Scritto da Raffaele Perrone Capano • lug 2023
Lo studio rappresenta un approfondimento del tema svolto nella relazione sul rapporto tra economia sommersa ed evasione, tenuta a Napoli nel giugno 2020, nell’ambito del Convegno Spring in Naples. Il confronto tra la riduzione costante dell’economia sommersa fin dai primi anni dell’introduzione dell’euro e la sua accelerazione, evidenziata a partire dal 2015 attraverso l’analisi dei rapporti dell’ISTAT su “economia sommersa ed evasione, conferma il ridimensionamento bagnato di un fenomeno che sopravvive in aree di nicchia non concorrenziali e le cui dimensioni, ormai marginali, sono allineate a quelle delle economie più avanzate.
Al riguardo Il lavoro richiama sinteticamente l’evoluzione della politica tributaria italiana nell’arco di un trentennio, e si conclude con una analisi impietosa della controriforma dell’Irpef attuata tra il 2006 e il 2007 dal secondo Governo Prodi. La principale causa, assieme alla moltiplicazione degli espedienti utilizzati a partire dal 2014 per aumentare il gettito, della bassa crescita dell’Italia nell’ultimo quindicennio.
The study represents a further reflection on what was said in the speech presented in Naples in June 2020, as part of the Spring in Naples Conference on the relationship between the underground economy and tax evasion. The comparison between the constant reduction of the underground economy since the first years of the introduction of the euro and the acceleration highlighted starting from 2015, through the careful analysis of the ISTAT reports on the underground economy, confirms the downsizing of a phenomenon that survives in restricted non-competitive areas and whose dimensions, now marginal, are aligned with those of the most advanced economies. The work ends with a harsh criticism of the IRPEF counter-reform implemented between 2006 and 2007 by the second Prodi government. The main cause, together with the multiplication of the expedients used since 2014 to increase revenue, of the low growth of Italy in the last fifteen years.
La crisi globale esplosa negli Stati Uniti nel settembre 2008, i suoi effetti sull’Eurozona e le ripercussioni in Italia sul rapporto tra economia sommersa ed evasione: approfondimenti e sorprese
The study represents a further reflection on what was said in the speech presented in Naples in June 2020, as part of the Spring in Naples Conference on the relationship between the underground economy and tax evasion. The comparison between the constant reduction of the underground economy since the first years of the introduction of the euro and the acceleration highlighted starting from 2015, through the careful analysis of the ISTAT reports on the underground economy, confirms the downsizing of a phenomenon that survives in restricted non-competitive areas and whose dimensions, now marginal, are aligned with those of the most advanced economies.
The work ends with a harsh criticism of the IRPEF counter-reform implemented between 2006 and 2007 by the second Prodi government. The main cause, together with the multiplication of the expedients used since 2014 to increase revenue, of the low growth of Italy in the last fifteen years.
Lo studio rappresenta un approfondimento del tema svolto nella relazione sul rapporto tra economia sommersa ed evasione, tenuta a Napoli nel giugno 2020, nell’ambito del Convegno Spring in Naples. Il confronto tra la riduzione costante dell’economia sommersa fin dai primi anni dell’introduzione dell’euro e la sua accelerazione, evidenziata a partire dal 2015 attraverso l’analisi dei rapporti dell’ISTAT su “economia sommersa ed evasione, conferma il ridimensionamento bagnato di un fenomeno che sopravvive in aree di nicchia non concorrenziali e le cui dimensioni, ormai marginali, sono allineate a quelle delle economie più avanzate.
Al riguardo Il lavoro richiama sinteticamente l’evoluzione della politica tributaria italiana nell’arco di un trentennio, e si conclude con una analisi impietosa della controriforma dell’Irpef attuata tra il 2006 e il 2007 dal secondo Governo Prodi. La principale causa, assieme alla moltiplicazione degli espedienti utilizzati a partire dal 2014 per aumentare il gettito, della bassa crescita dell’Italia nell’ultimo quindicennio.
1.
Uno degli aspetti che viene segnalato con maggiore frequenza, quando in Italia si affronta il tema del fisco e della sua crisi, è rappresentato dall’immancabile richiamo all’ “enorme evasione” italiana: un’espressione che mi è rimasta impressa, evocata in Svizzera da un noto economista, investito di responsabilità di governo a fine 2011, durante la crisi del nostro debito sovrano.
Un’espressione quanto meno infelice per la sede scelta e per l’assoluta genericità che la aveva accompagnata. Un’anteprima populista che avrebbe fatto da apripista nel mondo politico a molti altri imitatori.
Ora, che in Italia, accanto ad un’elevata pressione fiscale, accompagnata da una implicita superiore di almeno 2,5 punti di Pil, di cui nessuno parla, esista anche una diffusa evasione fiscale, occultata con le molteplici opportunità offerte in passato dall’economia sommersa, rappresenta un’affermazione corrente, anche se spesso generica e non adeguatamente documentata.
Basta sfogliare i dati pubblicati recentemente dall’ISTAT sull’economia sommersa e irregolare nel periodo che va dal 2014 al 2018 per rendersi conto che dalle cifre che provengono dall’economia “non osservata” (sommerso economico e economia criminale), emerge una realtà molto più articolata, e soprattutto una tendenza costante alla riduzione dell’economia sommersa rispetto al PIL, dall’introduzione dell’Euro ad oggi.
Un elemento fin troppo trascurato, nell’approccio economico agli studi sul fisco, che spesso affrontano il tema “evasione” in una singola imposta, prescindendo dalla struttura giuridica. Di fatto viene ignorato che la somma di interventi parziali, talvolta contradittori, rende difficile parlare del fisco come “sistema”, termine che nella Costituzione ha un significato preciso.
Un ordinamento tributario, buono o cattivo che sia, costituisce sempre un “sistema di vasi comunicanti”; quindi le eventuali incoerenze non solo determinano in alcune circostanze fratture con i principi; producono anche effetti a cascata indesiderati, non previsti dal legislatore.
Alla luce di queste premesse, cercherò di analizzare il rapporto tra la tendenza alla diminuzione costante dell’economia sommersa, che ha caratterizzato l’Italia fin dai primi anni dall’introduzione dell’Euro, rispetto alle politiche tributarie adottate in Italia, a partire dalla crisi del nostro debito sovrano nel 2011.
Un’azione motivata da obiettivi di contrasto all’evasione fiscale nelle attività minori, di lavoro autonomo e d’impresa con meno di 15 addetti, basata sulla moltiplicazione degli adempimenti burocratici. Affiancata dall’introduzione di sistemi derogatori del regime comune di applicazione dell’IVA europea (reverse charge, split payment, nelle diverse versioni), per contrastare l’evasione.
In realtà destinati ad aumentare il gettito, occultato con una serie di costruzioni complesse, basate su meccanismi di illusione finanziaria.
Una condizione frutto di scelte politiche poco meditate, disattente ai principi, che ha contribuito nel corso del tempo a dividere il mondo del lavoro nelle due macro aree dei tutelati e dei meno protetti. Con comprensibili riflessi sulla diffusione dell’economia sommersa, brodo di cultura dell’evasione fiscale, di cui cercherò di definire con minore genericità origini e confini.
Al riguardo basta ricordare che, al momento del fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008 il sommerso economico rappresentava in Italia secondo l’ISTAT, una cifra compresa tra un minimo del 16,3% e un massimo del 17,5%.
Un dato elevato, tuttavia non lontano dalle stime Eurostat dell’economia sommersa, relative alle principali economie europee, in cui la forbice nel 2008, oscillava tra l’11,2% della Francia e il 16,1% di Germania e Svezia.
Con riferimento a questa realtà, immediatamente precedente alla crisi finanziaria internazionale del 2008, esplosa con il fallimento della Lehman Brother, mi sembra utile ricordare che il professor Marco Fortis, docente di economia industriale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, uno dei maggiori esperti internazionali nel campo manifatturiero, aveva indicato che l’Italia, prima della crisi del 2008, su 4800 tipologie manifatturiere, risultava al 1°, al 2°, o al 3° posto in 521 settori pari al 12%.
Un anno dopo, in un’audizione presso la Commissione “attività produttive, commercio e turismo” della Camera dei deputati, nella seduta del 25 novembre 2009, aveva fornito una serie di dati che smentivano la tesi del declino dell’Italia nel commercio internazionale. Sottolineava in particolare che il carattere reale dell’economia italiana, poco impegnata nel settore della finanza, aveva resistito alla crisi molto meglio di altre economie come quella statunitense, inglese e irlandese, ben più esposte sul piano finanziario; ricordando che nel decennio precedente l’economia cinese era passata dal’ 1% al 10% della quota di commercio internazionale.
In questo frangente l’economia italiana era quella che aveva resistito meglio registrando prima dello scoppio della crisi del 2008, con 68 miliardi di euro, il maggior surplus della propria bilancia commerciale di ogni tempo. In ogni caso la contrazione delle esportazioni italiane tra l’ottobre 2008 e il novembre 2009 era stata di molto inferiore a quella tedesca; mentre la produzione industriale era ripartita già nel terzo trimestre del 2019, primi in Europa!
Su alcuni aspetti dell’audizione del Prof. Fortis, ritornerò più avanti in quanto rivelatrici di una tendenziale osmosi tra la programmazione fiscale delle imprese, e gli effetti sul terreno della competitività internazionale della manifattura italiana, evidenziata da Fortis.
Dieci anni dopo, nel 2018, in base alle rilevazioni dell’Istat pubblicate alla fine del 2019, il sommerso economico, in lenta ma continua contrazione, costituiva il 10,8% del Pil, al netto dell’economia criminale, stabile intorno all’1,1%, nell’ultimo decennio.
Occorre quindi prendere atto del tendenziale allineamento quantitativo del sommerso italiano a quello delle principali economie dell’UE, spinto dall’introduzione dell’Euro e dalle trasformazioni dei sistemi economici, in seguito alla crisi finanziaria internazionale del 2008.
Certo, esistono anche differenze qualitative, legate alle peculiari caratteristiche socioeconomiche dei diversi Stati dell’UE, che possono determinare variazioni settoriali del sommerso economico, di tipo quantitativo. Tuttavia, siamo in presenza di variabili che, specie nelle economie maggiormente integrate dell’Eurozona (che coincidono con i sei Paesi fondatori della CEE, nel 1957), non sono certo in grado di ribaltare il dato quantitativo.
In ogni caso i profili quantitativi dell’economia sommersa rappresentano uno soltanto degli aspetti di un’indagine che non si limiti a definire in modo corretto la dimensione del fenomeno “evasione”, ma ne indichi le aree di maggiore diffusione, alla luce delle caratteristiche strutturali e distributive del sistema tributario e della sua evoluzione, nell’arco di tempo che va dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008, ai giorni nostri.
Un periodo travagliato, specie per l’Italia, che per essere compreso deve essere collocato nel processo di riforme costituenti che hanno caratterizzato l’UE nell’arco di un trentennio, a partire dall’introduzione dell’Euro e dalla nascita dell’Unione monetaria.
In senso opposto, gli squilibri prodotti dalla crisi innescata dalla pandemia da Covid-19, con i loro effetti a cascata, hanno investito direttamente i cittadini europei, non risparmiando nessun Paese dell’UE. A queste criticità la Commissione europea presieduta da Ursula Von der Leyen ha risposto dando avvio ad una nuova fase di riforme costituenti, finalizzate al rilancio della costruzione europea. A partire dall’istituzione di un piano straordinario di investimenti, finanziato dall’UE con l’emissione di debito comune, che ha coinvolto tutti gli Stati membri dell’Unione, finalizzato a modernizzarne le strutture amministrative e infrastrutturali.
2.
Il forte ridimensionamento dell’economia sommersa nel nostro Paese, nell’arco di un decennio, a partire dalla crisi finanziaria internazionale del 2008 (gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2021), consente di rimettere in discussione alcune certezze sulla “enorme evasione fiscale” italiana. Le ragioni di questa affermazione sono diverse, tra loro complementari.
Per esigenza di sintesi mi soffermo brevemente su quelle che mi sembrano le due maggiormente significative. La prima si riferisce agli effetti della crisi finanziaria internazionale del 2008, che aveva determinato nel 2009 un brusco calo del Pil, pari a -5,1% su base annua (-6,2% in Germania). Sui profili tributari di quella crisi, avvolti dalla nebbia prodotta dal blocco dell’attività economica mi soffermerò diffusamente nella seconda parte del lavoro.
In Italia gli effetti della crisi finanziaria, trasferiti quasi immediatamente dal sistema bancario all’economia reale, erano stati tenuti sotto controllo dal D.L. n.155, adottato dal Governo Berlusconi, d’intesa con la Banca d’Italia (il Governatore era Draghi), il 9 ottobre 2008, e dalla Legge di conversione n. 190 del 4 dicembre.
Le misure d’urgenza, a sostegno del sistema bancario e del risparmio, si basavano sulla garanzia dello Stato a favore dei depositanti per un triennio e sull’impegno dello Stato, fino al 31 dicembre del 2009, a ricapitalizzare direttamente o a garantire la ricapitalizzazione delle banche che ne avessero la necessità, per effetto della crisi. L’intervento aveva messo in sicurezza il nostro sistema bancario, garantendo la continuità del credito al sistema delle imprese. Una condizione che aveva consentito all’economia italiana, sulla spinta della ripresa delle esportazioni, di ripartire fin dal terzo trimestre del 2009, per primi in Europa.
Nel 2010 il Pil italiano aveva registrato una crescita di +1,5%, particolarmente significativa in quanto non drogata dalla spesa pubblica, salvo un forte incremento dell’impiego degli ammortizzatori sociali, estesi alle realtà di minori dimensioni, in precedenza escluse, per consentire alle imprese di superare il blocco dell’attività, nei primi mesi del 2009. Un intervento indispensabile per garantire la tenuta economico- sociale del sistema, salvaguardando la capacità produttiva delle imprese, anche di piccola dimensione.
Una condizione che non si sarebbe ripetuta nel 2011, con gli attacchi speculativi al debito sovrano italiano e la conseguente crisi politica, risolta frettolosamente evitando le elezioni, con la nascita di un esecutivo tecnico presieduto dal prof. Monti.
Una soluzione discutibile, i cui effetti sull’economia italiana proseguiranno oltre la caduta del governo Monti e le elezioni politiche del 2013.
Gli eccessi della stretta fiscale che il governo Monti aveva determinato, sia sul versante della spesa pubblica (la riforma Fornero del sistema pensionistico, approvata in fretta e furia, che aveva fatto emergere negli anni successivi il fenomeno degli esodati, con costi aggiuntivi non previsti per molti miliardi), sia su quello tributario, fortemente regressivi, avevano prodotto un colpo di freno molto superiore a quanto previsto, su tutta l’economia italiana.
Un insieme di criticità che aveva innescato una spirale recessiva-depressiva, meno intensa di quella del 2009, di durata 6 volte maggiore che si sarebbe protratta per 37 mesi, fino alle soglie del 2015. Il cui lascito più rilevante, per quel che qui interessa, è stato una riduzione della capacità produttiva del settore manifatturiero vicina in media al 25%, con punte drammaticamente più elevate nel settore dell’auto, e un salto indietro del reddito pro-capite, ai livelli della metà degli anni ’90 del secolo scorso.
Che in questo scenario recessivo, dominato da un fisco impegnato a produrre sempre nuovi adempimenti, inutilmente onerosi, amplificato da una stretta generalizzata del credito, che aveva travolto, in un arco di tempo ristretto, decine di migliaia di imprese, l’economia sommersa, notoriamente la più fragile, sia stata la prima ad essere investita dall’onda lunga della recessione, non deve sorprendere.
Di qui, anticipando quanto cercherò di dimostrare più avanti, la convinzione che le stime di una evasione che sfiora i 110 miliardi di euro, sostenuta dal MEF per esigenze politiche, rivista al rialzo a 120 miliardi dal Vice-ministro dell’economia Misiani nel governo Draghi, o altre che circolano, ancora più elevate, siano irrealistiche e si scontrino con quanto documentato sul punto dall’ISTAT.
Nota: indico di seguito i titoli di alcuni interventi del prof. Marco Fortis pubblicati su Il Sole 24 ore, relativi agli argomenti dei primi due paragrafi:
23/02/23, “La trasformazione vincente (e non letta) della manifattura”.
Iniziare a leggere i dati in maniera più appropriata: così l’Italia resa in modo più realistico;
18/01/23, “Industria 4.0 ha rilanciato la ripresa del Pil italiano, ridimensionarla è un errore”
10/11/22, Pil, le ragioni dell’inattesa crescita italiana nel terzo trimestre 2022.
Sono finalmente disponibili i dati disaggregati sul Pil del terzo trimestre 2022 per tutti i quattro maggiori Paesi dell’Eurozona. E la “sorpresa Italia” appare ancor più ragguardevole di quanto non fosse già emerso dalle stime preliminari.
26/08/22, Perché solo i governi liberali e riformisti riescono a ridurre le tasse.
Nella storia del nuovo secolo non è mai accaduto che governi di centro-destra o esecutivi con una importante quota di partiti di centro-destra della compagine di maggioranza, siano riusciti a ridurre il tax rate
05/08/22, Quanto è cresciuta l’Italia durante il governo Draghi?
Si tratta del più ampio incremento registrato tra i grandi Paesi peri quali sono disponibili i dati del Pil del secondo trimestre 2022;
16/01/22, “Crescita, così l’Italia batte Germania, Francia e Spagna grazie agli incentivi”.
Nella fase di uscita dal picco del Covid-19, a inizio 2021, non c’era nessuno disposto a scommettere che il nostro Paese avrebbe recuperato tanto rapidamente la pesante caduta del Pil del 2020;
3.
A) La riforma fiscale del 1996-97
Il Prof. Vincenzo Visco, ordinario di Scienza delle Finanze nell’Università di Pisa, eletto in Parlamento negli anni ’70 nelle file della sinistra indipendente, aveva rappresentato in quegli anni l’elemento di collegamento tra il PCI, principale partito di opposizione e il mondo economico, di cui l’on. Bruno Visentini, deputato del partito repubblicano, più volte Ministro, proprio per la collocazione politica, costituiva la più significativa espressione.
Per l’attività svolta in ruoli diversi (docente universitario, parlamentare, più volte ministro) per oltre un quarantennio, si può affermare che il prof. Visco abbia rappresentato la personalità più influente nella politica tributaria italiana degli ultimi 40 anni.
Questa affermazione ha trovato un puntuale riscontro nella riforma dell’IRPEF, introdotta dall’ on. Visco, Ministro delle finanze nel I° Governo Prodi, qualificata da una revisione della progressività molto significativa, a partire dai redditi più elevati. Tema che aveva affrontato venti anni prima in un Convegno organizzato dall’Ateneo Pisano, proprio su questo argomento.
La riforma dell’Irpef introdotta nel 1997 ruotava intorno a due cardini: il primo era rappresentato dalla riduzione di 10 punti dell’aliquota massima, dal 55% al 45%; il secondo si basava sull’innalzamento dell’aliquota del primo scaglione dal 10% al 19%. L’aumento dell’imposta a carico dei contribuenti rientranti nel primo scaglione era stato compensato dall’aumento delle detrazioni personali e per carichi familiari. Il nuovo schema di detrazioni era più generoso con i redditi da lavoro dipendente, che beneficiavano degli assegni familiari, rispetto ai redditi da lavoro autonomo e d’ impresa individuale che usufruivano di minori detrazioni e non avevano diritto agli assegni familiari.
La riforma fu ben accolta perché tutti i contribuenti risparmiavano qualcosa; tuttavia aveva determinato un ulteriore ampliamento della forbice delle discriminazioni qualitative tra le diverse categorie di redditi da lavoro, rispetto alla situazione preesistente, motivato dalla forte evasione diffusa nelle attività di lavoro autonomo e d’impresa individuale.
Un elemento di riequilibrio ritenuto propedeutico al quadro di stabilità necessario per presentarsi con le carte in regola all’appuntamento ormai prossimo del passaggio dalla lira all’euro. Una soluzione basata su dati reali, di dubbia legittimità nella scelta dei mezzi adottati per contenerla.
L’aumento delle discriminazioni qualitative andava in senso opposto rispetto alla giurisprudenza costituzionale che con la sentenza n. 42 del 1980 aveva fissato il principio dell’illegittimità rispetto alle diverse tipologie di redditi da lavoro. Tuttavia questa situazione non peggiorava nel corso del tempo in quanto le detrazioni e gli scaglioni erano stati indicizzati per iniziativa del partito liberale tornato al governo alla fine degli anni ’70.
L’altra novità importante era costituita dall’introduzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, l’Irap; su questa innovazione il mio giudizio è stato fin dall’inizio decisamente negativo; e l’esperienza non mi ha fatto cambiare idea, anzi.
L’imposta regionale sulle attività produttive, era stata introdotta sia per assicurare alle Regioni una significativa autonomia tributaria, sia per sostituire i contributi sanitari, fortemente regressivi. Sotto il profilo tributario l’Irap è un’imposta sul valore aggiunto calcolata su basi fisiche anziché finanziarie, come avviene nell’Iva. Ne rappresenta sul piano economico una duplicazione, anche se con effetti in parte diversi.
Salvata dalla Corte di Giustizia dell’UE nel 2006 con modalità a dir poco fortunose, per l’interesse della Francia alla ammissibilità della convivenza tra il sistema comune dell’Iva europea e una seconda imposta sul valore aggiunto basata su un diverso schema di determinazione dell’imposta.
Opportunità effettivamente utilizzata nel 2009 per sostituire la taxe professionelle, una delle quattro vecchie imposte ereditate dalla rivoluzione, con un’imposta sul valore aggiunto economico caratterizzata da un’ampia esenzione (500mila euro) e da un’aliquota caratterizzata da una progressività continua che arriva (al 1,5% su una base imponibile di 50 milioni di euro).
In buona sostanza con le riforme del 1996/97, da un lato il Vice Ministro Visco aveva legato alla propria politica tributaria e dunque al PDS, di cui era un autorevole esponente, l’establishment, rappresentato dagli alti redditi da lavoro dipendente (magistrati, dirigenti delle amministrazioni, private e pubbliche, opinionisti dell’informazione, professionisti caratterizzati da elevati redditi personali). Dall’altro aveva strappato il consenso del gruppo dirigente della Confindustria all’introduzione dell’IRAP, uno schema pensato per superare il divieto di discriminazioni qualitative dei redditi da lavoro, stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 42 del 1980, e mai risolto.
La motivazione addotta era che il costo della nuova imposta sarebbe rimasto prevalentemente a carico delle attività di lavoro autonomo, all’epoca caratterizzate da un’evasione diffusa, di dimensione particolarmente elevata, alle quali la riforma avrebbe trasferito maggiori imposte per 7000 miliardi di lire.
Il risultato finale fu molto diverso, perché la riduzione di 10 punti dell’aliquota massima a favore del lavoro dipendente, non ebbe alcun effetto pratico per i redditi da lavoro autonomo, per i quali la riforma aveva comportato una riduzione dell’IRPEF netta, inferiore a quella riconosciuta al lavoro dipendente.
Dal canto suo la nuova imposta, IRAP, era molto più onerosa rispetto ai contributi sanitari che andava a sostituire, a carico del lavoro autonomo, con il risultato di un forte aumento dell’evasione.
In ogni caso la nuova imposta era illegittima per eccesso di delega; il legislatore delegante aveva stabilito un’aliquota ridotta per i redditi da lavoro autonomo, in quanto analoghi sotto il profilo qualitativo ai redditi da lavoro dipendente, non soggetti all’Irap di cui il governo, in esecuzione della delega non aveva tenuto conto. Un aspetto quest’ultimo mai sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, per i noti limiti del sindacato incidentale.
Quando ho svolto questa relazione sul rapporto tra evasione ed economia sommersa, al Convegno di “Spring in Naples” nel giugno 2020 gli ultimi dati disponibili sull’economia sommersa si riferivano al 2018. Una condizione radicalmente diversa, rispetto a quella in cui aveva operato il Ministro delle finanze Visco, 25 anni prima, che non consente alcun parallelismo in tema di evasione, rispetto alla situazione attuale, la cui evoluzione è analizzata analiticamente dall’Istat a partire dall’introduzione dell’Euro.
Questo saggio pubblicato all’inizio del 2003, in base ai dati resi disponibili dall’Istat, relativi al 2022, rappresenta un approfondimento dei temi svolti in quella relazione.
B) La Legge delega n. 80/2003 e la riforma Berlusconi del 2004/05
Il Presidente Berlusconi, vincitore delle elezioni politiche nel 2001, aveva, con la Legge n. 80 del 2003, ottenuto dal Parlamento, un’ampia delega a riformare il Sistema tributario dello Stato, per adeguarlo alle nuove esigenze di competitività imposte dall’adesione all’Euro.
Una riforma, che a consuntivo, aveva ridotto di 18 miliardi di Euro il peso dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, ribattezzata per l’occasione IRE, a beneficio soprattutto dei redditi familiari; aveva riformato l’intero sistema tributario statale, allineando, con l’introduzione dell’IRES, l’imposizione dei redditi d’impresa a quella delle economie avanzate; aveva inoltre programmato la graduale abolizione dell’Irap, un impegno mancato di difficile attuazione, per l’opposizione delle regioni.
Da ultimo aveva potenziato l’attività di accertamento, con l’aggiornamento degli studi di settore e la loro estensione alle imprese con un volume di affari fino a 5 milioni di Euro. La riforma era stata affiancata ad un ampio condono con l’obiettivo di favorirne l’avvio.
In seguito alla riforma del 2003, le entrate tributarie dello Stato erano aumentate di un punto di Pil nel 2005 e di +1,7 nel 2006. Un risultato particolarmente significativo, perché la crescita del Pil rilevata in quell’anno, era stata in assoluto la più elevata registrata fino ad oggi in Italia, dopo l’attentato delle Torri gemelle del 2001 a New York.
Punto di arrivo di un processo di riforma organico, che partendo dalla revisione degli studi di settore, aveva favorito l’emersione di base imponibile nelle principali imposte, dirette ed indirette, soggette a dichiarazione periodica.
Vale a dire proprio quelle maggiormente indiziate di evasione.
Con la riforma del 2003/05 l’aliquota del 23% (troppo elevata), stabilita per il primo scaglione fissato a 26.000 €, pur in assenza di modificazioni formali dello scaglione, in realtà poteva essere applicata a redditi significativamente più elevati, nel limite delle deduzioni a cui il contribuente aveva diritto.
In pratica per effetto del sistema di deduzioni introdotto con la riforma del 2003/2005, luogo delle detrazioni, i 2/3 dei contribuenti rientravano nel primo scaglione, erano assoggettati ad un’aliquota massima del 23% e ad un’aliquota media sensibilmente inferiore, in funzione delle deduzioni di cui ciascun contribuente aveva diritto.
Quello schema non risolveva completamente il problema della disparità di trattamento tra le famiglie monoreddito e quelle bi reddito, determinato dall’abolizione nel 1976 del cumulo dei redditi familiari, in seguito alla sentenza n. 179/1976 della Corte costituzionale. In attesa di una riforma organica della tassazione dei redditi familiari, ne limitava gli effetti alle famiglie con i redditi più elevati. Una condizione discutibile, che tuttavia nel breve periodo evidenziava, in base alla giurisprudenza della Consulta una illegittimità potenziale.
C) La contro-riforma Visco del 2006/07
Successivamente, tra il 2006 e il 2007, a seguito del cambio della maggioranza parlamentare, il II° governo Prodi aveva da un lato introdotto una serie di adempimenti a carico dei contribuenti, sottoposti a continue modifiche con i Decreti legge del luglio e dell’ottobre 2006 (produzione di norme a mezzo di norme), che aumentavano decisamente gli oneri amministrativi di gestione delle imposte. Dall’altro aveva rivalutato ulteriormente gli studi di settore, già sottoposti a revisione l’anno precedente dal governo Berlusconi.
A questi interventi di dubbia legittimità, quantomeno per effetto della retroattività della rivalutazione degli studi di settore, con la Legge finanziaria per il 2007 (un articolato di 1680 articoli, sottratto di fatto al controllo parlamentare) il Vice Ministro dell’economia on. Visco, titolare della politica tributaria, aveva affiancato la contro-riforma dell’IRE-IRPEF, entrata a regime, appena un anno prima.
Con la Legge finanziaria per il 2007 le deduzioni dall’imponibile, introdotte dalla riforma del 2003, decrescenti per contribuire ad assicurare la progressività del sistema tributario, erano state sostituite da detrazioni d’imposta, in tutto analoghe a quelle stabilite dalla riforma del 1972, tranne che per un particolare: di essere anch’esse decrescenti.
Un modello privo di trasparenza, di dubbia legittimità costituzionale che, di fatto nascondeva, facendo ampio uso di strumenti di illusione finanziaria, un incremento dell’aliquota formale, pari al tasso di decrescenza delle detrazioni. (3% per la no tax area e 1% per gli oneri familiari).
Completava il quadro della contro-riforma Visco la riduzione del primo scaglione da 26.000 a 15.000 €.
Il mantra che aveva accompagnato la parte relativa al fisco della legge finanziaria 2007, ripreso da gran parte della stampa di informazione, era stato quello di ridurre i benefici a favore dei redditi più elevati, introdotti dal governo Berlusconi con la riforma del 2003. Basta consultare i dati del gettito dell’Irpef tra il 2004 il 2006 pubblicati mensilmente dal MEF sul bollettino delle entrate tributarie, per rendersi conto che si tratta di affermazioni che non trovano alcun riscontro nella realtà.
Un’ affermazione suffragata dalla credibilità riconosciuta dall’establishment al prof. Visco che, nell’arco di un solo anno, si sarebbe scontrata con la realtà di una manovra fiscale dissennata, prima ancora che improvvisata, proprio per gli effetti che avrebbe prodotto dal punto di vista distributivo, nel giro di pochi anni.
Il fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008, e la crisi finanziaria internazionale che ne era seguita, aveva determinato un forte colpo di freno all’economia mondiale, specie nei Paesi più avanzati, con una previsione di crescita nel 2008 intorno allo zero.
In particolare il Centro studi della Confindustria, aveva indicato per il 2008 una crescita dello 0,5%, per le economie non direttamente coinvolte della crisi finanziaria, come quella tedesca, francese ed italiana.
Per l’Italia, purtroppo, quella previsione si rivelò irrealistica. Il 1° marzo 2009, l’Istat aveva indicato per l’Italia nel 2008 un calo del Pil dell’1,3% (-0,9 nelle regioni del Nord e del Centro, -1,6 in quelle del Mezzogiorno). Un dato scioccante, disallineato rispetto alle altre grandi economie europee, salvo il Regno Unito, che aveva trasmesso la crisi finanziaria dagli Stati Uniti al resto d’Europa.
In ogni caso un calo del Pil assai poco influenzato dalla crisi finanziaria, scoppiata alla fine del terzo trimestre del 2008; occorre considerare che la brusca recessione indotta dalla crisi finanziaria, aveva inciso nel 2009 soprattutto sull’esportazioni; ed è noto che all’epoca le esportazioni delle regioni del Mezzogiorno contribuivano alla produzione del Pil in una percentuale che era circa la metà della media nazionale.
Quindi la causa del crollo del Pil del 2008 andava ricercata altrove, negli effetti di trascinamento prodotti dalla legge finanziaria per il 2007, che aveva previsto un ulteriore crescita delle entrate tributarie pari allo 0,6% del Pil, ed una contrazione stimata di quest’ultimo del -0,2% rispetto alla crescita tendenziale.
In realtà l’aumento delle entrate tributarie (e contributive a carico dei lavoratori dipendenti) risultò più che doppio, +1,25% rispetto al Pil, con un calo, concentrato nell’ultimo trimestre del 2007, del -0,5%%, che avrebbe ridotto all’1,5%, la crescita, stimata dall’ISTAT nei primi tre trimestri di quell’anno, al 2%.
Nel 2008, l’effetto di trascinamento della controriforma dell’Irpef dell’anno precedente aveva determinato un aumento del gettito di 11, 2 miliardi, per la sinergia negativa prodotta dalla riduzione dell’ampiezza dei primi due scaglioni e dal l’aumento delle relative aliquote, rispetto all’ IRE-IRPEF del 2006.
In buona sostanza il crollo del tutto imprevisto del Pil nel 2008, era stato determinato solo in misura marginale dal rallentamento dell’economia mondiale nel secondo semestre; mentre i dati territoriali indicavano il ruolo determinante svolto dalla politica tributaria, avviata con i Decreti legge del luglio e dell’ottobre 2006 e con la Legge finanziaria per il 2007 (II° Governo Prodi, Ministro dell’Economia Padoa Schioppa, Vice ministro on. Visco con delega alla politica tributaria).
D) Il ruolo svolto dal Ministro dell’economia on. Tremonti tra il 2001 e il 2009
Nell’estate del 2001 dopo la vittoria elettorale e la formazione di un nuovo governo presieduto dall’on. Berlusconi, l’on. Tremonti tornato alla guida del Ministero dell’Economia, aveva denunziato gli effetti distorsivi della “dual income tax” introdotta dal Ministro delle Finanze on. Visco con la Legge finanziaria per il 1997. Uno schema agevolato di tassazione del reddito d’impresa nelle società di capitali, sperimentato in Svezia.
In effetti lo schema adottato aveva concentrato su cinque grandi gruppi, sconti fiscali nell’ IRPEG per 12.000 miliardi di lire, su un totale di oltre 18.200. Il ministro Tremonti aveva dimezzato da subito il coefficiente agevolativo; abrogando la “dual income tax”, l’anno successivo.
Nel 2008 il PDL, nato dalla fusione di Forza Italia con la Lega Nord, aveva vinto le elezioni anticipate e l’on. Tremonti era tornato al governo nel ruolo centrale di Ministro dell’economia, in quota Forza Italia.
Il Ministro Tremonti, impegnato ad attuare il federalismo fiscale, sulla spinta degli interessi economici espressi dalla Lega Nord, tema che incontrava comprensibili resistenze in Forza Italia, anziché reintrodurre lo schema di IRE - IRPEF stabilito dal Governo Berlusconi in attuazione della Legge delega n. 80/2003, aveva deciso di dare un segnale immediato agli elettori, eliminando l’Ici sulla prima casa. Decisione gradita all’on. Berlusconi.
L’ICI, infatti era un’imposta particolarmente impopolare, la cui abrogazione era stata promessa dal Presidente Berlusconi nel confronto conclusivo della campagna elettorale del 2006, con il leader dell’Ulivo, Romano Prodi.
Il crollo del Pil nella prima metà del 2009 (-5,1% su base annua), aveva favorito l’occultamento della componente fiscale nel calo del Pil nel 2008 (-1,3%), alimentato dagli effetti di trascinamento della controriforma dell’IRPEF del 2006/07.
Ma, a prescindere da questa situazione opaca, a mio avviso la scelta di Tremonti fu determinata fin dall’inizio dalla volontà di mantenere in vita la nuova IRPEF, introdotta da Visco con la Legge finanziaria 2007, per acquisire un credito nei confronti del PD, unico beneficiario di quella controriforma, in vista della approvazione della Legge delega n. 42/2009 sul federalismo fiscale.
Basta soffermarsi sul meccanismo introdotto per svuotare di contenuto le norme attuative della perequazione della diversa capacità fiscale per abitante dei territori, stabilita dall’art. 119 Cost., 3° comma, di stretta interpretazione in quanto norma di tenuta del sistema, per rendersi conto dell’attendibilità di questa ricostruzione.
La lettura qui richiamata della contro-riforma Visco del 2006/07, era stata a quei tempi oggetto di un mio studio, pubblicato sul questa Rivista, che ne aveva messo in evidenza le criticità. Ma il bandolo della matassa era nelle mani del Ministro dell’economia, attento ad escludere dalla Commissione tecnica per l’attuazione del federalismo fiscale (Legge delega n.42/2009) qualsiasi professore di diritto tributario indicato dalle Regioni del Mezzogiorno esperto della materia.
E) Nota a margine delle riforme fiscali tra il 2006 e il 2019
Nelle note illustrative finali del Report su “Economia non osservata nei conti nazionali (anni 2016-2019) a cura dell’ISTAT, viene riportato quanto segue.
“Al fine di cogliere la tendenza di medio periodo del sommerso economico, se ne presenta un’analisi in serie storica (2011-2019), anche in relazione all’evoluzione delle misure di contrasto all’evasione (introduzione dell’Indice sintetico di affidabilità, ISA, in sostituzione degli Studi di settore, e uso più estensivo della fatturazione elettronica) e alla revisione dei regimi fiscali riguardanti principalmente le piccole imprese e i professionisti” (ad esempio, la modifica, di fatto la riduzione della platea dei forfettari).
Queste indicazioni non anticipano alcuna valutazione di tipo statistico; la presentazione dei dati in serie storica (2011-2019) offerta dall’Istat nel Report serve a facilitare l’indagine sugli effetti delle misure antievasione adottate dai Governi che si sono succeduti in quegli anni (dall’ultimo governo Berlusconi ai governi Conte 1° e Conte 2°).
È ipotizzabile che la decisione dell’ISTAT di dare conto delle misure richiamate in precedenza sia stata motivata dall’autorevolezza del proponente delle misure antievasione, il prof. Vincenzo Visco, Presidente del centro studi NENS (Nuova economia, nuova società) parlamentare dagli anni ’70 del ’900, più volte Ministro.
Anticipando quanto emerge dagli elementi statistici indicati nel Report, che verranno approfonditi nel paragrafo 6, si può affermare che dalla lettura dei Rapporti Istat, 2011/2019, sulla base dei dati statistici offerti, non emerge alcun elemento che consenta di sostenere che le misure antievasione indicate dal NENS abbiano condotto, neppure indirettamente alla sua riduzione. Procediamo con ordine.
Prima questione da chiarire:
L’introduzione della fattura elettronica è stata decisa con molti anni d’anticipo per contrastare le “frodi carosello” nelle vendite intracomunitarie. La decisione di introdurre è stata prevista con ampio anticipo perché la natura elettronica comporta l’immediata corresponsione dell’IVA, in tutte le operazioni imponibili dell’insieme degli Stati membri dell’Unione europea.
In Italia la sua applicazione generalizzata è stata decisa dal 1° gennaio 2019, essenzialmente come strumento di controllo all’evasione, ma di questo non vi è alcuna evidenza.
L’aumento del gettito nella prima fase di introduzione in Italia della fattura elettronica, generalizzata a partire dal 2019 è legato al fatto che la nuova metodologia di emissione delle fatture digitali, comporta la contestuale corresponsione dell’Iva. Al contrario, con l’emissione della fattura cartacea i termini per il versamento potevano slittare anche di molti mesi.
In buona sostanza chi era in condizione di non emettere fattura, prima dell’introduzione di quell’elettronica aveva continuato a farlo; attribuire l’incremento del gettito alla riduzione dell’evasione è un’evidente mancanza di rispetto per l’intelligenza dei contribuenti. Piuttosto è ipotizzabile che l’introduzione generalizzata della fattura elettronica in Italia con quattro anni di anticipo rispetto al 2023, quando diventerà obbligatoria in tutta l’EU, abbia indotto una parte dei contribuenti marginali più anziani (lavoratori autonomi ed imprese individuali), ad anticipare l’uscita dal mercato regolare chiudendo la partita Iva, continuando a lavorare al nero (una condizione che evidenzia un aumento, non una riduzione una riduzione dell’equazione).
Posto che la fatturazione elettronica per le operazioni imponibili ai fini Iva sul mercato interno non rappresenta una misura di contrasto all’evasione, avendola adottata con quattro anni di anticipo, emerge chiaramente che il legislatore, “per ragioni di immagine,” ha imposto ai soli contribuenti italiani un aumento del costo di gestione dell’Iva, in contrasto con il principio di neutralità dell’imposta che ha rappresentato fin dall’origine, una ragione determinante per la sua adozione nei sei Paesi fondatori della CEE, all’inizio degli anni ’70 del ’900.
In buona sostanza si può affermare che l’introduzione della fattura elettronica non va confusa con le altre misure antievasione introdotte tra il 2014 e il 2017, trovando la propria fonte nel peso del fisco, inversamente proporzionale rispetto alle dimensioni delle imprese, indi insostenibile per le attività minori e minime.
Queste ultime infatti erano strette nella morsa della crescita esponenziale dei costi di gestione degli adempimenti, e dalla lievitazione degli oneri contributivi e fiscali che gravitano sulle attività minori, al di sotto dei 15 dipendenti, che non possono usufruire dell’aliquota ridotta del 10% stabilita per i premi alla produttività.
Una condizione di disparità strutturale nell’imposizione dei redditi, a cui occorre aggiungere un ulteriore effetto di cumulo, determinato dal protrarsi delle condizioni di svantaggio fiscale nel corso del tempo rispetto agli altri Stati membri dell’UE per l’introduzione generalizzata della fatturazione elettronica dell’Iva, con quattro anni di anticipo rispetto agli altri Stati membri dell’unione europea.
La sostituzione degli studi di settore con gli ISA, richiamato dall’Istat è questione del tutto diversa. Non avendo avuto successo il tentativo, avviato dal Vice Ministro delle finanze on. Visco, con la contro-riforma dell’IRE-IRPEF del 2007, di trasformare gli studi in un catasto anomalo dei redditi, per l’opposizione della tradizionalmente prudente Corte di Cassazione, l’Agenzia delle entrate si era inventata gli ISA (indici sintetici di affidabilità). Un’operazione quanto meno discutibile, in cui l’aggettivo “sintetico” ne evidenzia l’assenza di trasparenza rispetto alla platea dei contribuenti, difficile da far rientrare nel concetto di buon andamento della PA, pietra d’angolo dell’art. 97 Cost.
F) L’evoluzione della finanza pubblica nel periodo 2011/2015, nel rapporto della Corte dei conti, Sezioni Unite del maggio 2015
Il rapporto si snoda lungo 226 pagine ed analizza l’evoluzione della finanza pubblica italiana tra il 2011 e il 2015, nel contesto europeo. In questa sezione ci soffermeremo sulle azioni intraprese dal governo italiano per consolidare la ripresa, alla fine del 2014.
Lo studio è di particolare interesse. Offre infatti una serie di indicazioni sulla lunga fase depressiva-recessiva durata 37 mesi, dalla stretta fiscale decisa dal governo Monti nel dicembre 2011, alle misure espansive adottate dal governo Renzi nel quarto trimestre 2014 ai primi segnali di ripresa, per consolidarla.
Gli aspetti di rilievo, analizzati nel contesto europeo sono numerosi, investono l’insieme delle politiche pubbliche e ne evidenziano le ricadute economiche e sociali. In buona sostanza un’immagine del presente, utile per affrontare le numerose criticità che ci accompagnano da ¼ di secolo.
Il passaggio al nuovo schema contabile SEC 2010, a partire dal 2014 ha reso non immediatamente confrontabili i dati rilevati, con quelli del triennio precedente. Le indicazioni richiamate nel testo mettono in evidenza i limiti del processo di federalismo italiano, avviato con la riforma del Titolo V° della Costituzione, tra il 2002 e il 2021.
La riforma aveva lo scopo di dare una copertura costituzionale al federalismo amministrativo, introdotto con la Legge Bassanini n. 400 nel 1994, basato sull’adozione generalizzata del principio di sussidiarietà, inteso esclusivamente in senso discendente. Una scelta ideologica discutibile, che avrebbe influenzato negativamente la prima applicazione della riforma del Titolo V° della Costituzione: a partire da una competenza residuale esclusiva delle regioni che non trova alcun appiglio nel testo riformato.
Basta una lettura volo d’uccello dell’articolato per rendersi conto che siamo di fronte a un’altra radiologica; a partire dal numero incredibile di funzioni attribuite o attribuibili attraverso l’applicazione dell’articolo 116 sull’autonomia differenziata per rendersi conto che lo Stato veniva privato di strumenti essenziali per l’applicazione di principi fondamentali fissati nella prima parte della Costituzione, a partire dai fondamentali articoli 2e 3.
La Corte costituzionale era comunque intervenuta prontamente a rimettere ordine nella materia con la sentenza n. 303/2003 (Presidente Chieppa - relatore ed estensore Mezzanotte) che aveva offerto una lettura unitaria della riforma, introducendo il principio della sussidiarietà ascendente, a tutela degli “interessi unitari non frazionabili”, presenti nel sistema, tutelati dall’ordinamento.
Si pensi alle reti di trasporto di energia e a quelle che assicurano la mobilità delle persone e delle merci sul territorio nazionale, ma non solo.
In ogni caso lo Stato è tenuto ad assicurare la tutela unitaria degli interessi nelle materie, quali istruzione, sanità, previdenza, giustizia, ed altro ancora; cui corrispondono diritti fondamentali di cittadinanza, protetti dall’articolo 3 Cost.
In seguito all’approvazione della Legge costituzionale 30 aprile 2012, n. 1, che ha riformato in senso restrittivo l’articolo 81 della Costituzione, stabilendo che l’autonomia tributaria delle Regioni e degli Enti locali, si esercita all’interno dei limiti prefissati di volta in volta da leggi dello Stato, in base al principio fondamentale dell’ordinamento, di “unità della finanza pubblica”, la questione sembra aver perso almeno in parte di attualità.
Tuttavia il condizionale è d’obbligo perché l’esperienza degli ultimi 12 anni ha evidenziato che un punto di equilibrio convincente non è stato ancora raggiunto, mentre la spinta all’aumento della spesa pubblica in periodi di crisi, spinge il sistema politico ad aggirare i vincoli imposti dalla riforma dell’articolo 81 della Costituzione.
Un esempio illuminante di questa ricorda di rispettare i vincoli imposti dalla Costituzione a garanzia della tutela dell’interesse collettivo, la Corte dei conti ricorda la vicenda dello: “spending review”; vale a dire della revisione delle agevolazioni avviata in quegli anni. Il risultato fu che a fronte di una riduzione delle agevolazioni per circa 40 miliardi di Euro, il risultato fu che al tirar delle somme le agevolazioni erano arrivate a 51 miliardi, con un incremento di 11 miliardi di euro.
Un altro tema in cui il rapporto della Corte dei Conti, Sezioni Unite, su “il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario negli anni della crisi” è particolarmente severo, riguarda la Legge delega n. 42/2009, che ha dato avvio al “federalismo fiscale” Nel mirino della Corte ricadono le norme che disciplinano la perequazione, di fatto svuotata di contenuto, come evidenziato in precedenza; in particolare la Corte lamenta l’assenza di una legge dello Stato che istituisca un fondo senza vincoli di azione per la perequazione della diversa capacità fiscale dei territori per abitante, in base a quanto stabilito dall’articolo 119, 3° comma, che ne costituisce il presupposto. Una norma vincolante, di stretta interpretazione a garanzia della tenuta del sistema.
Non si può nemmeno affermare che questa era una conseguenza inevitabile di un sistema basato di fatto sulla spesa storica. Con il trasferimento alle Regioni dell’insieme delle competenze in materia sanitaria, precedentemente attribuite a una pluralità di soggetti diversi, occorreva prevedere un modello di finanziamento capace di reggere fin dall’inizio; mentre il trascorrere del tempo ha messo in evidenza una inarrestabile moltiplicazione delle criticità e delle diseguaglianze.
Il rapporto della Corte dei conti esamina analiticamente l’evoluzione della spesa pubblica nei diversi settori in cui essa si articola, durante la più lunga fase depressiva-recessiva del dopoguerra, alla luce del diritto interno ed europeo.
Una sintesi di diversi aspetti del rapporto esula dei limiti di questo lavoro.
Mi limito quindi a richiamare le decisioni più significative adottate dal governo Renzi al primo segnale di ripresa dell’economia nel quarto trimestre del 2014.
La prima, la più innovativa, riguarda l’esclusione del costo del lavoro dall’IRAP. Dopo la sua istituzione nel 1997 diversi governi e la stessa Legge delega per la riforma del sistema murario dello Stato (Legge 80/2003) avevano previsto la graduale soppressione. L’eliminazione dell’IRAP riguardava soltanto le imprese individuali i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti di società di capitali con il bilancio in equilibrio; erano escluse invece le imprese familiari; quelle che per le loro caratteristiche strutturali lo richiederebbero più delle altre. A quest’ultime l’esclusione dall’Irap verrà decisa dal governo Draghi nel 2022.
In ogni caso il taglio dell’Irap era coerente con l’obiettivo di far uscire l’Italia dalla gabbia troppo stretta del “fiscal compact”. L’abbandono del fiscal compact, vale a dire l’obbligo stabilito dalla Commissione UE, per gli Stati membri in recessione con un elevato debito pubblico, di non superare il limite del 2,5% di disavanzo.
Il governo, dopo un approfondito studio macroeconomico che metteva in guardia dai rischi di una politica di bilancio troppo restrittiva, rispetto all’equilibrio di lungo periodo, aveva programmato la Legge di stabilità e il bilancio dello Stato per il 2025 con un tetto al disavanzo del 3%.
Questa decisione, che aveva avuto il via libera dalla Commissione UE, era stata apprezzata dalla Corte dei conti già all’atto della presentazione della Legge di stabilità per il 2025.
Un’altra decisione significativa per il rilancio dell’economia e consolidare la ripresa era stata l’introduzione dell’ammortamento al 140% degli investimenti in macchinari, effettuati dalle imprese nell’arco di un triennio.
L’altra misura, adottata nella primavera 2015, vale l’attribuzione di un bonus pari a 80 € al mese a tutti i lavoratori dipendenti con reddito annuale inferiore ai 26.000 €, mi era sembrata coraggiosa, tuttavia non esente da rischi. Era stata invece molto apprezzata nel rapporto della Corte dei conti, per la spinta che avrebbe apportato alla crescita del Pil nel 2015.
A consuntivo l’Istat aveva certificato nel marzo 2016 una crescita nell’anno precedente superiore alle previsioni del governo, confermando la validità della scelta di sostenere la ripresa aumentando il disavanzo da -2,5% al -3%.
Ammetto che quest’ultima decisione, mi aveva lasciato qualche dubbio, per la coincidenza con le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. All’epoca non ne avevo scritto, nella convinzione di non avere il diritto, prima ancora che gli elementi tecnici per formulare critiche rispetto a una decisione del governo, dopo la soluzione politica della crisi del debito sovrano italiano, che aveva portato alla nascita del governo Monti, nel dicembre 2011. Leggendo il rapporto della nostra magistratura contabile, né ho apprezzato l’equilibrio e la capacità di prevederne gli effetti positivi sul Pil della decisione del governo Renzi di abbandonare il “fiscal compact”, ai primi segnali di ripresa nel quarto trimestre 2014.
4.
A questo punto dobbiamo chiederci perché il conto sulla diffusa percezione di una “enorme evasione” italiana, distonica rispetto ai nostri principali partner europei, semplicemente non torna. Uno sguardo alla dinamica delle principali imposte nel 2019, rese note dall’ISTAT nel marzo 2020, offre qualche utile riflessione al riguardo.
Il blocco di ogni attività economica non essenziale, dal 9 marzo 2019, in seguito alla rapida diffusione dell’epidemia da Covid-19 nelle regioni del Nord, consente di avere a disposizione tutti i principali indicatori economici e fiscali del 2019, non deformati dalle conseguenze economiche di quella che di lì a poco si sarebbe trasformata in una pandemia diffusa nell’intero pianeta.
Rendono quindi possibile la comparazione con i dati degli anni precedenti, non condizionata dai primi effetti della pandemia, e dalle scelte operate dal Governo per affrontarla.
A) Il gettito delle principali imposte evidenzia una dinamica molto più elevata rispetto alla crescita del Pil a prezzi di mercato: “l’enorme evasione” che fine ha fatto?
Secondo quanto pubblicato dall’ISTAT il 1° marzo 2020, l’economia italiana nel 2019 era cresciuta dello 0,3% in termini reali e del 1,2% a prezzi di mercato. Nello stesso periodo, sempre secondo l’ISTAT, le entrate tributarie erano aumentate dell’1,7%, quindi di mezzo punto in più rispetto all’andamento del Pil. Un risultato non del tutto scontato in un’economia che nel 2019 era stata in recessione tecnica per due trimestri.
Se analizziamo nel dettaglio i dati relativi alle principali imposte, non mancano ulteriori sorprese. L’IRPEF, la principale imposta italiana, aveva registrato un gettito pari a 191,602 miliardi ed un incremento del 2,2% sul 2018.
All’interno di questa cifra le ritenute sui redditi da lavoro dipendente del settore privato crescevano del +3,3%; la medesima percentuale caratterizzava anche nelle retribuzioni del settore pubblico, nel quale rientrano anche i trattamenti pensionistici. Se a questa cifra aggiungiamo l’addizionale regionale e comunale, pari a 12,218 miliardi, il totale sfiora i 204 miliardi di euro.
Ma il conto non è ancora finito. Nel 2019 alla cosiddetta flat tax per le partite IVA, in realtà un regime forfettario con numerose criticità, su cui abbiamo richiamato l’attenzione in questo lavoro, occorre aggiungere altre 7 nuove imposte cedolari, che a vario titolo sottraggono base imponibile all’IRPEF. Un indirizzo politico contestato con argomenti ineccepibili dal prof. De Mita, per l’assenza di una puntuale motivazione che ne legittimi la deroga, alla luce del principio di capacità contributiva.
Una soluzione debole che non consente una valutazione comparativa del vantaggio che ogni esclusione dall’IRPEF distribuisce ai beneficiari di queste deroghe; e non permette quindi una valutazione ponderata dei benefici distribuiti. Molto più razionale ed equo sarebbe uno schema basato su deduzioni in percentuale dell’imponibile dell’IRPEF, che consentirebbe di ridurre l’imposta in situazioni che ne evidenzino l’esigenza per obiettivi di politica economica, mantenendo la riduzione dell’imposta netta all’interno e non al di fuori dell’imposta progressiva.
In controtendenza, le entrate relative alle ritenute sui redditi da lavoro autonomo e da impresa, assoggettati ad IRPEF, indicavano una contrazione di -1,276 miliardi, pari a -10,1%, determinata dall’introduzione, a partire dal 1° gennaio 2019, della cosiddetta flat tax per le partite IVA.
In realtà un regime forfettario frutto d’ improvvisazione, caratterizzato da motivazioni ideologiche, costruito su misura per le attività di lavoro autonomo, esteso alle imprese individuali senza alcuna differenziazione tra redditi di lavoro autonomo e di impresa, caratterizzati da indici di redditività e da modalità di calcolo del reddito netto, non comparabili.
Un modello d’imposizione sicuramente utile per semplificare il rapporto tra contribuenti e fisco e per invertire la tendenza alla fuga dalle attività individuali, contratte di oltre un quarto negli ultimi anni (1.550.000 partite IVA cancellate per effetto della crisi finanziaria internazionale del 2008, prima delle chiusure imposte dalla pandemia); esposto tuttavia a una serie di criticità, per le molte incertezze che lo hanno accompagnato fin dall’inizio, a partire dai limiti strutturali e dalle modalità di applicazione.
Da ultimo, difficilmente adattabile alle imprese familiari, quelle che avrebbero maggior bisogno di sostegno sul piano economico e sociale e d’innovazione in campo tributario.
Soprattutto uno schema non sufficientemente coordinato rispetto al regime generale dell’IRPEF, anch’esso caratterizzato da un inestricabile congerie di particolarismi, che ne hanno minato nel corso del tempo la credibilità, sotto il profilo della parità di trattamento, indi della tenuta dell’intero sistema.
Osservata da questo punto di vista, in un’ottica scevra da pregiudizi, è possibile affermare che la Flat tax per le partite IVA, introdotta dal primo governo Conte, ha avuto effetti positivi sotto il profilo della semplificazione dei rapporti tra il fisco e le partite IVA individuali, assoggettate all’IRPEF. Tuttavia ha sostanzialmente mancato l’obiettivo di armonizzare l’imposizione dei diversi redditi da lavoro non dipendente, in senso perequativo.
Interessante anche il dato relativo ai redditi d’impresa soggetti ad IRES, che nel 2019 ha registrato entrate pari a 33,555 miliardi, con un incremento del 2,7%, in un anno in cui l’economia italiana è stata per due trimestri in recessione tecnica. Un chiaro indice che i problemi dell’economia italiana non vanno affrontati soltanto dal lato dell’offerta (es. la produttività), ma sono condizionati da una domanda interna sempre più debole e dalla dinamica delle esportazioni, che dipende solo in parte da noi.
Del resto, proprio la crescita vorticosa delle esportazioni negli ultimi sette anni, sulla quale ritornerò più avanti, rappresenta accanto ai numerosi indizi offerti dall’Istat al riguardo, la prova del ridimensionamento crescente dell’evasione.
Si tratta infatti di attività sottoposte a controlli doganali sia in uscita, sia in entrata nel paese di destinazione: pensare che un sistema di imprese che ha visto crescere in pochi anni le esportazioni di oltre 300 miliardi di euro, con una stima per il 2021 intorno ai 500 miliardi sia fiscalmente corretta sul mercato internazionale ed evasore seriale sul mercato interno significa non avere la minima idea su come funzioni un sistema produttivo avanzato, in un’economia mondializzata.
Purtroppo non mancano le criticità. Il blocco quasi totale delle attività produttive in seguito alla pandemia, a partire dal marzo 2019, ha evidenziato una notevole carenza di investimenti (pubblici e privati) nelle imprese di maggiori dimensioni. D’altra parte il continuo incremento della spesa pubblica corrente per l’acquisto di beni e servizi e la crescita abnorme del peso dell’IRPEF, alimentata dalla moltiplicazione di norme di contrasto all’evasione, coperte da meccanismi d’illusione finanziaria, hanno frenato la ripresa dell’economia. Fungendo da moltiplicatore degli effetti recessivi prodotti dalla crisi finanziaria del 2008 e da quella politica del 2011.
Anche il dato dell’IRES conferma un aumento del gettito più che doppio rispetto alla crescita del Pil ai prezzi di mercato; un segnale che deve far riflettere in un’imposta proporzionale, non progressiva come l’IRPEF.
Sempre con riferimento alla tassazione dei redditi d’impresa, richiamo il dato relativo al gettito dell’IRAP applicata al settore privato, pari a 15,002 miliardi, con un incremento del +0,4% rispetto all’anno precedente. Unica, tra le grandi imposte, in linea con il rallentamento dell’economia internazionale, a partire dalla Germania, uno dei principali mercati di sbocco delle nostre esportazioni.
Quanto all’IVA, sfiora i 137 miliardi di incassi, è la seconda imposta per gettito, ed ha registrato nel 2019 una crescita delle entrate del 2,5%: il doppio dell’incremento del Pil a prezzi di mercato (+1,2%). Disaggregando i dati, emerge qualche altro elemento significativo. L’IVA interna (122,990 miliardi) che riguarda sia il mercato interno, sia gli scambi con tutti i paesi dell’UE (che costituiscono il Mercato unico), ha segnato nel 2019 un incremento del 3%.
In calo invece il gettito dell’IVA relativa alle importazioni extra UE (13,893 miliardi, -2,2%) in seguito al forte calo dei prodotti petroliferi e al rallentamento dell’economia internazionale.
Dalla lettura di questi numeri, che si riferiscono ad oltre il 90% del gettito complessivo delle entrate tributarie dello Stato nel 2019, emerge un dato incontrovertibile: nonostante una presunta “enorme evasione”, il gettito delle principali imposte cresce ad un tasso medio che è almeno il doppio, o più, rispetto alla crescita del Pil a prezzi di mercato (+1,2%). Numeri che non presentano margini di interpretazione ed evidenziano l’utilizzo strumentale del tema dell’evasione, che, da questione di tecnica tributaria, viene trasformato in strumento di lotta politica.
B) Qualche approfondimento ulteriore
Di qui possiamo indicare due argomenti di riflessione. Il primo è il prodotto del ritorno al sistema di detrazioni d’imposta, introdotto per la prima volta con la riforma fiscale del 1971. Questo schema era stato superato dalla riforma dell’IRPEF del 2003/05, che aveva sostituito le detrazioni d’imposta e l’ampiezza degli scaglioni, indicizzati dalla fine degli anni ’70 per tenere conto dell’inflazione, con deduzioni dall’imponibile non indicizzate.
La contro-riforma dell’IRE-IRPEF (riformata appena un anno prima), stabilita dal 2° governo Prodi (Ministro dell’economia Padoa-Schioppa, Vice Ministro con delega alla politica fiscale on. Visco), con la Legge finanziaria per il 2007, aveva due peculiarità:
a) la reintroduzione di detrazioni d’imposta in sostituzione delle deduzioni dall’imponibile, caratteristiche della riforma Berlusconi;
b) la natura decrescente delle detrazioni, che comportava una maggiorazione dell’aliquota pari al tasso di riduzione delle detrazioni fino al loro esaurimento.
Il cumulo di queste due caratteristiche strutturali, introdotte con la Legge finanziaria per il 2007, in contrasto tra loro e mai corrette, (un classico esempio di illusione finanziaria, di difficile percezione), ha impoverito i ceti medi, ha soffocato la crescita ed ha incentivato, quando sussistono le condizioni, l’evasione fiscale.
Il secondo elemento di riflessione è evidenziato dal ridimensionamento dell’economia sommersa nel corso del tempo, e trova conferma nella cancellazione di 1.550.000 partite IVA (lavoratori autonomi ed imprese individuali) negli ultimi anni, fino allo scoppio della pandemia; quest’ultima ne ha fatte sparire altre 830.000.
E’ vero che i primi tre trimestri del 2021 hanno evidenziato una significativa dinamica nella nascita di nuove imprese e un aumento ancora più interessante dell’occupazione; ma si tratta di due fenomeni del tutto diversi.
Le partite IVA cancellate appartengono, nella maggior parte dei casi ad imprese piccole e piccolissime, che avendo meno di 15 dipendenti (il 60% dell’occupazione nel settore privato), non possono, in base alla legislazione vigente, avere una RSA e quindi non hanno accesso alla tassazione agevolata della produttività (al 10%).
Per quelle di maggiori dimensioni, da 20 fino a un centinaio di dipendenti o più, la situazione è non solo diversa ma più complessa; alcune hanno cominciato ad investire in seguito alla forte rivalutazione dell’Euro rispetto al dollaro subito dopo lo shock provocato dall’attentato delle torri gemelle a New York; molte altre hanno compiuto lo stesso percorso fino alla crisi finanziaria del 2008.
In questo processo che abbiamo descritto sinteticamente in precedenza, gli errori compiuti nel campo della politica tributaria, hanno svolto un ruolo poco osservato, tuttavia determinante.
Le imprese più dinamiche quelle che hanno innovato investendo sul proprio futuro, hanno trasformato gradualmente il nostro sistema industriale, rendendolo uno dei più competitivi, tra le economie avanzate. Le altre, troppo piccole per poter sopportare i costi crescenti degli adempimenti burocratici e di una fiscalità soffocante, sono state spazzate via nei sette terribili anni che vanno dal 2008 fino alle soglie del 2015.
Un chiaro indizio che l’ammortizzatore anomalo dell’economia sommersa e dell’evasione funziona sempre meno, per ragioni strutturali connesse con la modernizzazione dei processi produttivi e la continua contrazione dei segmenti non concorrenziali del mercato, in cui il sommerso economico trova ancora qualche spazio per sopravvivere.
Queste affermazioni trovano un supporto di grande interesse negli studi del Direttore della Fondazione Edison prof. Marco Fortis, profondo conoscitore ed innovativo interprete dell’industria manifatturiera globale. In un articolo pubblicato sul Il Sole 24 ore agli inizi del 2009, aveva richiamato l’attenzione su un dato inatteso, vale a dire che tra le 4800 tipologie di industrie manifatturiere, alle soglie della crisi finanziaria del 2008, le imprese italiane erano ai primi tre posti nel 12% del totale (520).
Un dato particolarmente significativo se si pensa che nel primo decennio di introduzione dell’Euro la media degli addetti nelle imprese manifatturiere era di 3,2, in Italia contro il 19,4 delle imprese tedesche. Una condizione che ha fatto emergere il profondo cambio di strategia industriale delle imprese italiane per contrastare la rivalutazione dell’Euro e l’eccesso degli oneri amministrativi e fiscali che ne frenano la competitività, fondato sul binomio, innovazione e investimenti.
Il richiamo alla crisi finanziaria internazionale del 2008 ci riporta agli effetti moltiplicativi che in quella crisi aveva svolto la controriforma dell’Irpef, introdotta dal Vice Ministro dell’Economia on. Visco, con la Legge finanziaria per il 2007. Effetti mantenuti in un cono d’ombra dei grandi mezzi di informazione, impegnati a sostenere l’immagine di una riforma, quella attuata tra il 2003 e il 2005 dal governo Berlusconi, che era opportuno correggere perché aveva concentrato il grosso delle riduzioni dell’imposta a favore dei redditi più elevati (un dato non corrispondente al vero).
È interessante notare che questa cortina fumogena impenetrabile in Italia, era stata spazzata via nel maggio 2012, da un Rapporto Eurostat sulla fiscalità nell’ UE che aveva evidenziato che nel 2011 la pressione fiscale in Italia era stata del 47,3%, molto più elevata rispetto al 201o in cui era stimata al 45,6%. Questa differenza non deve meravigliare, perché tiene conto delle misure fiscali restrittive assunte dal governo Berlusconi nell’estate 2011 e successivamente dal governo Monti, nel dicembre dello stesso anno per contrastare gli effetti della crisi del debito sovrano esplosa nella seconda metà del 2011.
Quanto ai dati relativi alla pressione fiscale implicita sul lavoro l’ultima stima di Eurostat, pari al 42,6% si fermava 2010; quindi non era confrontabile con i dati del MEF del 2011 che tenevano conto delle misure fiscali restrittive adottate dal governo per contrastare la crisi del debito sovrano.
Ma questo secondo aspetto non inficia il valore dei dati forniti da Eurostat, perché quelli comparabili, relativi alla pressione fiscale complessiva disponibili fino al 2012 evidenziano una pressione fiscale decisamente superiore a quella rilevata dall’Istat negli stessi anni.
Un tema su cui occorre riflettere perché ha fortemente condizionato la politica tributaria italiana degli ultimi 10 anni; tema su cui mi soffermerò nella seconda parte del lavoro.
5.
A) La crescita delle compensazioni per finanziare nuova spesa pubblica priva di copertura
Uno degli aspetti che hanno richiamato la mia attenzione, leggendo il Bollettino delle entrate tributarie, pubblicato ogni mese dal MEF, è la voce “compensazioni”, che, nel 2019, ha raggiunto la cifra “lunare” di oltre 41,607 miliardi di euro. Altro elemento interessante, 5 anni prima, nel 2014, le compensazioni ammontavano a 25,164 miliardi: un aumento di 16,5 miliardi in soli 5 anni.
Alla voce compensazioni, corrispondono, giocoforza, crediti dei contribuenti nei confronti del fisco, di dimensioni analoghe. Ne consegue che l’aumento del 40% della voce compensazioni, nel breve arco di tempo di un quinquennio, non sia solo il frutto di automatismi interni al sistema, che in ogni caso andrebbero corretti; la sua origine va ricercata nelle misure fiscali discrezionali, introdotte nel corso del tempo, con le leggi finanziarie, con decreti legge e circolari interpretative dell’Agenzia delle entrate sulle modalità di applicazione e riscossione, di fatto vincolanti.
Una serie di disposizioni legate da un unico filo conduttore: quello di aumentare il gettito, disattente ai principi, poco trasparenti, sottratte di fatto per le fonti adottate, al controllo parlamentare. Modifiche di costituzionalità assai dubbia, quando introdotte con il Decreto legge di accompagnamento alla Legge di stabilità (uno strumento a cui ormai siamo abituati che possiamo definire eufemisticamente un’anomalia) che incorpora il bilancio, o con variazioni ai saldi di bilancio, senza rispettare il vincolo dell’approvazione a maggioranza qualificata.
Un principio stabilito con la Legge costituzionale n.1-2012, che ha introdotto in Costituzione con la riscrittura dell’art. 81, il vincolo dell’equilibrio del Bilancio al netto delle fasi avverse del ciclo economico. Una riforma che la Legge di attuazione, 24 dicembre 2012 n. 243, ha esteso all’intero sistema della spesa pubblica, con riferimento non solo alla pubblica amministrazione, compresi gli enti pubblici economici (Inps e Inail) comprese le Regioni e gli altri enti territoriali.
In realtà la lievitazione della voce “compensazioni” è soltanto in parte concentrata nel breve arco temporale preso in esame.
L’incremento di 8,9 miliardi nelle imposte dirette, registrato nel 2014 è stato determinato dall’entrata in vigore del D.Lgs. n.175/2014, che ha obbligato i sostituti d’imposta a contabilizzare separatamente le ritenute d’imposta effettuate, e le compensazioni operate. In precedenza invece i sostituti erano tenuti a versare al fisco le ritenute effettuate periodicamente al netto delle compensazioni. Una modifica che nel 2014 (Governo Letta, Ministro dell’Economia Padoan) ha accresciuto il gettito dell’IRPEF di oltre 8,9 miliardi; a cui ha corrisposto un parallelo aumento di pari importo della voce “compensazioni”. Un’operazione di trasparenza contabile, che ha ridotto i margini temporali a disposizione dei sostituti d’imposta per contabilizzare le compensazioni maturate dai contribuenti, favorendo il rimborso dei crediti d’imposta. Un’innovazione che non ha prodotto alcuna ricaduta negativa sui contribuenti: in pratica un accredito più rapido delle ritenute operate dai sostituti, con vantaggio per il fisco (a spese dei sostituti).
Una novità che, letta alla luce dell’articolo 3 del D.L. n.124/2019, di accompagnamento alla Legge di stabilità per il 2020 (Governo Conte-bis, Ministro dell’economia Gualtieri), che aveva introdotto nuove importanti limitazioni all’utilizzazione da parte dei contribuenti delle compensazioni (già registrate dall’Agenzia delle entrate nel proprio cassetto fiscale) a cui hanno diritto, evidenzia un indirizzo di politica tributaria, non episodico, che ha utilizzato il paravento del contrasto all’evasione, per accrescere a vantaggio del fisco, il fardello sempre più pesante delle compensazioni (42 miliardi di Euro nel 2019, riferiti a IRPEF, IVA, IRES, IRAP).
Una voce che fino al 2013 non era neppure indicata nel Bollettino delle entrate tributarie, che nasconde una maggior pressione fiscale pari a oltre 2,3 punti di Pil nel 2020, e riguarda indistintamente tutti, famiglie ed imprese con meno di 15 dipendenti, escluse dai premi di produttività detassati con l’aliquota ridotta del 10%.
In base alla legislazione tributaria vigente, vengono registrati i dati relativi alle sole compensazioni operate sulle entrate tributarie, erariali e territoriali. Tra queste, quindi non rientrano le agevolazioni fiscali e i crediti d’imposta, di cui il contribuente sia eventualmente titolare, in quanto classificati come spese nel bilancio dello Stato.
Nell’IRES, in particolare, l’aumento degli acconti, molto superiore a quanto dovuto l’anno precedente, è stato utilizzato anche di recente per incrementare il gettito, senza intervenire sull’aliquota formale. Una misura che utilizza per aumentare gli incassi un tipico strumento di illusione finanziaria, posta in essere da ultimo, tra il 2014 e il 2015, con effetti distributivi casuali, talvolta discutibili (Governo Letta - Ministro dell’economia Padoan).
Gli esempi richiamati evidenziano un indirizzo politico, esasperato a partire dal 2015, che nell’ultimo trimestre dell’anno, fa schizzare la pressione fiscale complessiva ben oltre il 50% del Pil.
Un andamento a scossoni, con effetti pro ciclici soprattutto nella fase discendente del ciclo, che ha colpito indistintamente le famiglie, le imprese individuali, i lavoratori autonomi, le imprese familiari e i pensionati.
Una condizione economica di origine tributaria che non ha uguali in Europa, che evidenzia la principale causa della bassa crescita italiana, a partire dalla crisi finanziaria del2008.
B) L’evoluzione del diritto e l’ “illusione finanziaria” come disvalore
In buona sostanza, il disfavore nei confronti dell’illusione finanziaria nel diritto tributario, non dovrebbe essere relegato alle sole ipotesi in cui i suoi effetti determinino disparità di trattamento, in contrasto con i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, di diritto interno ed europeo.
L’evoluzione del diritto, costituzionalmente orientata (art. 2 Cost.) nel concreto divenire della società nelle diverse componenti, sociali, culturali, economiche, tecnologiche, ha fatto emergere nella giurisprudenza, con crescente forza espansiva, la questione della buona fede oggettiva e dell’affidamento, quali valori fondanti del nostro ordinamento giuridico, indi di natura costituzionale.
Un tema di grande valore civile, espressione di principi giuridici immanenti al sistema, non frazionabili, che non può essere confinato ai soli rapporti tra privati. Purtroppo la sua affermazione nella sfera pubblica, benché consustanziale all’agire della PA e limite alla discrezionalità dello stesso legislatore, nel corso del tempo ha evidenziato un preoccupante arretramento nel diritto tributario, di cui non vi è una sufficiente percezione, anche nella cultura giuridica.
È appena il caso di aggiungere che anche l’affidamento, non è senza limiti; ma questi, nel quadro del bilanciamento dei diversi interessi, in base al principio di proporzionalità del diritto europeo, non possono giungere al punto da giustificare un presunto “particolarismo” del fisco, fino a comprimere irragionevolmente la parità di trattamento dei contribuenti. Principio cardine dell’ordinamento, non solo tributario, che l’abuso dell’illusione finanziaria, ha contribuito a corrodere.
6.
Nel paragrafo precedente ho evidenziato dettagliatamente le criticità introdotte nel sistema tributario attraverso l’impiego crescente di meccanismi di illusione finanziaria, destinati a gonfiare con modalità che le rendono non percepibili la voce “compensazioni”. Quest’ultima, come detto, nel 2020 ha sfiorato i 42 miliardi di Euro, classificandosi al terzo posto tra le entrate tributarie, dopo l’IRPEF e l’IVA.
Il questo paragrafo invece ci occuperemo di alcune figure specifiche introdotte nell’ordinamento tributario con l’obiettivo dichiarato di contrastare l’evasione fiscale: finalizzate in realtà a far lievitare le entrate attraverso l'introduzione di nuove specifiche deroghe al regime comune di applicazione dell'IVA europea.
Con ricadute nelle imprese minori, con meno di 15 dipendenti (oltre il 60% dei dipendenti del settore privato), che non hanno diritto al’ aliquota ridotta (10%) per i premi di produttività, anche nelle imposte dirette.
Una disparità rilevabile quando l’aumento dell’inflazione a prezzi di mercato supera la soglia dell’1%.; che tuttavia opera anche quando l’aumento riguarda pochi € e dunque passa inosservato.
A) Le nuove figure di inversione contabile, finalizzate ad incrementare il gettito dell’IVA e i limiti in cui possono essere utilizzate
Tra le novità più significative che hanno caratterizzato le politiche di contrasto all’evasione nell’ultimo quindicennio, oltre alla moltiplicazione degli adempimenti, con oneri aggiuntivi spesso superiori ai vantaggi per il fisco in termini di recupero del gettito, si segnala la lievitazione dello schema di inversione contabile nell’IVA.
Si tratta di una serie di deroghe al sistema comune di applicazione dell’IVA europea, assoggettate alla preventiva autorizzazione del Consiglio europeo, su proposta della Commissione UE.
Se si esclude il reverse charge nelle vendite di oro per uso industriale, entrato a far parte dell’ordinamento italiano con la Legge n.7/2000 (Legge comunitaria) in applicazione della Direttiva n.80/1998 CE, che aveva introdotto lo schema di inversione contabile nel sistema comune dell’IVA europea, in questo specifico settore, caratterizzato dalla possibilità di frodi di dimensioni enormi, il reverse charge facoltativo, è entrato a far parte della disciplina dell’IVA in Italia, in base alla Legge n.296/2006 (Legge finanziaria per il 2007).
La prima richiesta di deroga era stata presentata dal Governo italiano alla Commissione e al Consiglio UE nel 2006 (II° governo Prodi, viceministro delle finanze on. Visco) ed aveva riguardato l’introduzione del regime di inversione contabile (c.d. reverse charge) nei sub-appalti in edilizia.
In base al nuovo schema di applicazione dell’imposta, che rimarrà in vigore, in seguito a successive proroghe, fino al 2023, l’IVA dovuta dall’impresa sub-appaltante, è versata direttamente dall’impresa titolare dell’appalto principale, in luogo di quella che, in base alle norme comuni in materia di IVA, sarebbe, secondo un’espressione non felice della legge italiana, il soggetto passivo (il contribuente, secondo la legislazione francese da cui ha tratto origine l’IVA comunitaria) titolare dell’obbligazione tributaria.
Il reverse charge, spezzando il meccanismo di determinazione del valore aggiunto, calcolato su base finanziaria, attraverso gli istituti della detrazione e della rivalsa, determina, a prima vista, un vantaggio (temporaneo) per il fisco.
L’Amministrazione finanziaria incassa un’IVA calcolata sul valore del corrispettivo fatturato dall’impresa subappaltante al proprio committente; quest’ultimo a sua volta, versa al fornitore il corrispettivo pattuito, trattenendo l’IVA dovuta, che, in seguito, verrà versata direttamente al fisco dall’impresa committente.
Descritto così, Io schema del reverse charge appare lineare: un elemento di semplificazione che rende più semplice la gestione dell’IVA sia da parte dell’impresa subappaltante, sia dell’Amministrazione finanziaria.
Purtroppo questa è una rappresentazione semplicistica di una realtà più complessa, che va esaminata con equilibrio e la necessaria prudenza, per gli effetti negativi che può determinare nei confronti dei soggetti sottoposti a questi schemi derogatori del sistema comune dell’IVA europea.
In questo meccanismo impositivo i vantaggi sono ripartiti tra il fisco e l’impresa committente, mentre per l’impresa subappaltante il maggiore onere è rappresentato dalla circostanza che, non incassando l’IVA relativa alle prestazioni effettuate e fatturate, non potrà detrarre l’IVA assolta a monte per realizzare le prestazioni stesse.
Il fisco è più tutelato perché, specie nel caso di una pluralità di attività affidate in subappalto dall’impresa committente, potrà concentrare le attività di controllo. Anche l’impresa committente ha un vantaggio finanziario dal reverse charge, perché corrisponderà all’impresa subappaltante soltanto il corrispettivo delle prestazioni ricevute; mentre verserà, per conto dell’impresa subappaltante l’Iva trattenuta, alla prima scadenza utile.
Il risvolto negativo, per l’impresa sub-appaltante, fiscalmente corretta, è costituito, appunto, dall’impossibilità di detrarre l’IVA assolta a monte, per mancanza di IVA da versare al fisco, su cui effettuare la detrazione; questa potrà essere detratta successivamente, compensata, ovvero ne potrà essere chiesto il rimborso.
Una condizione che, sia detto per inciso, per rispettare il diritto dei contribuenti a detrarre integralmente l’IVA assolta a monte, più volte riaffermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, richiederebbe compensazioni e rimborsi rapidi, che non appartengono al DNA della nostra Amministrazione finanziaria.
Uno schema indubbiamente efficace, per contrastare l’evasione in situazioni particolari, con evidenti fattori di criticità (in passato effettivamente diffusa nei subappalti), che tuttavia rompe la coerenza dello schema impositivo dell’IVA, determinando disparità di trattamento, in contrasto con il principio di neutralità dell’imposta.
Questo schema di deroga al sistema comune dell’IVA, dovrebbe essere limitato alle sole attività interne (come i subappalti) che, per i profili strutturali che le caratterizzano, presentino un potenziale rischio di evasione, che non possa essere diversamente contrastato.
Si deve quindi trattare di situazioni specifiche che, per le particolari condizioni in cui viene svolta l’attività imponibile, rendano il reverse charge, strumento di elezione nel contrasto all’evasione nell’IVA.
È appena il caso di aggiungere che il reverse charge non dovrebbe essere utilizzato in sostituzione di una normale attività di controllo, da parte dell’Agenzia delle entrate.
In conclusione, la possibilità di estendere il reverse charge alle importazioni di merci sottoposte a controlli doganali in Italia, o in altri paesi dell’UE (di provenienza extra-UE) non dovrebbe essere consentita.
Un elemento oggettivo qual è il controllo doganale, esclude ogni possibilità di evasione e quindi non autorizza deroghe al sistema comune dell’IVA, che ne compromettono la neutralità.
B) Quando il fisco supera sé stesso: le diverse ipotesi di “split payment”
Dopo aver definito con precisione i ristretti limiti entro i quali i governi degli Stati membri dell’UE possono utilizzare legittimamente i meccanismi di inversione contabile nell’Iva, ne descrivo un altro che solo un lettore frettoloso potrebbe assimilare ad uno schema di inversione contabile.
Mi riferisco allo “split payment”, nelle variegate forme inventate dal Vice ministro Visco: uno schema applicato alla PA, quando opera sul mercato in qualità di consumatore finale.
Senza dilungarmi in dettagli che ci porterebbero lontano, mi limito a poche osservazioni non banali.
La prima riguarda il mercato in cui opera la PA, che non è un suk arabo, ammesso che ne sopravviva ancora qualcuno, a cui occorre aggiungere la tradizionale prudenza della pubblica amministrazione quando sceglie i propri committenti. Chi può ritenere verosimile che un funzionario della PA che acquisti un bene o una prestazione di servizio sul mercato, si metta d’accordo con il fornitore per pagare meno Iva? E come potrebbe costituire un “fondo fuori bilancio” per poter versare la differenza rispetto al prezzo pattuito al fornitore? Dove sta dunque il rischio “evasione”?
L’applicazione di questo schema anomalo inversione contabile alla PA comporta quindi, quanto meno, un illecito arricchimento temporaneo, per la materiale impossibilità che possa configurarsi l’ipotesi di evasione all’Iva, quando la PA operi sul mercato in qualità di consumatore finale.
Dal 2014, anno della sua istituzione lo “split payment” continua ad alimentare il fiume carsico dei prelievi indebiti che alimentano la voce “compensazioni”.
Nonostante le riserve richiamate in precedenza, Il risultato in termini di gettito era stato talmente promettente da spingere il vice ministro Visco ad estendere lo “split payment” sia agli enti pubblici economici sia alle società di capitali a controllo pubblico quotate in borsa. Risparmio ai lettori le manovre elusive, del tutto legittime, poste in essere dai soggetti richiamati in precedenza, a tutela dell’integrità dei propri bilanci e dei propri azionisti.
In conclusione, l’inversione contabile costituisce uno strumento da usare con particolare cautela, soltanto nelle situazioni in cui le esigenze anti frode appaiono tali da giustificare una misura che, altrimenti assumerebbe la connotazione di un privilegio del fisco, incompatibile con i principi del diritto europeo e con la natura democratica dello Stato repubblicano.
Purtroppo è quel che è accaduto ed abbiamo documentato nel paragrafo precedente. Il contrasto all’evasione ha rappresentato, tra il 2014 e il 2019 e permane tuttora, lo schermo per alimentare, attraverso la moltiplicazione delle deroghe al sistema comune dell’IVA europea, il pozzo senza fondo delle compensazioni, con un vantaggio in termini di maggiore gettito temporaneo molto significativo, superiore ai 42 miliardi di Euro (considerando tutte le principali imposte dirette, oltre l’IVA), in ulteriore crescita anche nel 2020/21.
7)
A.Le indicazioni che emergono nell’indagine dell’Istat sul rapporto tra sommerso economico ed evasione fiscale nel periodo 2014/2019
Prima di analizzare gli aspetti di maggiore interesse che emergono dagli studi dell’Istat sull’economia sommersa, sembra opportuno richiamare l’attenzione su alcune indicazioni metodologiche.
Gli studi dell’Istat sull’economia sommersa sono aggiornati ogni due anni, in modo da consentire il maggior affinamento possibile delle stime fornite. Gli ultimi dati disponibili quando ho iniziato a rivedere la mia relazione al Convegno di Napoli nel giugno 2020 erano quelli relativi al 2018, pubblicati nell’ottobre 2019. Ulteriori indicazioni relative al 2020 e al 2021 verranno comunicate nell’ottobre 2022 e nell’ ottobre 2023. Di queste ultime darò conto solo di quelle pubblicate entro il 2022, nel caso in cui emergano puntuali scostamenti rispetto al periodo 2014/2019.
Secondo l’Istat l’aspetto di maggiore interesse per analizzare l’evoluzione dell’economia sommersa nel corso del tempo, è rappresentato dai trend che caratterizzano i settori osservati; anche scostamenti che possono apparire minimi (+0,1%, -0,2%) se coerenti nel corso del tempo hanno un importante valore indicativo.
I dati che interessano il nostro lavoro sono quelli relativi al sommerso economico, composto da due elementi: a) sotto-dichiarazione, b) lavoro irregolare.
A questi numeri occorre aggiungere una quota oscillante tra l’1% e l’1,2% del Pil, sostanzialmente stabile nel tempo, che rappresenta la stima dell’economia criminale. Nell’analizzare i dati elaborati dall’Istat, non terrò conto di questa voce: è infatti un dato di comune esperienza che l’economia criminale rappresenta una particolare tipologia di contribuente, che utilizza attività regolari, ineccepibili sotto il profilo tributario, per “lavare” i profitti delle attività illecite. Tra questi rientrano tipicamente, lo spaccio di droga, il riciclaggio di denaro sporco, il contrabbando di sigarette; una voce quest’ultima che ha rilevanza fiscale, tuttavia del tutto marginale rispetto all’evasione, che si concentra nelle principali imposte dirette ed indirette.
Tra le componenti dell’economia irregolare l’Istat indica inoltre la voce “altro”, 17,6 miliardi (1% Pil). In quest’ultima rientra il valore degli affitti in nero, quello delle mance corrisposte ai lavoratori dipendenti dai privati nel settore della ristorazione e una quota che emerge dalla riconciliazione fra le stime degli aggregati della domanda e dell’offerta, che corrisponde essenzialmente ad aggiustamenti statistici. Non prenderemo in considerazione anche questo elemento, privo di qualsiasi rilevanza ai nostri fini. *
* Al fine di evitare che una parte significativa dei lettori di questo saggio, di formazione giuridica, si perdano nella selva di numeri, al termine di passaggi interessanti evidenziati dall’Istat, offrirò una sintesi descrittiva di quanto evidenziato in forma numerica, se rilevanti sotto il profilo giuridico.
Gli ultimi dati disponibili pubblicati dall’ISTAT nell’ottobre 2021, quando ho aggiornato la relazione del giugno 2020, si riferiscono al periodo che va dal 2014 al 2019: offrono spunti di notevole interesse perché analizzano gli anni immediatamente successivi alla recessione-depressione innescata dalla crisi del debito sovrano italiano (2011/12) caratterizzata dalla nascita del governo Monti, terminata alle soglie del 2015.
Nel 2014, ultimo anno di recessione, l’economia irregolare si era attestata a 195,5 miliardi (12% Pil), mentre nel 2018 il sommerso economico valeva 188,9 miliardi (10,7% Pil).
Il 2019 aveva evidenziato una ulteriore riduzione (183,4 miliardi) con un calo rispetto al Pil a prezzi di mercato, di un altro mezzo punto (10,2%).
Nel 2018 la principale voce dell’economia sommersa era rappresentata dalla sotto-dichiarazione del valore aggiunto prodotto: 95,6 miliardi (5,4% Pil) mentre la voce relativa al lavoro irregolare era stimata pari a 78,5 miliardi (4,4% Pil).
La valutazione del lavoro irregolare richiede, secondo l’Istat, particolare attenzione; si riferisce infatti non soltanto al lavoro nero, completamente irregolare, ma investe anche il lavoro regolare.
In quest’ipotesi, i dipendenti vengono dichiarati in base ai minimi contrattuali, mentre una parte del salario viene corrisposto fuori busta; a questo occorre aggiungere gli straordinari e i premi di produzione, anch’essi corrisposti al nero.
Una condizione quest’ultima che, come indicato in precedenza, potremmo definire normale nelle imprese con meno di 15 dipendenti che, in base alla legge, non hanno una RSA (rappresentanza sindacale aziendale); il presupposto per poter usufruire dell’aliquota ridotta del 10% per i premi di produttività, richiede infatti il preventivo accordo con la RSA.
Se teniamo conto che il 49% dei dipendenti del settore privato lavora in imprese con meno di 10 dipendenti, mentre il 70% è occupato in imprese con meno di 50, dobbiamo essere consapevoli che in Italia la struttura distributiva del lavoro è frammentata in una miriade di micro e piccole imprese.
Queste ultime devono confrontarsi sia con il peso degli oneri contributivi e tributari, tra i più elevati al mondo, sia con il costo crescente degli adempimenti fiscali, inversamente proporzionali rispetto alle dimensioni di impresa. Questa condizione, determina una produzione di quote di valore aggiunto e di retribuzione irregolari, il cui limite è rappresentato dalla possibilità di resistere in nicchie di mercato non concorrenziali: una condizione sempre più difficile da riscontrare.
I premi di produttività tassati con l’aliquota del 10% furono introdotti all’inizio del 2009, vale a dire in un’altra era geologica dal Ministro dell’economia on. Tremonti, per compiacere sia la Confindustria sia i sindacati.
In considerazione delle condizioni del mercato del lavoro qui richiamate, si deve riconoscere che si trattò di una decisione politica sbagliata, che, nel corso del tempo ha moltiplicato le disparità di trattamento tributarie nel mercato del lavoro, in contrasto con principi di rilievo costituzionale.
Un dato di fatto, che trova un immediato riscontro nella cancellazione di oltre 1.550.000 partite IVA individuali, tra il 2009 e il 2014; mentre altre 870.000 sono state spazzate via dalla pandemia.
È interessante notare che la quota di valore aggiunto non dichiarato, si riduce nel periodo considerato dal 46,5% del 2014 al 46,1% del 2017, mentre quella relativa al il lavoro irregolare scende negli stessi anni dal 38,2% al 37,3%, vale a dire ad un tasso più che doppio.
In questo scenario la componente del lavoro irregolare dipendente cresce del 3,1%, mentre quella delle partite IVA individuali si riduce del 5,2% (un chiaro sintomo della contrazione delle attività in questo settore).
Un altro elemento di indubbio valore ai fini della valutazione del rapporto tra sommerso economico ed evasione in base agli elementi indicati dall’Istat è rappresentato dalla individuazione dei settori nei quali si concentra maggiormente il sommerso economico.
1) Settore dei servizi alla persona, che evidenzia irregolarità pari al 33,5% concentrate per i 2/3 nel lavoro irregolare; 2) Commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasporti, attività di ristorazione e alloggio che evidenziano irregolarità pari al 21,9%; 3) Costruzioni, 20,6%; 4) agricoltura e pesca, 17,3%; 5) Produzione di beni alimentari e di consumo, 10,9%.
Indicazioni di grande interesse per l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria; la quale, tuttavia predilige i meccanismi automatici, trasferendo sui contribuenti il costo crescente degli adempimenti richiesti.
Negli ultimi tre anni (2017-18-19) l’economia sommersa si è ridotta di 11,5 miliardi concentrati per i 2/3 sulla sotto-dichiarazione e, per meno di 1/3 sul lavoro irregolare.
In base ai dati del 2018 sulla contrazione del sommerso economico, ulteriormente corroborati da quelli del 2019, che evidenziano un ulteriore riduzione dello 0,5% rispetto al Pil, è interessante rilevare che dal 2014 al 2019 l’economia inosservata, vale a dire il sommerso economico e l’economia criminale sono diminuiti di -4,3% (pari a -0,7 punti all’anno rispetto al Pil).
L’Istat richiama l’attenzione sul fatto che la diffusione del sommerso economico è fortemente legata al tipo di mercato piuttosto che alla tipologia di bene/servizio offerto. A questo fine rileva la specificità funzionale dei prodotti/servizi scambiati, piuttosto che le caratteristiche tecnologiche dei processi produttivi.
In buona sostanza è la specificità dei servizi offerti e non la loro qualità a favorire il sommerso, vale a dire l’assenza di concorrenza.
In coerenza con questo indirizzo le attività industriali sono distinte in produzione di beni di consumo, produzione di beni di investimento e produzione di beni intermedi (che include il comparto energetico).
Nel terziario le attività dei servizi professionali sono considerate separatamente dagli altri servizi alle imprese.
In base a questi criteri selettivi i settori in cui il peso del sommerso economico è più rilevante sono nell’ordine: 1) Altri servizi alle persone (35,5% del valore aggiunto totale); 2) Commercio, trasporti, alloggi, ristorazione (21,9%); 3) Costruzioni (20,6%).
Negli altri servizi alle imprese (5,5%), nella produzione di beni di investimento (3,4%) e nella produzione di beni intermedi (1,6%) si registrano le minori incidenze.
Aggiungo per completezza, che sia nei settori a maggior incidenza del sommerso economico, sia in quelli di minor rilevanza, possono evidenziarsi differenze tra la componente sommerso economico e quella del lavoro irregolare; ma questo elemento non influisce sulla incidenza maggiore o minore delle attività come indicate in precedenza, con due sottolineature: nel settore altri servizi alle persone (23,2%) la componente lavoro irregolare ha un peso elevato perché in questo settore rientra il lavoro domestico.
Il lavoro irregolare svolge un ruolo importante anche nel settore primario (agricoltura e pesca) in cui l’economia sommersa, per il particolare regime fiscale che caratterizza l’agricoltura e la pesca è alimentata esclusivamente dal lavoro irregolare (17,3%).
L’accelerazione della contrazione dell’economia sommersa negli ultimi tre anni e la marginalità dei settori di mercato non concorrenziali in cui è concentrata, su cui si sofferma l’Istat confrontando i dati del triennio 2017/2019, hanno messo in evidenza una condizione di sopravvivenza delle imprese irregolari, piccole e piccolissime, impossibilitate ad investire sul proprio futuro.
Un insieme di criticità che ha colpito indistintamente tutte le regioni italiane. Tuttavia, con esiti ancor più gravi nel Mezzogiorno continentale e nelle grandi isole, nelle quali il crollo dei redditi, determinato dalla crisi finanziaria internazionale, importata dagli Stati Uniti nel 2008, si è innescato sugli effetti prodotti dall’incremento esponenziale degli adempimenti amministrativi e dall’aumento dell’IRPEF, dopo le modifiche radicali stabilite negli anni 2006/2007 dal II° Governo Prodi. Dei cui effetti negativi sul funzionamento del sistema tributario evidenziati in questo lavoro, vi è tuttora in Italia una percezione marginale, per non dire irrilevante.
B) Le ulteriori indicazioni che emergono nei report dell’Istat nel triennio 2019/2021, che analizzano gli effetti della pandemia
Vediamo ora quali indicazioni emergono dal report dell’Istat nel 2019/2021, che danno conto sia del blocco dell’economia prodotto dalla pandemia da Covid-19, sia della straordinaria ripresa registrata nel 2022.
Nel 2020 il valore aggiunto generato dall’economia non osservata, ovvero dalla somma di economia sommersa e di attività illegali si è attestato a 174,6 miliardi di euro, con una flessione del 14,1% rispetto all’anno precedente.
Un crollo rispetto alla caduta del Pil indotta dalla crisi pandemica che aveva registrato un calo molto inferiore (-7,6%), portandosi al 10,5% dall’11,3% del 2019.
La contrazione è stata generalizzata per tutte le componenti dell’economia non osservata: il valore aggiunto della sotto-dichiarazione è diminuito di -10,7 miliardi di euro rispetto al 2019; è stato ancora più elevato il calo generato dall’impiego di lavoro irregolare -14,6 miliardi, mentre le altre componenti hanno registrato una contrazione di 1,2 miliardi. Per la prima volta dal 2015 anche l’economia illegale ha segnato una riduzione di oltre 2,1 miliardi di Euro rispetto all’anno precedente.
Nel 2020, il complesso dell’economia sommersa vale 157,4 miliardi, il 9,5% del Pil, in calo di 26,5 miliardi rispetto al 2019. Questo dato è di particolare valore anche in rapporto al 2021; la contrazione rispetto al Pil conferma il dato del 2020 pari al 9,5% con un trend in diminuzione costante, accentuato nell’ultimo biennio.
Un altro elemento di notevole interesse che accomuna i dati registrati nel report 2020, con quelli rilevati nel 2021 è rappresentato dal fatto che nel biennio le maggiori contrazioni dell’economia sommersa si erano registrate nei settori in cui in precedenza (2014/2019) era maggiormente diffusa.
Nel corso del 2020, le conseguenze economiche della pandemia da Covid-19 hanno causato la più forte contrazione dell’attività produttiva del secondo dopoguerra, con una caduta del valore aggiunto a prezzi correnti del 6,8% rispetto all’anno precedente. La crisi economica ha colpito il sistema produttivo in maniera asimmetrica in termini settoriali e dimensionali, per effetto sia degli interventi di delimitazione delle attività produttiva e della possibilità di fruire di alcuni servizi, sia per l’inevitabile modifica dei componenti di consumo e investimento.
A cavallo della crisi pandemica, inoltre, sono stati messi a punto interventi di politica economica (incentivazione dei pensionamenti e dei pagamenti elettronici; Superbonus edilizio; diverse modalità di “ristoro” alle attività produttive; e di sostegno ai lavoratori) che hanno avuto un impatto significativo sui comportamenti delle imprese e dei consumatori.
L’effetto congiunto di una crisi asimmetrica e degli interventi di policy hanno prodotto un mutamento anche nelle caratteristiche settoriali e dimensionali del sommerso economico. Rispetto al triennio precedente, in cui si era già registrata una riduzione generalizzata del sommerso economico all’interno del sistema produttivo, nel 2000 in alcuni settori questa tendenza si è accentuata.
In particolare, l’incidenza del sommerso si è sensibilmente ridotta nei servizi professionali (-3,9%); nelle costruzioni (-2,8%) e negli altri servizi alle persone (-2,1%). Anche nel comparto del commercio, trasporti alloggio, ristorazione, al netto della diminuzione della sotto-dichiarazione e del lavoro irregolare la pandemia avrebbe prodotto una riduzione di 1,5 punti dell’impatto del sommerso.
La riduzione della quota di sommerso nelle costruzioni e nel commercio, trasporti, alloggio ristorazione (-2,2% e -1,4% rispettivamente), è stata determinata dalla riduzione del sommerso economico, mentre nei servizi professionali, negli altri servizi alle persone la diminuzione è stata essenzialmente indotta dalla dinamica della componente di sotto-dichiarazione (-3,0% e -1,2 punti rispettivamente).
Tale tendenza è il risultato di una quasi generalizzata riduzione dell’impatto del sommerso economico nelle imprese individuali. In tale segmento produttivo, infatti, la componente di sotto-dichiarazione del valore aggiunto ha evidenziato un’incidenza in calo di circa 10 punti percentuali.
Per quel che riguarda il lavoro irregolare, infine, tra il 2019 e il 2020 si è registrata una riduzione del 25% del valore aggiunto generato dai lavoratori dipendenti irregolari (che incidono in maniera più rilevante sulle imprese di piccolissime dimensioni) e un calo di oltre il 15% di quello connesso all’impiego di dipendenti irregolari nelle imprese con meno di cinque dipendenti.
Il carattere indifferenziato degli effetti della pandemia sulle attività economiche e le misure discrezionali di politica economica adottate dal governo a sostegno delle attività economiche e delle imprese, sono state tutt’altro che irrilevanti rispetto ai dati che abbiamo indicato in precedenza. Se ne discostano le imprese individuali e le microimprese fino a cinque dipendenti nelle quali la riduzione dell’economia sommersa è stata significativamente inferiore all’insieme delle attività economiche e produttive così come rilevate e descritte dall’Istat nel quinquennio 2014/2019.
Una riduzione delle attività irregolari intorno al 10%, molto più vicina al calo registrato dal Pil dello stesso periodo (7,6%).
8.
Giunti a questo punto ritengo che in base ai dati forniti dall’Istat sull’economia non osservata e agli elementi ulteriori indicati per trarne elementi e regole di ordine generale, ciascuno sarà in grado di individuare le priorità e le azioni necessarie per correggere qualche criticità marginale.
È comunque auspicabile che il legislatore smetta di considerare le indicazioni offerte dall’Istat avulse dal contesto internazionale; sia perché i dati italiani sono allineati con quelli delle altre economie avanzate, caratterizzate da un’evasione fiscale molto contenuta, e da stime del sommerso economico di dimensioni analoghe a quelle italiane. Sia perché la crisi del debito sovrano italiano tra il 2011/2012, in pochi anni ha riportato il reddito pro capite degli italiani ai livelli del periodo immediatamente precedente l’introduzione dell’Euro.
È quindi immaginabile che una parte non trascurabile dell’economia non osservata sia costituita dall’ “economia informale” vale a dire da quelle attività economiche che vengono svolte all’interno delle famiglie alle quali non corrisponde una retribuzione in denaro.
In ogni caso gli elementi offerti dall’Istat sull’evoluzione del rapporto tra economia sommersa ed evasione, con sempre maggior precisione a partire dal 2014, offrono l’immagine di una evasione sempre più contenuta, che vede l’Italia allineata alle economie più avanzate dell’UE.
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