestizone a fronte di un controllo societario esercitato dalla holding italiana sulla propria controllata di diritto estero, l’onus probandi richiesto al Fisco non può essere meno rigoroso, tutt’altro.

Invero, è bene non lasciarsi trasportare dall’idea che la mera presenza di impulsi gestionali e/o direttive promananti da casa-madre, e ciò non potrebbe esser diversamente visto il ruolo e la responsabilità che la prima naturalmente va ad assumere, come previsto anche dall’art. 2497 c.c., postuli l’automatismo di ritenere che la seconda debba ritenersi senz’altro esterovestita; una siffatta equiparazione non può e non deve essere accolta tout court senza obiezioni, eventualmente spendibili nella sede ove è massima la difesa del contribuente, vale a dire innanzi ai Giudici tributari.

1 Per un approfondita disamina della tesi del doppio-binario, in relazione alle sue intrinseche criticità, tra le varie obiezioni mosse dalla più attenta dottrina v. Pistolesi, Crisi e prospettive del principio del “doppio binario” nei rapporti fra processo e procedimento tributario e giudizio pena, in Riv. dir. trib., 2014, I, pp. 29; in aggiunta, v. Caraccioli, Superato il “doppio binario” tributario-penale?, in Corr. trib., 2014, pp. 1007 e ss.

2 V. al riguardo l’art. 20. del D.Lgs. n. 74/2000, rubricato “Rapporti tra procedimento penale e processo tributario”, per cui “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”.

3 Ne promana un monito in tal senso da parte della più recente giurisprudenza di legittimità che, occupandosi di un caso di fatture per operazioni inesistenti, ritiene che cfr. Cass., Sez. V, sent. n. 20579 del 29-09-2020:Pertanto, in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti, se, da un lato, non è consentita la deducibilità dei costi sostenuti, d’altro lato, può assumere rilevanza l’intervenuta pronuncia, in sede penale, che esclude la sussistenza dei fatti di reato dai quali è derivata la prospettazione della non deducibilità dei costi. Si tratta, pertanto, di una questione che incide sulla stessa non deducibilità dei costi, profilo che sta a monte dell’eventuale diritto al rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione. È, dunque, necessario che il giudice del merito accerti se la condotta oggetto di esame in sede di giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel presente giudizio”.

4 L’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 prevede testualmente, nella versione vigente, che “È punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila”.

5 Conferma di ciò può rinvenirsi in dottrina e, in particolare, v. Caraccioli, Rischi penal-tributari in materia di fiscalità internazionale, in Riv. dir. trib., 2010, III, p. 106.

6 Per un esauriente trattazione della questione da parte della più apprezzabile dottrina in particolare v. Vogel, Worldwide or source taxation of income?, in Rass. trib, 1988, I, pp. 259 e ss.; nonché prestigioso contributo dell’avv. A. Iorio, Le convenzioni per evitare le doppie imposizioni ed il rispetto dei principi comunitari, in Il Fisco, n. 48/1999, pp. 15-164.

7 cfr. Cass., sez. III, n. 43809 del 30.10.2015 con cui si statuisce che “Il punto, infatti, non è questo, ma verificare se a tale "ufficio" corrisponda una "costruzione di puro artificio" volta a lucrare benefici fiscali oppure no. "Costruzione artificiosa" e "indebito vantaggio fiscale" vanno di pari passo: il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l’imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se è ottenuto attraverso situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio che rendono conseguentemente "indebito" il vantaggio fiscale”.

8 In tal senso, sul versante tributario della contestazione mossa a Dolce&Gabbana, cfr. Cass., Sez. V, sent. n. 33234 del 21-12-2018, ove “in applicazione di questi principi, con riferimento al versante penale della medesima vicenda in esame, la terza sezione penale di questa Corte (con sentenza 24 ottobre 2014/30 ottobre 2015, n. 43809) ha stabilito, in generale, che in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359 c.c., comma 1, non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative qualora esso s’identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto.

6.1. - In particolare, la Corte ha svalutato la rilevanza della mancanza di autonomia gestionale e finanziaria delle dipendenti addette in successione alla sede della GADO, che agivano in base a direttive provenienti da Milano e veicolate dalle e-mail sulle quali punta anche la Commissione tributaria regionale della Lombardia.

E ciò sia alla luce della necessità d’interpretare le informazioni ricavabili dalle e-mail in base al complesso intreccio organizzativo e funzionale che intercorre tra una controllata e la sua controllante capo-gruppo, che fisiologicamente si risolve in un rapporto tra uffici e personale dell’una e dell’altra, sia perché "resta difficile comprendere quale autonomia gestionale e finanziaria dovessero avere due semplici dipendenti per poter qualificare l’insediamento lussemburghese in termini di effettiva realtà. Una valutazione di tale natura avrebbe avuto un significato coerente se oggetto ne fosse stata l’attività del legale rappresentante (eventualmente “eterodiretto”... Si comprende, in realtà, che dietro quel ripetuto richiamo alla mancanza di autonomia gestionale e finanziaria si cela l’ispirazione di fondo dell’intera decisione: la predisposizione degli aspetti gestionali ed organizzativi dell’attività di GADO s.a.r.l. “interamente in Italia, lasciando alla sede lussemburghese i soli compiti esecutivi. Con il che, però, si ammette che qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva, sì da giustificare una sede amministrativa collocata in una struttura diversa da quella legale e i costi del personale dapprima distaccato, quindi direttamente assunto, che vi operava”;

Sul versante della giurisprudenza di seconde cure cfr. C.T.R, Campania Napoli, Sez. XLVII, sent., n. 10249 del 18-11-2015.

Di notevole spicco è una recentissima pronuncia della C.T.R. Toscana che, chiamata ad esaminare una contestazione di esterovestizione mossa ad una holding con sede in Lussemburgo, partendo anche dall’esito favorevole intervenuto sul procedimento penale che era stato avviato, fa un’ottima sintesi ed applicazione di tali principi inaugurati dalla Suprema Corte nella vicenda Dolce&Gabbana statuendo che “Di primaria rilevanza, in tale prospettiva, è la sentenza della Corte di Cassazione n. 43809 del 2014 (cd sentenza Dolce e Gabbana), che, pur giudicando su una situazione di fatto non completamente sovrapponibile a quella in esame, ha definito alcuni princìpi che devono essere considerati anche in questa sede. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che deve essere accertato secondo le regole probatorie del processo penale (e non con le presunzioni applicabili solo nel procedimento tributario) se il domicilio fiscale estero sia una costruzione di puro artificio o, invece, corrisponda a una entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o statuto. In tale prospettiva, la circostanza che una società venga creata in uno Stato europeo per fruire di una legislazione fiscale più vantaggiosa non costituisce abuso della libertà di stabilimento, né può ritenersi sussistente, per ciò solo, una presunzione generale di frode fiscale. In effetti, la costituzione di società aventi sede all’estero, nell’ambito di un gruppo societario complesso e di notevole consistenza, può avere anche la finalità di adeguare la struttura societaria a nuove esigenze strategico-operative. Tale operazione, pur garantendo vantaggi fiscali ingenti, appare del tutto lecita. Inoltre, la strategia di mercato dei gruppi di imprese non può essere valutata in modo analogo a quella dell’imprenditore singolo, che finalizza l’attività al conseguimento di redditività in tempi brevi: dovrà invece svolgersi un’indagine analitica inerente l’esistenza di ragioni organizzative, strutturali e funzionali” (cfr. C.T.R. Toscana, n. 366 del 13.01.2020).

9 Per un contributo in tal senso v. avv. Monti Angela, L’internazionalizzazione delle imprese: tra libertà di iniziativa economica e rischio esterovestizione. Novità fiscali, 2018, pp. 376-380.

10 Per una sintesi giurisprudenziale di tali concetti cfr. Cass., Sez. V, sent. n. 2869 del 07-02-2013, a mente della quale “L’obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio. La nozione di stabilimento implica, quindi, l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercè l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro: presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale. Ne consegue che, perchè sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. In definitiva, deve ritenersi che quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.

11 A sostegno della libertà di stabilimento cfr. C.G.U.E., causa C-255/02, Halifax; C.G.U.E., causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas.

12 L’art. 49 del T.F.U.E (ex art. 43 del T.C.E.) prevede espressamente che: “Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.

La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.”

13 Per una chiara affermazione di tale principio in sede accademica v. P. Selicato, Il Modello di convenzione OCSE del 2002 in materia di scambio di informazioni: alla ricerca della reciprocità nei trattati in materia di cooperazione fiscale, in Rivista di Diritto Tributario Internazionale, International Tax law Review, 2004, Roma, per cui “Il principio di reciprocità, riconosciuto come principio generale del diritto internazionale, è considerato dalla dottrina «il denominatore comune che mantiene l’equilibrio tra gli Stati mediante una correlazione tra diritti e obbligazioni di origine consuetudinaria o convenzionale”.

14 Cfr. C.T.R. Lombardia Milano, Sez. IX, sent. n. 4458 del 12-11-2019 che, pronunciatasi sul tema, ha rammentato che “… perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. In definitiva, deve ritenersi che quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente artificiosa “wholly artificial arrangement” consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica".

15 Per un distinguo chiaro dei 3 criteri delineati dall’art. 73 del TUIR, in dottrina v. Pasquale Formica e Caterina Guarnaccia, Esterovestizione: day to day management e corretta interpretazione delle dinamiche aziendali multinazionali, in Il Fisco, n. 39, 2016, pp. 1-3740., in cui si afferma correttamente che in ordine alla: “

- sede legale, quale requisito di carattere formale che, facendo implicito riferimento all’art. 2328 c.c., prevede che la sede sociale debba essere indicata nell’atto costitutivo o nello statuto;

- sede dell’amministrazione, quale requisito di carattere sostanziale, inteso come luogo ove, genericamente, viene svolta l’attività di gestione (cfr., infra);

- oggetto esclusivo o principale sociale, quale requisito di carattere sostanziale, inteso quale attività essenziale posta in essere per realizzare gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”.

16 Specularmente, per le persone fisiche, opera la disciplina ex art. 2, co. 2, del T.U.I.R, per cui “Soggetti passivi dell’imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato. 2 Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. Ed anche in tale caso è prevista una presunzione legale relativa al comma 2-bis per cui “Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.

17 cfr. C.G.U.E., C-212/97, Centros Ldt e Erhvervs- og Selskabsstyrelsen, del 09-03-1999, che ha sancito il principio per cui “Ne consegue che queste società hanno il diritto di svolgere la loro attività in un altro Stato membro, mediante una agenzia, succursale o filiale. La localizzazione della loro sede sociale, della loro amministrazione centrale o del loro centro di attività principale serve a determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento all’ordinamento giuridico di uno Stato (v., in questo senso, sentenze Segers, citata, punto 13; 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/ Francia, Race. pag. 273, punto 18; 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank, Race. pag. I-4017, punto 13, e 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, Racc. pag. 1-4695, punto 20)”.

18 In tale ottica, la più autorevole giurisprudenza, partendo dal presupposto che “Affinchè sussistano gli estremi della esterovestizione è necessario che ricorrano due presupposti: uno soggettivo, ovvero la volontà di sottrarsi al più gravoso regime nazionale, e l’altro oggettivo, ovvero lo stabilimento della sede in un Paese con trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale… “ha correttamente escluso l’esterovestizione atteso che la società aveva la sede in Francia, che non è un Paese con regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello italiano” (cfr. ex multis C.T.P. Lombardia Milano, Sez. I, sent. n. 2853 del 25-03-2015; C.T.P. Lombardia Brescia, Sez. V, sent. n. 441 del 28-06-2017; per quanto attiene la giurisprudenza di legittimità cfr. Cass., Sez. V, sent. n. 2869 del 07-02-2013).

19 Acronimo per Place of Effective Management.

In ordine ad una disamina più approfondita sulla sua applicazione in sede internazionale, come apprezzabile contributo dottrinale v. P. Valente - D. Cardone, Esterovestizione. Profili probatori e metodologie di difesa nelle verifiche, IPSOA, 2015, pp. 155 e ss.

20 Nella Prassi dell’A.F. si v. in tal senso la Circ. n. 28/E/2006.

In tema di elementi di prova di tipo sostanziale a carico dell’A.F., d’interesse il contributo dato in dottrina da P. Valente e S. Mattia, Esterovestizione e residenza: i gruppi italiani operanti nel settore dell’autotrasporto, in Il Fisco n. 8/2012, pp. 1157, per cui “Sotto il profilo sostanziale e traendo spunto da quanto chiarito dalla Direzione Regionale del Piemonte nella Procedura pubblicata in data 12 dicembre 2002, contenente indicazioni operative per la gestione della documentazione da parte dei contribuenti italiani che intrattengono rapporti commerciali con soggetti localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata, per valutare l’effettiva residenza di una persona giuridica si deve tener conto, inter alia, dei seguenti elementi:

certificato di domicilio fiscale e di assoggettamento alle imposte locali;

statuto;

certificato di iscrizione nel locale registro delle imprese;

bilanci pubblicati (secondo la normativa locale);

numero dei dipendenti effettivamente impiegati;

disponibilità di locali inudstrilae/commerciali, idonei allo svolgimento dell’attività d’impresa in loco;

contratti e utenze.

21 In tal senso cfr. Circolare n. 28/E del 04.08.2006 per cui: “8.5 Collegamento con l’art. 167 del TUIR”. Merita, infine, precisare in quali termini la disposizione del nuovo comma 5 bis dell’art. 73 del TUIR può interferire sulla applicabilità del successivo articolo 167, nell’ipotesi in cui un soggetto residente controlli una società o un ente residente o localizzato in Stati o territori a fiscalità privilegiata che, a sua volta, detenga partecipazioni di controllo in società di capitali o enti commerciali residenti in Italia. È evidente che la presunzione di residenza nel territorio dello Stato dell’entità estera rende – in punto di principio – inoperante la disposizione dell’art. 167. Non sarà imputabile al soggetto controllante il reddito che la controllata stessa, in quanto residente, è tenuta a dichiarare in Italia. Qualora, tuttavia, sia fornita la prova contraria, atta a vincere la presunzione di residenza in Italia, la controllata non residente rimane attratta – ricorrendone le condizioni – alla disciplina dell’art. 167. In altri termini, il reddito della controllata estera non assoggettato a tassazione in Italia in dipendenza del suo – comprovato – status di società non residente resta imputabile per trasparenza al soggetto controllante ai sensi del citato art. 167. L’effettiva localizzazione della sede della amministrazione della controllata estera fuori del territorio dello Stato, e quindi la sua autonomia decisionale e di gestione, non escludono, infatti, che il suo reddito sia da considerare nella disponibilità economica del controllante residente”.

22 A tal riguardo, ad esempio assumendo decisioni che riguardano momenti significativi della vita della società, quali: le scelte imprenditoriali, il reperimento dei mezzi finanziari, le politiche di bilancio, la conclusione di contratti importanti ed altro ancora.

23 Sul punto, si è espressa autorevole dottrina ed, in particolare, v. Piergiorgio Valente, in Esterovestizione e eterodirezione: equilibri(smi) tra sede di direzione e coordinamento, direzione unitaria e sede di direzione effettiva (nota a Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia n. 197/2009), in Rivista di Diritto Tributario, vol. XX, 2010, p. 248, in cui si afferma che “Il coordinamento delle imprese del gruppo può essere concepito come una modalità della direzione unitaria, consistente nella riconduzione ad unità della direzione di tutte le imprese del gruppo, in modo tale da omogeneizzarne i fini, standardizzarne i processi e uniformarne le singole operazioni… È importante sottolineare che l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento non può fondare alcun assunto di residenza fiscale delle controllate nel Paese in cui è localizzata la società controllante…”.

24 Un’emblematica dissertazione sulla direzione societaria in relazione al fenomeno dell’esterovestizione viene trattata da autorevole dottrina per cui v. F. Capriglione, Poteri della controllante e organizzazione interna del gruppo, in Impresa, 1990, pp. 2083, dove nella determinazione della politica di gruppo, la holding può” comprimere l’interesse di una società a favore dell’altra, beninteso ove ciò interagisca positivamente sul risultato finale della gestione complessiva”.

25 Ed ancora, nell’ottica di valorizzare correttamente quelle che sono le fisiologiche dinamiche all’interno di un gruppo societario tra società controllante e partecipate estere, senza così dar luogo all’esterovestizione, v. Piergiorgio Valente, cit. in Rivista di Diritto Tributario, vol. XX, 2010, pp 253, secondo cui “L’attività di direzione, per converso, rilevante ai fini dell’individuazione della sede dell’amministrazione e, dunque, della residenza fiscale della società partecipata, si estrinseca nella identificazione delle modalità imprenditoriali che consentono alle singole entities partecipate il conseguimento degli obiettivi strategici di più alto livello ad esse assegnati dalla società controllante e la realizzazione, in tal modo, del più ampio disegno imprenditoriale del gruppo di appartenenza.

In sostanza, i flussi strategici – espressione della gerarchia societaria e del coordinamento funzionale – discendenti dalla capogruppo alle controllate (processo top-down), pur coinvolgendo ogni profilo della vita aziendale delle partecipate stesse, permeandone organizzazione e processi, non individuano, di per sé, alcuna sostituzione nell’esercizio dell’impresa sul territorio, ma esprimono unicamente il potere di direzione unitaria ed attestano l’esistenza di un rapporto di sovraordinazione (della controllante) e di subordinazione (della controllata)”.

26 Un interessante contributo in tema di residenza fiscale, nell’ottica di inquadrare un criterio corretto in presenza di gruppo societario, v. Pasquale Formica e Caterina Guarnaccia, Esterovestizione: day to day management e corretta interpretazione delle dinamiche aziendali multinazionali, in Il Fisco, n. 39, 2016, pp. 1-3740, per cui:

L’indagine circa la residenza fiscale di una società deve tener conto, quindi, del confine che sussiste tra l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento posto in essere dalla controllante e la c.d. etero-direzione.

Detto confine risulta di non sempre agevole individuazione nei gruppi che operano a livello internazionale. In effetti, a parere di chi scrive, si ricade nell’ambito della etero-direzione solo se si verifica l’integrale ingerenza dei poteri degli organi della controllata e non la (normale) compressione dei poteri degli stessi.

Per tale ragione, con riferimento al fine che, in questa sede interessa, si ritiene che la residenza fiscale delle società non può che collocarsi nel luogo in cui gli executive officers realizzano, con stabilità e continuità, la gestione aziendale ordinaria. In effetti, occorre scongiurare un’interpretazione che conduca a risultati aberranti, quale quello di confondere l’attività che rileva ai fini dell’individuazione della residenza con la fisiologica attività di “direzione e coordinamento” che la società controllante esercita (in modo legittimo) verso la propria controllata.

In questa prospettiva, la residenza (fiscale) deve necessariamente coincidere, non con il luogo di assunzione delle decisioni generali (di interesse del gruppo), ma con il luogo del c.d. day to day management e ciò soprattutto con riferimento a gruppi di società multinazionali.

Esso, infatti, appare l’unico criterio di collegamento idoneo a individuare il luogo nel quale si realizza effettivamente l’attività principale e sostanziale dell’impresa”.

27 v. in dottrina l’interessante approfondimento di M. Fanni, “L’esercizio delle prerogative del socio non determina l’esterovestizione della controllata se il day to daymanagement è nello Stato Estero”, in Riv. giur. trib., n. 10/2015, pp. 812.

28 V. art. 75 del D.P.R. n. 600/1973 per cui “Nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”.

29 In tal senso, da parte dell’autorevole dottrina v. Alberto Pozzo, L’Interpretazione delle Convenzioni Internazionali Contro le Doppie Imposizioni - Capitolo VI, pp. 153, per cui “Tuttavia, alla prevalenza delle norme convenzionali rispetto alle successive norme interne, e salvo che queste ultime non abbiano espressamente posto una deroga al diritto convenzionale, si perviene mediante l’affermazione della specialità delle norme di adattamento alla convenzione nonché mediante la presunzione della conformità della legge interna al trattato.

Quindi, le norme contenute nelle convenzioni, una volta avvenuto il recepimento all’interno del nostro ordinamento, si pongono come norme di carattere speciale idonee in quanto tali a prevalere sulla legge ordinaria”.

Precursori di codesta lettura v. Galli G.B., Miraulo A., Italian National Report, cit., pp. 387, nonché La Pergola A.- Del Duca P., Community Law, International Law and the Italian Constitution, in The An. Rew of International Law, 1985, pp. 598.

Ancora autorevole dottrina sulla relazione che si instaura tra norme tributarie interne e disposizioni convenzionali v. Micheli G.A., Problemi attuali di diritto tributario nei rapporti internazionali, in Dir. Prat. Trib., 1965, I, pp. 216.

Dal lato della più autorevole giurisprudenza di legittimità più recente cfr. Cass., Sez. V, n. 30140 del 20-01-2019.

Le Convenzioni, stante il carattere di specialità del loro ambito di formazione, cosi come le altre norme internazionali pattizie, prevalgono sulle corrispondenti norme nazionali, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli obblighi internazionali. Altresì, in ordine alle imposte sul reddito, le norme pattizie derivanti da accordi tra gli Stati prevalgono, attesane la specialità e la ratio di evitare fenomeni di doppia imposizione, su quelle interne”.

30 Sigla per “OECD Base Erosion and Profit Shifting Project”.

31 V. in OECD BEPS: “Action 6 Prevention of tax treaty abuse minimum standard”.

BEPS Action 6 addresses treaty shopping through new treaty provisions whose adoption forms part of a minimum standard that members of the BEPS Inclusive Framework have agreed to implement. It also includes specific rules and recommendations to address other forms of treaty abuse. Action 6 identifies tax policy considerations jurisdictions should address before deciding to enter into a tax agreement”.

32 Per autorevole dottrina internazionale v. Carlos Palao Taboada, OECD Base Erosion and Profit Shifting Action 6: The General Anti-Abuse Rule, in: Bulletin for International Taxation, October 2015, pp. 602- 608.

33 Per completezza, si rammenta tali clausole sono contemplate dal diritto interno del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e del Canada.

34 La condensed version OECD del 2014 stabiliva che: “Where by reason of the provisions of paragraph 1 a person other than an individual is a resident of both Contracting States, then it shall be deemed to be a resident only of the State in which its place of effective management is situated”.

35 L’ultima versione del Modello Convenzionale è stata varata lo scorso 21 novembre 2017 dall’OCSE, e successivamente pubblicata in data

18-12-2017; il testo precedente risale al 2014.

36 V. update Model Tax Convention-2017, art. 4, par. 3: “Where by reason of the provisions of paragraph 1 a person other than an individual is a resident of both Contracting States, then it shall be deemed to be a resident only of the State in which its place of effective management is situated. the competent authorities of the Contracting States shall endeavour to determine by mutual agreement the Contracting State of which such person shall be deemed to be a resident for the purposes of the Convention, having regard to its place of effective management, the place where it is incorporated or otherwise constituted and any other relevant factors. In the absence of such agreement, such person shall not be entitled to any relief or exemption from tax provided by this Convention except to the extent and in such manner as may be agreed upon by the competent authorities of the Contracting States”.

37 As regard the Commentary tells that: “This paragraph concerns companies and other bodies of persons, irrespective of whether they are or not legal persons. It may be rare in practice for a company, etc. to be subject to tax as a resident in more than one State, but it is, of course, possible if, for instance, one State attaches importance to the registration and the other State to the place of effective management. So, in the case of companies, etc., also, special rules as to the preference must be established. 22. It would not be an adequate solution to attach importance to a purely formal criterion like registration. Therefore paragraph 3 attaches importance to the place where the company, etc. is actually managed. 23. The formulation of the preference criterion in the case of persons other than individuals was considered in particular in connection with the taxation of income from shipping, inland waterways transport and air transport. A number of conventions for the avoidance of double taxation on such income accord the taxing power to the State in which the “place of management” of the enterprise is situated; other conventions attach importance to its “place of effective management”, others again to the “fiscal domicile of the operator”. 24. As a result of these considerations, the “place of effective management” has been adopted as the preference criterion for persons other than individuals. The place of effective management is the place where key management and commercial decisions that are necessary for the conduct of the entity’s business as a whole are in substance.

Observations on the Commentary. As regards paragraphs 24 and 24.1, Italy holds the view that the place where the main and substantial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management of a person other than an individual”.

38 A tal riguardo, v. par. 25 delle osservazioni all’art. 4 del Modello OCSE, per cui: “As regards paragraphs 24 and 24.1, Italy holds the view that the place where the main and substantial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management of a person other than an individual”.

39 V. in tal senso nota dell’A.F. del 19-03-2010 la quale, nel replicare alla richiesta di chiarimenti inoltrata dalla Commissione europea in tema di presunzione di esterovestizione, tra l’altro, ha puntualizzato che la prova della collocazione fittizia all’estero della sede amministrativa di una società può anche “attenere, ad esempio, al regolare, periodico svolgimento delle riunioni del consiglio di amministrazione di cui può essere agevolmente fornita documentazione unitamente all’evidenza che le riunioni sono tenute presso la sede sociale con la partecipazione dei diversi consiglieri (p. es delibere del consiglio di amministrazione formalmente prese all’estero, biglietti aerei/ricevute di alberghi che attestano gli spostamenti dei consiglieri residenti in Italia)”.

40 Come ribadito da autorevole dottrina v. Prof. Avv. G. Maisto, in Convenzioni Internazionali per evitare le doppie imposizioni, 2015, p. 794 per cui trattasi di uno strumento inteso “ad evitare le doppie imposiizoni in materia d’imposte sul reddito e sul patrimonio ed a prevenire la frode e l’evasione fiscale conclusa a Lussemburgo il 3 giugno 1981 e ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 14 agosto 1982 n. 747 (pubblicata nel S.O. alla G.U. n. 284 del 14 ottobre 1982). Lo scambio degli strumenti di ratifica è avvenuto il 4 febbraio 1983 (comunicato del Ministero degli Affari Esteri pubblicato nella G.U. N. 77, Serie Generale del 19 marzo 1983) e la convenzione è entrata in vigore il 4 febbraio 1983”.

41 In tema si richiama la risp. n. 25 del 04-10-2018 in cui l’A.F., nel fornire talune delucidazioni in merito ad una fattispecie che vedeva un contribuente che evidenziava un problema di doppia imposizione tra Italia e Lussemburgo, ha ritenuto necessario il rimando alla Convenzione tra Italia e Lussemburgo per risolvere il conflitto, in particolare rilevando che “Per individuare la nozione di residenza fiscale valida ai fini dell’applicazione delle disposizioni delle Convenzioni contro le doppie imposizioni e, in particolare, della Convenzione tra Italia e Lussemburgo per 3 evitare le doppie imposizioni ratificata dalla legge 14 agosto 1982, n. 747 (di seguito la Convenzione o il Trattato internazionale), è necessario fare riferimento alla legislazione interna degli Stati contraenti. Si osserva, in particolare, come la Convenzione stabilisca, all’articolo 4, paragrafo 1, che l’espressione “residente di uno Stato designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a motivo del suo domicilio, della sua residenza (…) o di ogni altro criterio di natura analoga”. A tal riguardo l’articolo 2, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito TUIR) considera residenti in Italia “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”. Le tre condizioni sopra citate sono tra loro alternative, essendo sufficiente che sia verificato, per la maggior parte del periodo d’imposta, uno solo dei predetti requisiti affinché una persona fisica venga considerata fiscalmente residente in Italia e, viceversa, solo quando i tre presupposti della residenza sono contestualmente assenti nel periodo d’imposta di riferimento tale persona può essere ritenuta non residente nel nostro Paese”.

42 In ordine ad una contestazione di presunta esterovestizione riguardante una società con sede nello Stato di San Marino la Corte di Cassazione, con una recentissima pronuncia, ha rigettato i motivi promossi dall’A.F. stabilendo che “La questione oggetto ‘iena presente controversia non è nuova: al riguardo si registra una ormai consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, alla quale si è uniformata la sentenza impugnata ed alla quale il collegio ritiene di dovere assicurare continuità nella presente sede; secondo tale orientamento, ai fini della individuazione della residenza fiscale delle società ed enti, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 3, (secondo la numerazione vigente ratione temporis, corrispondente all’odierno art. 73, comma 3, a seguito del D.Lgs. n. 344 del 2003), la nozione di “sede dell’amministrazione", in quanto contrapposta alla “sede legale", è assimilabile alla "sede" di matrice civilistica, intesa come il luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative, di direzione dell’ente e di convocazione delle assemblee e, quindi, come luogo stabilmente utilizzato per l’accentramento, nei rapporti interni e coi terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente (Cass. n. 2869 del 7-2-2013 e, più di recente, n. 15184 del 4-6-2019).

- Nella fattispecie la CTR, nel confermare la sentenza di primo grado ha affermato che, alla luce della documentazione probatoria versata in atti, "non sussistono i presupposti per dichiarare che la Junior Glass spa e la Arte Vetro abbiano “entrambe sede nel territorio italiano" e che, in particolare, deve escludersi che quest’ultima potesse classificarsi come soggetto fiscale ne nostro Paese, in assenza di "prova concreta che possa far ritenere plausibile la tesi dell’ufficio secondo cui l’effettiva attività di amministrazione e gestione di Arte Vetro si svolgesse al di fuori del territorio sanmarinese"le risultanze di causa hanno evidenziato i secondi giudici testimoniano che “nel periodo oggetto di verifica la documentazione contabile ed i libri sociali erano tenuti a (OMISSIS) e le riunioni del collegio sindacale e dell’assemblea si tenevano tutte nello stesso territorio così come gli obblighi civilistici e fiscali erano adempiuti nel proprio Stato di appartenenza e i dipendenti erano quasi tutti ivi residenti”; Gli argomenti dedotti nella presente sede dalla ricorrente sono stati valutati dalla CTR, contrariamente all’assunto dell’Ufficio.

Quanto al rinvenimento presso la  sede della Junior Glass spa di una situazione patrimoniale di Arte Vetro, la CTR ha escluso che tale circostanza potesse scalfire il convincimento espresso nella sentenza, a ragione del ritenuto carattere "convincente" delle giustificazioni rese sul punto dalla contribuente, la quale ha fatto presente come detto documento costituisse l’unico prospetto contabile all’interno della verifica fiscale concernente gli anni dai 2003 al 2007 e come lo stesso si riferisse al solo anno 2006 e perseguisse il solo fine di valutare la consistenza e la garanzia offerta da uno dei maggiori fornitori di Junior Glass spa; quanto esposto porta ad escludere che questa società fosse in possesso di informazioni patrimoniali strategiche della società odierna controricorrente (cfr. Cass., Sez. V, ord. n. 24872 del 06-11-2020).

Sempre nell’ottica di valorizzare la sede di direzione effettiva la Suprema Corte, quasi in tempi non sospetti, esaminando un caso in cui veniva contestata l’asserita localizzazione fittizia di una società in Lussemburgo ha rigetto le doglianze erariali, che peraltro ritenevano inapplicabili ratione temporis la disciplina pattizia, affermando invece che “L’ampia disamina, compiuta dal giudice a quo, della normativa fiscale, civilistica e pattizia , in tema di residenza fiscale delle società e della relativa interpretazione dottrinale e giurisprudenziale appare, infatti, corretta, là dove, in sintesi, egli giunge alla conclusione della assimilazione del concetto (fiscale) di “sede dell’amministrazione” (qualificato come uno dei criteri “alternativi” indicati nell’art. 87, comma 3, del TUIR) a quello (civilistico) di “sede effettiva” della società ed intende quest’ultima, in sostanziale conformità ai principi sopra enunciati, come il luogo in cui si svolge in concreto la direzione e la gestione dell’attività d’impresa e dal quale promanano le relative decisioni. Ne deriva che anche la parte finale della motivazione, dove si afferma che "secondo il criterio generale, la sede legale- amministrativa della CIN non è in Italia e, pertanto, decade ogni criterio sussidiario", non può che essere interpretata – come in definitiva ammette anche la stessa Agenzia ricorrente – alla luce dei principi esposti immediatamente prima, cioè nel senso che, ad avviso della CTR, la sede effettiva (“amministrativa”) della società coincide con quella legale lussemburghese (oltre che con il luogo dell’oggetto principale dell’attività, che l’Ufficio non ha mai contestato che sia in Lussemburgo), con ciò escludendosi la configurabilità in concreto della residenza fiscale in Italia in base alla norma interna citata – e quindi l’ipotesi della esterovestizione – con assorbimento di ogni altra indagine” (cfr. Cass., Sez. V, sent. n. 2869 del 07-02-2013).

43 Per una disamina approfondita del caso v. Lower Court Arnhem, 07-03-2007.

44 Volgendo uno sguardo alla disciplina tributaria adottata in Olanda, ai sensi dell’art. 4 del General Taxes Act “la residenza delle persone giuridiche si determina in base alle circostanze”.

45 Al riguardo v. Hoge Road, BNP, 1989/52, decisione del 27-04-1988.

46 Per un importante contributo della più autorevole dottrina in tal senso v. P. valente, in la sede di direzione effettiva nel diritto comparato, in Il fisco, 28/2009, pp. 4604 e ss., in cui afferma che “… si può concludere che, nell’ottica di far valere con successo la residenza fiscale della società sul territorio olandese, è in generale opportuno che i membri del Cda si riuniscano, per deliberare in merito alle più importanti questioni riguardanti la gestione e l’attività di impresa della società, presso la sede della stessa. È, altresì, importante che vi sia autonomia e indipendenza decisionale effettiva della casa-madre situata all’estero.”

47 Le principali argomentazioni dell’AIDC sono compendiabili nei seguenti termini, così come evidenziato da autorevole dottrina v. Sacchetto, L’esterovestizione societaria, Torino, 2013, secondo cui:

l’art. 73, co. 5-bis, del T.u.i.r., impedirebbe, a parità di condizioni, la scelta del management maggiormente adatto per amministrare la società, introducendo una penalizzazione per i prestatori d’opera residenti in Italia; la norma in questione non ammetterebbe la verifica, in via preventiva, della idoneità della prova contraria, conseguendone inevitabilmente la lesione del principio di certezza del diritto e, specularmente, attribuendosi eccessivo potere discrezionale a favore del Fisco; il contribuente sarebbe obbligato ad adempiere all’onere di fornire mezzi di prova diversi ed ulteriori rispetto al certificato rilasciato dall’Autorità estera attestante l’effettiva residenza fiscale nello Stato in cui quest’ultima è stata posta e l’assoggettabilità all’imposta sui redditi locale.

48 Per un’approfondita disamina del tema v. Il Commercialista Veneto, Inserto: La residenza fiscale delle società, n. 236, marzo/aprile 2017, in cui si riporta che: “A seguito di formale denuncia presentata dall’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (Aidc), concernente i profili di illegittimità comunitaria della presunzione legale di residenza fiscale prevista dall’articolo 73, comma 5 bis, Tuir, per presunta violazione dei generali principi comunitari di proporzionalità, libero stabilimento e non discriminazione, la Commissione europea ha avviato il procedimento EU Pilot/2010/777.TAXU. Nell’ambito di tale procedimento, l’Agenzia delle Entrate ha fornito opportuni chiarimenti e linee guida di comportamento da adottare in caso di accertamento in materia di estero-vestizione, soffermandosi, in particolar modo, sulla “prova contraria” finalizzata a dimostrare l’effettiva residenza all’estero di una società e fornendo talune precisazioni anche sulla valenza probatoria dei certificati fiscali esteri”.

49 In particolare, una critica significativa a tale interpretazione è stata mossa da M. Piazza, D. Del Frate, Quando il Fisco presume che una società estera risieda fiscalmente in uno Stato terzo, in Fiscalità & Commercio Internazionale, n.1/2013.

50 Sul tema, per autorevole dottrina v. M. Furlan, Esterovestizione. Il vademecum dell’Agenzia, in Fiscalità Int., 2012, 30.

51 Al riguardo cfr. C.G.U.R., Causa C-73/06, Planzer Luxembourg Sàrl contro Bundeszentralamt für Steuern, del 28.06.2007, per cui “Gli artt. 3, lett. b), e 9, secondo comma, dell’ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti all’interno del paese, vanno interpretati nel senso che l’attestazione conforme al modello di cui all’allegato B della direttiva stessa permette, in via di principio, di presumere che l’interessato sia non soltanto soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto nello Stato membro cui fa capo l’amministrazione tributaria che gliel’ha rilasciata, ma anche che esso sia residente in tale Stato membro.

Questo principio è anche sancito nella relazione governativa al D.Lgs. n. 136/1993, in base alla quale “l’individuazione della residenza fiscale della società può essere risolta in via procedimentale sulla base di un certificato delle competenti autorità dello Stato comunitario che attesti il possesso del requisito in parola”.

52 Sulla rilevanza probatoria del certificato di residenza estero, incombente sul contribuente, v. Circ. n. 32/E del giorno 08-07-2011, per cui “2.2.3 Onere della prova e meccanismi di imputazione.

In base alle regole generali del diritto interno, l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per ottenere un rimborso di imposta grava sul contribuente che lo richiede. Tale regola trova necessariamente applicazione anche per le istanze di rimborso in esame. Analogamente a quanto prescritto dall’art. 27-bis, comma 2, del DPR n. 600 del 1973 per i rimborsi a favore di società “madri”, anche i rimborsi in questione saranno subordinati alla dimostrazione da parte delle società interessate, tramite certificazione del proprio Stato di residenza, di essere soggetti passivi nel proprio Stato di residenza di una imposta sul reddito delle società analoga all’IRES tale che l’applicazione della ritenuta italiana in misura piena darebbe luogo ad un’imposizione discriminatoria rispetto all’analoga situazione interna all’ordinamento italiano. La verifica delle certificazioni che le società interessate produrranno potrà avvenire, come già ricordato, avvalendosi delle regole di collaborazione fiscale transfrontaliera previste dalla Direttiva 77/799/CEE, o di analoghe regole previste da convenzioni bilaterali”.

53 Per tale decisione cfr. Cass., Sez. V, sent. n. 1553 del 03-02-2012, a mente della quale “Alla luce della chiara lettera di tale normativa, il giudice d’appello ha rilevato che era provata la residenza olandese con la dichiarazione rilasciata dall’Autorità (Balastingdlenst/Grote ordernemingen Rotterdam) di quel Paese, nella quale “si attesta che Mill Hill Investments è residente in Olanda ai sensi dell’art. 4 della convenzione bilaterale sulle doppie imposizioni tra l’Italia e i Paesi Bassi”; ha rilevato cane l’assoggettamento ad imposte era documentato con una unofficial translation attestante la corresponsione in Olanda, per il 2000, corrispondente al periodo d’imposta in relazione al quale si controverte, della vennoctschapsabelastin, che è l’imposta sulle società; ha quindi richiamato, segnatamente, il D.Lgs. n. 544 del 1992, art. 1, (“soggetti... residenti in Stati diversi della Comunità”) e l’art. 3, lettera b), della stessa direttiva 90/434/CEE, (la quale "chiarisce che le società interessate alla delibera sono quelle che, secondo la legislazione fiscale di uno Stato membro, sono considerate cane aventi il domicilio fiscale in tale Stato"), rilevando come nella specie era "provato che l’Autorità olandese considerò Mill Hill Investments fiscalmente domiciliata a Rotterdam;

Il giudice d’appello, facendo corretta applicazione delle regole dettate dal D.Lgs. n. 544 del 1992, artt. 1 e 2, di attuazione della direttiva del Consiglio 90/434/CEE, letta alla luce dei criteri fissati dall’art. 3 della direttiva stessa, ha individuato i criteri applicabili, ed alla loro stregua ha qualificato la Mill Hill Investments BV cane soggetto residente in altro stato membro della Genuinità, vale a dire nei Paesi Bassi, sulla base degli elementi acquisiti, con valutazione esaustiva e priva di vizi logici”.

54 Tra le varie sentenze che hanno accordato forza vincolante al certificato estero ai fini del superamento della contestazione di esterovestizione, cfr. C.T.R. Campania Napoli, Sez. XLVII, sent. n. 10249 del 18-11-2015, per cui “Ancora il Collegio rileva che la T. è stata costituita nel 1949 ed stato ampiamente dimostrato dalla stessa, anche producendo diverse e recenti certificazioni dell’autorità fiscale inglese a cui occorre dare necessariamente valore inconfutabile di prova, di aver sempre mantenuto invariata la sede legale, la sede amministrativa intesa come sede in cui vengono assunte le decisioni strategiche di gestione dell’impresa (c.d. Place Effective Management), il proprio oggetto sociale nel Regno Unito, come tra l’altro richiesto dalle disposizioni normative di cui agli artt. 73, terzo comma del Tuir in tema di residenza fiscale in Italia dei soggetti con personalità giuridica ed art. 4 della Convenzione contro la doppia imposizione tra l’Italia e la Gran Bretagna”.

55 Per una interessante disamina della questione, cfr. C.T.P. Lombardia Milano, Sez. XV, sent. n. 6579 del 27-11-2017, secondo cuiVa però detto che mentre la prima circostanza può facilmente essere accertata mediante la ricezione del certificato di residenza convenzionale rilasciato dalle autorità fiscali dello stato di residenza del supposto beneficiario effettivo, la seconda circostanza deve essere oggetto di separata verifica che non deve competere al sostituto di imposta... Deve ritenersi pertanto corretto il comportamento del contribuente che ha assunto la certificazione fiscale rilasciata dal paese estero che ha dichiarato la sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti per beneficiare di regimi fiscali di favore..." (Comm. Reg. Lombardia Sez. staccata Brescia 29 giugno 2015 n. 2897).Quanto precede evidenzia come il requisito sostanziale della residenza ai fini fiscali del soggetto percipiente, caratterizzato dalla soggezione del reddito percepito alla legge fiscale dello stato di residenza, assume rilevanza apicale nella qualificazione del soggetto percipiente, quale beneficiario effettivo di tale reddito.

A tal riguardo si ricorda che, secondo la ormai pacifica posizione della giurisprudenza di merito, i certificati emessi dalle autorità fiscali straniere hanno valenza probatoria vincolante (Comm. Trib. Reg. Abruzzo, sez. staccata Pescara, sez. X, 2 dicembre 2006 n. 250; Comm. Trib. Reg. Abruzzo, sez. staccata Pescara, sez. X, 27 settembre 2007 n. 305; Comm. Trib. Reg. Abruzzo, sez. staccata Pescara, sez. IX, 30 giugno 2009 n. 154).

In effetti, le certificazioni possono contenere l’attestazione di alcuni fatti ed in parte alcune considerazioni espresse dagli organi fiscali; ebbene quando nelle predette certificazioni, viene confermata la presenza dei requisiti per l’applicazione della convenzione, "... l’Ufficio non può mettere in discussione l’autenticità dell’attestazione e se intendesse farlo, dovrebbe in primo luogo chiedere chiarimenti al corrispondente organo (del fisco straniero)" (Comm. Trib. Reg. Abruzzo, sez. staccata Pescara, sez. IX, 22 dicembre 2010 n. 228).

In senso analogo si sono pronunciati i giudici della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte. Secondo tali giudici "... il soggetto italiano può limitarsi ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti dalle medesime disposizioni convenzionali per beneficiare di regimi fiscali di favore" (Comm. Trib. Reg. Piemonte, sez. XII, 4 maggio 2012 n. 28).

L’orientamento delle corti di merito è stato avallato dalla Cassazione la quale, in un caso di presunta esterovestizione di una società olandese, ha sottolineato come il giudice di secondo grado aveva correttamente annullato l’avviso di accertamento basandosi sul certificato emesso dalle autorità fiscali olandesi che attestava la residenza in Olanda della società ed il suo assoggettamento alla locale imposta sulle società (Cass. Sez. trib. 3 febbraio 2012 n. 1553).”

56 Per un approfondimento della tematica, in dottrina v. M. Gabelli - D. Rossetti, Contestazione di esterovestizione di società comunitaria. La rilevanza dei certificati fiscali esteri, in Fiscalità & Commercio Internazionale, 2015, p. 61.

57 Tra le pronunce di merito che hanno escluso l’efficacia vincolante del certificato di residenza fiscale, cfr. C.T.R. Marche Ancona, Sez. IV, sent., n. 784 del 27-10-2020, a mente della quale “Anche con riguardo alla rilevanza della certificazione della residenza fiscale rilasciata dall’Agenzia Nazionale fiscale della Romania, una volta che sia accertata la "sede effettiva" altrove, si deve concludere che trattasi di un dato formale privo di rilevanza, poiché non attesta affatto quale sia il luogo dove è la sede della direzione effettiva della società.”; nella stessa direzione cfr. C.T.R. Trentino-Alto Adige Trento, Sez. II, sent. n. 19 del 27-01-2020, dove “…la presentazione del certificato di residenza fiscale in L. si è tradotto in un elemento documentante la non residenza in I. della (...) s.a. ma non decisivo per dimostrare la sussistenza in Lussemburgo né di un sufficiente (in senso relativo come si vedrà innanzi) livello di presenza fisica né l’effettivo svolgimento di un’attività economica. Da ciò, necessariamente, consegue che occorrevano (e che anche qui occorrono) ulteriori mezzi di prova, di natura fattuale, per dimostrare che l’insediamento all’ Estero di (...) s.a. non rappresentava una costruzione artificiosa”;

sempre in tal senso cfr. C.T.R. Umbria Perugia, Sez. III, sent. n. 225 del 14/05/2018, a mente della quale “Il certificato attestante che "il portatore ha un diritto registrato di residenza nel territorio rumeno" ha validità, melius efficacia dal 26 marzo 2015 al 25 marzo 2020, e comunque è inidoneo a dimostrare la residenza effettiva del S. in Romania; “il certificato di attestazione fiscale" non esprime alcun dato significativo e comunque non è idoneo a superare la prova fattuale che la direzione effettiva dell’impresa sia svolta in Italia; la stessa utenza telefonica risulta intestata alla T.S., e non già al sig. S.M.

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