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La digitalizzazione dell'economia e la concezione di nuove basi imponibili

Scritto da Stefano D'Albenzio • dic 2020

Sintesi

La digitalizzazione dell’economia è un processo che da anni sta interessando l’economia e sta radicalmente cambiando il modo di operare delle imprese. Istituti storici, come quello della identificazione di una stabile organizzazione fisica o l’utilizzo del transfer pricing, hanno riscontrato dei veri e propri deficit operativi, inducendo ad idealizzare, seppure in netto ritardo rispetto alle pratiche erosive di tassazione messe in atto dalle imprese multinazionali, dei nuovi criteri di tassazione che non si focalizzino solamente sulla nozione matematica di reddito, bensì anche sul nuovo concetto di creazione di valore. Sono questi i punti su cui stanno massicciamente operando le istituzioni internazionali con l’obiettivo di trovare una soluzione comune da adottare.

Abstract

The digitalization of the economy is a process that has been affecting the economy for years and is radically changing the way businesses operate. Historical institutions, such as the identification of a physical permanent establishment or the use of transfer pricing, have encountered many operational deficits, leading to idealize, despite a clear delay with respect to the erosive practices of the taxation implemented by multinational companies, of the new taxation criteria that do not focus only on mathematical notion of income, but also on the new concept of value creation. These are the points on wich international institutions are massively working with the aim of finding a common solution to be adopted.

Contenuto

1. Premessa

Gli ultimi anni sono stati protagonisti di un’evoluzione importante dello scenario tecnologico in cui tutti noi siamo stati coinvolti.

Fenomeni come la globalizzazione, la dematerializzazione dell’attività economica e, congiunta a quest’ultima, l’internazionalizzazione dei processi produttivi o comunque, in modo generico, la digitalizzazione, hanno profondamente modificato il modo di fare business delle imprese, qualsiasi sia la loro dimensione.

Tuttavia, si porrà una maggiore attenzione su quelle imprese che, date le loro dimensioni rilevanti, hanno una sorta di vocazione ad operare “sopra” i territori degli Stati nazionali.

Bisogna poi constatare che al mutare del contesto economico le imprese si sono adeguate molto più rapidamente di quanto non abbiano fatto, e probabilmente non avessero potuto fare, i sistemi fiscali nazionali e le “loro” regole di fiscalità internazionale, con un’accelerazione verificatasi, in alcuni campi, nel corso dell’anno 2020 per effetto della grossa “spinta” ricevuta dai vincoli alla mobilità personale introdotti in tutti i Paesi per frenare la pandemia da Covid-19.

Da questo nuovo scenario, diverse sono le situazioni che si sono andate a creare: da un lato le imprese hanno presto imparato a trarre maggiori benefici possibili attraverso le varie tecniche di pianificazione fiscale di shifting1 di profitti “nomadi”, dall’altro, i sistemi fiscali in un primo momento sono rimasti passivi, limitandosi ad osservare e, solo quando si sono iniziati seriamente a preoccupare di salvaguardare i “livelli minimi di gettito fiscale”, hanno cominciato a reagire, seppure inevitabilmente in ritardo2.

Nello scenario così delineato, è possibile distinguere due fenomeni che si sono evoluti di pari passo in tale processo, ossia:

  • La digitalizzazione di una parte più o meno rilevante dei processi di produzione e commercializzazione di beni e servizi “tradizionali”;

  • La creazione e lo sviluppo dei servizi digitali, ovvero tutti quesi servizi offerti dalle imprese mediante una piattaforma digitale.


I due fenomeni appena descritti comportano la possibilità di offrire, indipendentemente dalla presenza o meno di una struttura fisica localizzata geograficamente in prossimità del Paese, o quantomeno del luogo, di residenza dei consumatori/utenti, beni e servizi.

Ed è proprio questo il punto cardine dell’economia digitale, la vera innovazione, che fa crollare i principi fiscali che da circa un secolo disciplinano il trattamento fiscale dei redditi transnazionali d’impresa, elaborati in un primo momento dalla Società delle nazioni3 e successivamente dall’OCSE, sulla base di un compromesso politico stipulato, agli inizi del XX° secolo, tra le potenze economiche che miravano a distribuire la potestà impositiva tra i diversi Paesi, ponendo comunque attenzione ad evitare tutti quei problemi della doppia imposizione internazionale.

Tuttavia, tali principi oggi, ritenuti comunque obsoleti in riferimento al nuovo scenario che ci troviamo, rischiano addirittura di legittimare situazioni di doppia esenzione.

Ci si rende conto che non si può più fare totalmente affidamento ad istituti come quello della stabile organizzazione o del transfer pricing che, negli anni addietro, hanno efficacemente svolto il compito di ripartire i redditi delle imprese multinazionali tra le diverse giurisdizioni coinvolte.

Oggi ci si trova uno scenario completamente diverso, non si hanno più le c.d. imprese brick and mortar, ovvero imprese prevalentemente manifatturiere che permettevano di localizzare perfettamente il Paese, o comunque il luogo, in cui si andava a generare reddito, bensì si hanno imprese quasi completamente dematerializzate, che sono difficilmente localizzabili. Ancora, come si vedrà nelle prossime pagine, ci si è resi conto che non bisogna più ricercare un reddito, bensì si è alla ricerca del valore.

Orbene, andando a contestualizzare questo concetto appena esposto, appare evidente che nel caso delle imprese multinazionali che offrono servizi digitali, e tenendo per di più conto di tutte quelle imprese che sviluppano il loro processo produttivo in più Paesi, la corretta allocazione territoriale del reddito/valore diviene assai complessa.

Constatando ciò appare quasi assurdo comprendere che, ancora oggi, sia le norme fiscali nazionali, quanto quelle internazionali, prevedono che i redditi di un’impresa che operi al di fuori del proprio Paese possano essere assoggettati a tassazione in tale luogo solo a condizione di localizzarvi una sede fissa di affari. Ci si riferisce alla nozione di stabile organizzazione disegnata dall’OCSE e poi ripresa nelle legislazioni nazionali dei diversi Paesi4.

Dunque, perché oggi dovremmo ragionare diversamente nei confronti, ad esempio, di chi realizza e commercializza App? La risposta a questa domanda possiamo trovarla se ricostruiamo le ragioni, ed i sottostanti flussi economici, sulla base dei quali sono state forgiate le regole, sia nazionali che internazionali, sulla fiscalità dell’impresa multinazionale. La differenza sostanziale va ricercata nel fatto che il mondo, oramai alle nostre spalle, si basava un un nexus fisico, oggi invece molte imprese non necessitano più di una “sede fissa di affari” per operare nei diversi Paesi nei quali trovano i loro mercati di riferimento per i beni/servizi che offrono. Nella sostanza, quindi, le piattaforme digitali hanno sostituito i vecchi mercato fisici e, in un’economia globalizzata in cui i dati sono l’elemento principale, potrebbe quasi sicuramente non avere più un senso logico tassare le società in base alla loro presenza fisica (o comunque affidarsi a concetti e regole di allocazione ormai datate).

Detto ciò bisogna ben comprendere che nella sostanza non si tratta di eludere lo status di stabile organizzazione ma, molto più semplicemente, non dovervi più ricorrere5.

I temi BEPS nascono proprio a seguito di tali situazioni, ovvero per contrastare tutte quelle imprese multinazionali che, sfruttando le simmetrie tra i diversi ordinamenti fiscali, riescono a minimizzare il loro prelievo complessivo mediante operazioni di pianificazione fiscale.

Tuttavia, seppur già di rilevanti attenzioni a tale problematica, spesso, se ne affiancano altre. Tra queste è possibile evidenziare come, tutte quelle imprese di rilevanti dimensioni, sono divenute col tempo una sorta di supercontribuenti, con la capacità quindi di contrattare un vero e proprio trattamento fiscale (di favore) nei Paesi in cui si interfacciano.

Questo scenario così descritto comporta delle condizioni di concorrenza sleale da parte delle imprese digitali di maggiori dimensioni rispetto a quelle di dimensioni contenute.

Il primo punto su cui bisogna intervenire è quello per cui bisogna idealizzare una tipologia di tassazione che vada a colpire la creazione di valore, non più il reddito basato su una differenza tra costi e ricavi d’impresa, dato che le imprese digitali sfruttano l’enorme potenziale degli intangibles.

Bisogna quindi porsi due domande fondamentali, che pongono degli importanti spunti di riflessione, ovvero:

  • Qual è il corretto collocamento territoriale di tali redditi;

  • Qual è la loro corretta determinazione e quantificazione, dato che l’apporto dei beni immateriali alla catena del valore è sicuramente più difficile da misurare di quanto non possa esserlo invece per i tangibles6.


Un caso empirico, a riprova di quanto signore detto, può essere quello di WhatsApp. L’applicazione, il 19 febbraio 2014, è stata acquistata da Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, per 19 miliardi di dollari7. Questo ci dimostra che vi sono imprese che, nonostante possano mostrare dei redditi molto bassi, talune volte addirittura pari a zero, hanno in realtà un valore molto elevato dato proprio dalla presenza degli intangibles.

Spesso poi, la creazione del valore dell’impresa, viene generato dagli stessi consumatori/utenti, denominati «Pro-sumers»8.

Tutto questo scenario è stato frutto di discussioni ed iniziative in sede internazionale dall’OECD, in collaborazione con il gruppo dei Paesi del G20, soluzioni sono state avanzate anche dall’Unione Europea e dai singoli Stati (tra cui l’Italia).

Sono queste le tematiche che si analizzeranno nel capitolo 2 del presente articolo, per poi analizzare, nel capitolo 4, il Blueprint dell’OECD approvato il 14 ottobre 2020 dal G20, il quale sembra rappresentare, finalmente, un significativo passo in avanti nella direzione di una soluzione efficiente e concordata a livello internazionale.


2. La digitalizzazione dell'economia nel contesto della tassazione delle imprese multinazionali

Il problema della tassazione delle imprese digitali va inserito all’interno di una problematica ben più ampia, ovvero quella della tassazione delle imprese multinazionali e delle regole di determinazione del diritto, di ciascun Paese in cui operano, di tassarne i profitti.

In tale casistica possiamo avere due principi di tassazione differenti:

  • L’impresa percettrice è tassata nel Paese in cui ha la sede legale (principio della residenza), il quale favorisce, in termini di gettito dell’imposizione sul reddito, gli Stati nei quali si trova la sede legale delle imprese in quanto queste verrebbero tassate su tutti i redditi da loro percepiti;

  • L’impresa percettrice è tassata nel Paese in cui è stato prodotto il reddito9 (principio della fonte), ovvero andando a favorire quei Paesi in cui i redditi sono stati prodotti, quale che sia il Paese di residenza delle imprese che tali redditi percepiscono.


È evidente che possano esservi degli interessi contrastanti nell’applicazione dell’uno o dell’altro principio, da parte dei diversi Paesi, i quali spesso hanno applicato tali principi anche parzialmente.

È necessario trovare un equilibrio dato da una collaborazione internazionale in quanto, una problematica che potrebbe spesso presentarsi, sarebbe proprio data da una situazione di doppia imposizione. Questa la si ha quando, i singoli Paesi, al fine di massimizzare il loro gettito fiscale, in assenza di accordi internazionali generali sul principio da applicare in genere, dunque di una regola comune, fa sì che i Paesi applichino ai soggetti residenti il principio di residenza e a quelli non residenti il principio della fonte, andando a generare redditi tassati dia nel Paese di produzione che in quello di residenza del soggetto percettore.

In tali casi, lo strumento utilizzato per risolvere problematiche del genere è costituito dagli accordi bilaterali tra Stati10, diretti a regolare la ripartizione fra essi della materia imponibile11.

La regola generale è quella del principio di residenza, con il limite che, nel caso di imprese multinazionali che svolgono la loro attività, di una rilevante consistenza economica, in più Paesi diversi da quello di residenza, mediante l’istituto delle stabili organizzazioni, la tassazione avviene in capo a queste ultime. Pertanto, i redditi così prodotti, vengono tassati con applicazione del principio della fonte.

Questo induce le imprese multinazionali, come si è già accennato nel paragrafo 1, a pianificare operazioni di profit shifting, quali ad esempio la fissazione di transfer pricing, così da erodere la base imponibile ed essere assoggettati ad un carico fiscale minore.

È ovvio che tutto ciò dà luogo ad una concorrenza fiscale dannosa fra Paesi, soprattutto se si considera che gli stessi Paesi hanno iniziato a fare una corsa al ribasso del gettito tributario, così da attirare l’attenzione delle imprese multinazionali ed assicurarsi comunque dei livelli garantiti di gettito.

È proprio per limitare questo elevato grado di libertà che, nel 2017, l’OECD ha elaborato e fissato delle linee guida per la determinazione dei prezzi di trasferimento, seppur non riscuotendo il successo desiderato. La discutibile linearità nello scambio di informazioni tra le diverse amministrazioni finanziarie, e la scarsa omogeneità nelle normative fiscali dei diversi Paesi, hanno comunque offerto delle ampie opportunità di elusione delle imposte sui redditi. È evidente come tali problematiche, comunque già esistenti, abbiano trovato la loro massima criticità con la sempre più crescente digitalizzazione dell’economia e con l’introduzione (e la loro difficilissima individuazione) di stabili organizzazioni non fisiche.

Strumenti come quello della stabile organizzazione e del transfer pricing, in riferimento alle evoluzioni sinora citate, sono da considerarsi parzialmente fallimentari in quanto non garantiscono una ripartizione della materia imponibile fra i diversi Paesi che rispecchi l’effettivo contributo da questi fornito al valore finale del bene/servizio prodotto.

Volendo richiamare il concetto di «Prosumers», in tale forma di mercato i consumatori/utenti delle piattaforme digitali costituiscono un vero e proprio input per la produzione del servizio remunerativo dell’impresa, generando loro stessi il valore aggiunto che poi sfugge a tassazione dal Paese in cui questi risiedono.

In tutte le ipotesi, a prescindere dall’identificazione di un’economia digitale o meno, in cui le imprese, anche parzialmente, riescono ad eludere la tassazione nei Paesi in cui operano ma sono sprovvisti di una sede legale, o comunque non hanno una stabile organizzazione che possa legarle a quel luogo, agiscono da free-rider rispetto alle spese pubbliche che da tali Paesi sono state compiute (a seconda del settore in cui le imprese operano).

Ne derivano degli effetti distorsivi che riguardano:

  • Decisioni di investimento e localizzazione delle imprese;

  • Concorrenza sleale fra le imprese;

  • Competizione fiscale, consistente in una corsa al ribasso per attirare l’attenzione delle multinazionali e dunque i loro redditi, fra i diversi Paesi.


Quanto sinora esposto fa sorgere due domande a cui trovare una rapida ed efficace risposta, onde evitare che possano protrarsi, se non peggiorare, gli effetti distorsivi conseguenti, e ovvero ci si deve chiedere:

  • Cosa tassare, ovvero qual è la base imponibile da assoggettare a tassazione;

  • Dove tassare, ovvero qual è la giurisdizione competente.

  • Come tassare, magari attraverso l’ideazione di nuovi criteri di tassazione che ricorrano ad una base imponibile completamente diversa dal reddito, o quantomeno trovarne una misura integrativa o addirittura alternativa.


La risposta a queste tre domande non è semplice da ricercare, tant’è vero che gli organismi internazionali da anni stanno cercando di cooperare per trovarne una soluzione di tipo globale. Nei prossimi capitoli seguiranno delle riflessioni sulla base delle strade intraprese dai diversi Paesi (e sia dall’Unione Europea che dall’OECD-G20).


3. L'ideazione di una base imponibile integrativa e di una base imponibile alternativa

Sinora, data la conformazione del mercato con cui le legislazioni si sono sempre interfacciate, il sistema tradizionale di tassazione diretta si è sempre basato su imposte che hanno come riferimento, per la costruzione della base imponibile, un elemento squisitamente quantitativo ed immediatamente misurabile, ovvero il reddito.

Questa metodologia è incentrata tanto in ambito internazionale quanto in quello nazionale. Esempio tipico, in ambito domestico, è l’IRPEF (che come ben si sa colpisce il reddito delle persone fisiche) e l’IRES (che colpisce le società di capitali).

Tuttavia tale sistema ha riscontrato i suoi difetti non di recente, bensì già con la diffusione delle imprese multinazionali che, trovando delle scappatoie nei difetti di legge o comunque sfruttando le asimmetrie informative tra i diversi Paesi, sono riuscite ad effettuare delle massicce pianificazioni fiscali, sottraendo per anni ed anni una importante fetta di materia imponibile ai Paesi che ne erano effettivamente legittimati alla riscossione (o comunque una riscossione più importante di quelle effettivamente realizzata).

Questa situazione poi è andata aggravandosi sempre più con l’avvento dell’economia immateriale, ove è ancora più semplice effettuare delle operazioni di shifting di profitti, dato dal fatto che è quasi impossibile tenere traccia di tutte le operazioni compiute o quantomeno trovare in maniera rapida una loro allocazione ben precisa.

Detto ciò sembrerebbe molto più ragionevole iniziare a sviluppare dei nuovi criteri di tassazione, ed abbandonare quelli tradizionali ormai ritenuti obsoleti, andando and individuare delle nuove basi imponibile che vadano ad integrare, o addirittura sostituire, le imposte sul reddito societario.

Si possono fondamentalmente identificare tre diversi gruppi di imposta che andrebbero meglio a colpire i redditi, ma ponendo un’attenzione particolare adesso anche al concetto di valore, creato dalle piattaforme digitali, oppure in modo molto più generico, dagli operatori protagonisti dell’economia digitale. Tali gruppi sono:

  • Imposte specifiche, le quali vengono commisurate agli elementi quantitativi12 relativi ai fattori che sono a monte della catena di creazione di ricchezza/valore nei settori digitali. È questo un criterio di tipo quantitativo utile per l’identificazione della base imponibile di imposte speciali integrative dell’imposta sul reddito;

  • Imposte commisurate al valore delle transazioni compiute (o comunque al fatturato complessivamente realizzato in un determinato Paese). Tale criterio fonda il suo ragionamento sul fatto che, in presenza di attività digitali, il fatturato realizzato da tale tipologia di imprese, può permettere una indiretta determinazione/quantificazione del reddito13. Difatti, sotto determinate condizioni, i ricavi così ottenuti possono essere considerati una proxy degli effettivi profitti conseguiti, così da costruire una base imponibile alternativa al reddito14. In questo modo si permetterà al Paese competente di prelevare la giusta quantità di gettito relativa alla quota di valore aggiunto ivi prodotto (dagli stessi consumatori/utenti);

  • Destination-Based Cash Flow Tax15. Come l’imposta di cui al punto II, anche questa è da intendersi alternativa al reddito d’impresa e presenta alcune peculiarità. Tale tipologia d’imposta, infatti, è ritenuta molto adatta per un mercato padroneggiato da servizi digitali in quanto non tiene conto della residenza dell’impresa (né tantomeno della localizzazione delle sue ipotetiche infrastrutture produttive) e si basa solamente sulla localizzazione dei consumatori/utenti, andando quindi a risolvere a monte il cruciale problema di attribuzione geografica del reddito prodotto, e dei conseguenti problemi ad esso attinente. Il ragionamento di fondo è quello di variare il nexus sul quale basare la localizzazione della produzione di reddito/valore.


Tuttavia, se a primo impatto può sembrare un’idea molto appetibile e di portata risolutiva, numerose sono le difficoltà applicative che la caratterizzano. C’è innanzitutto da precisare che già da un punto di vista tecnico-informatico non è sempre agevole individuare con esattezza la posizione dell’indirizzo IP sul quale opera il server legato alla piattaforma digitale da prendere in considerazione. Invece, per quanto concerne un punto di vista prettamente economico-fiscale, un’imposta avente come base imponibile il cash-flow non potrebbe essere applicata alle sole imprese digitali, bensì a tutte le società di capitali, ed andrebbe quindi a scontrarsi con l’attuale sistema generale (internazionale) di imposizione basato sul reddito. Di conseguenza, tale criterio, necessiterebbe di un adeguamento internazionale all’adozione di tale prassi onde evitare creazione di distorsioni di mercato e discriminazioni16.


4. Il percorso dell’OECD: l’Action Plan e il concetto della «PES»

Le pratiche di profit shifting sono da anni oggetto di studio sia dell’OECD che del G20, i quali nel 2013, in collaborazione, hanno pubblicato un «Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting» (BEPS) contenente le basi per una strategia generale di contrasto alle pratiche di elusione fiscale internazionale che, come sinora detto, si traducono in fenomeni di erosione della base imponibile delle imposte sul reddito.

Dallo studio del fenomeno e dal materiale prezioso fornitoci in tale sede, è possibile constatare che l’erosione della base imponibile è il fenomeno di due concause:

  • La scarsa sincronia e le disomogeneità nelle normative civilistiche e fiscali in sede internazionale, appesantita poi dalla concessione, da parte dei singoli Paesi, di agevolazioni, trattamenti preferenziali e vari regimi di favore atti ad attirare e trarre nel proprio territorio la localizzazione di imprese (o comunque di diverse forme di investimento) e che quindi favoriscono il cosiddetto «arbitraggio fiscale»;

  • Lo sfruttamento delle opportunità di cui al punto I da parte delle imprese multinazionali attraverso pratiche di pianificazione fiscale “aggressiva”17.


In questo paragrafo si entrerà nella competenza dell’Action 1 intitolata «Tax Challenges Arising from Digitalisation», da cui emerge un rilievo interessante in merito alla questione delle conseguenze fiscali della digitalizzazione.

Innanzitutto si chiarisce che, secondo quanto riportato dall’OECD, è vero che la fornitura di servizi digitali favorisce le opportunità di erosione, ma non è da considerarsi come un fenomeno a sé stante, in quanto andrebbe comunque inserito tra le diverse problematiche legate all’utilizzo degli strumenti digitali nel sistema economico attuale. Così come i fenomeni elusivi delle imprese digitali vanno raggruppati con quelli praticati, più in generale, dalle grandi imprese multinazionali.

Nel 2015, la stessa OECD, ha individuato dei punti chiave e dei rilevanti aspetti di ordine economico-tributario, strettamente legati tra loro, legati alla digitalizzazione dell’economia:

  • La rilevanza dei dati, da intendersi in ogni fase di produzione del valore corrispondente all’erogazione del prodotto/servizio digitale;

  • Il «nexus» tra svolgimento di una determinata attività economica in un Paese e il diritto di questo a riscuoterne le corrispondenti imposte;

  • La corretta considerazione che, da un punto di vista fiscale, dovrebbero avere i pagamenti ricevuti a fronte dell’erogazione di servizi mediante strumenti digitali e in base a quale criterio questi generino reddito/valore.


I punti II e III ci permettono di localizzare il luogo di generazione del reddito/valore e quindi di allocarlo alla giurisdizione competente; il punto I, invece, pone il problema legato alla determinazione del valore di tale reddito/valore e come questo viene distribuito in tutte le fasi del processo produttivo.

Giunti a tale punto, si può passare all’osservazione del nuovo criterio di collegamento introdotto nel rapporto OECD. Tale criterio, di portata decisamente interessante, si basa sul concetto di «Presenza Economica Significativa» (PES), ovvero si va ad abbandonare la nozione «tradizionale» di “sede fisica”18, inserendo quali nuovi criteri d’identificazione:

  • Il fatturato;

  • Numero di clienti/utenti facenti capo a ciascuno dei Paesi in cui l’attività è svolta.


Tale meccanismo (ovvero quello dalla PES) si basa su fattori che, come si diceva, dimostrano effettivamente un’interazione mirata e duratura con l’economia del Paese della fonte attraverso l’impiego di mezzi tecnologici e l’utilizzo di procedure automatizzate. È infatti raccomandato che i fattori basati sui ricavi siano associati ai fattori digitali (ad esempio un dominio locale) e/o ai fattori basati sugli utenti (ad esempio il numero dei contratti conclusi mediante una piattaforma digitale) per determinare l’esistenza della «PES»19.

Il tema della PES è stato successivamente ripreso in una Policy Note nel gennaio del 2019 (OECD, 2019b)20, nella quale vengono presentate le possibili alternative e si propone che le future soluzioni si basino su due pilastri (Pillar):

  • Pillar One, rappresentato da un riesame delle regole che determinano l’allocazione dei profitti nei diversi Paesi ed il nesso esistente tra la presenza economica di un’impresa in un Paese anche in assenza, quindi, di presenza fisica ed il diritto di questo a tassarne i redditi sulla base del ragionamento sinora esposto;

  • Pillar Two, costituito dall’insieme di regole atte a garantire un ammontare minimo di imposte21 che le imprese multinazionali sono tenute a versare nei Paesi in cui operano (e quindi generano valore), ponendo così dei limiti alla possibilità di adottare delle strategie di profit shifting.

È indubbiamente interessante la visione che l’OECD ha e quelle che sono le eventuali state future da intraprendere, tuttavia, non ha ancora proposto delle soluzioni specifiche da adottare.

Possiamo quindi evidenziare che l’OECD fonda il proprio ragionamento su due punti chiave:

  • Non abbandona la storica impostazione di un’imposta societaria che ha come base imponibile il reddito d’impresa, non rinunciando però a ricercare dei validi strumenti che potrebbero comunque spingere verso il ricorso a basi imponibili alternative e/o sostitutive22 per la tassazione delle imprese digitali (non escludendo l’ipotesi anche per le altre forme d’impresa);

  • Coinvolgere sia l’intera platea di Paesi del mondo che tutti gli studiosi, tecnici ed operatori al fine di pervenire a soluzioni, risultanti dalla loro collaborazione, condivise a livello internazionale e minimizzarne il rischio di errori.


5. L'introduzione della «stabile organizzazione digitale» nel TUIR

Un rilievo di fondamentale importanza è da ricondurre all’art. 1, co. 1010, della Legge di Bilancio 2018 che introduce delle significative modifiche all’art. 162 del TUIR, dedicato alla disciplina della stabile organizzazione.

Bisogna però a monte chiarire che, sebbene la revisione del concetto di nexus rappresenti una indiscutibile priorità ed un punto di elevata importanza, la disciplina internazionale di riferimento è da ricercarsi nell’art. 5 del modello OCSE, rimasto però immutato nonostante le recenti modifiche introdotte nel 2017.

Sulla base di quanto finora detto, e tenendo conto delle osservazioni che si faranno nei prossimi paragrafi, appare evidente che ciò che impedisce di adeguare l’istituto della stabile organizzazione ai mutamenti generati dalla digitalizzazione dell’economia è la perdurante assenza, in ambito internazionale, di una soluzione comune sulle necessarie ed urgenti misure da adottare.

L’art. 1, co. 1010 della Legge di Bilancio 2018, come si diceva, ha inserito nell’art. 162, co. 2, del TUIR, una nuova lettera f-bis), che va ad aggiornare ed integrare la positive list contemplata dalla norma e andando a prevedere l’identificazione di una stabile organizzazione anche quando vi sia «una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio dello stesso».

Come si è visto però nel paragrafo 4, tale approccio ha però mostrato dei delicati tratti di inadeguatezza, ragion per cui in seno all’OCSE si è invece suggerito di introdurre un concetto di nexus completamente nuovo, ovvero quello della Presenza Economica Significativa.


6. La posizione dell’Unione Europea: la proposta di Direttiva COM(2018)147 final e la proposta di Direttiva COM(2018)148 final

L’Unione Europea scinde la propria corrente di pensiero per quanto concerne le pratiche di profit shifting delle imprese «tradizionali» da quelle prettamente digitali, ponendo la dovuta attenzione al diverso grado di digitalizzazione dei diversi settori dell’economia.

Volendo porre l’attenzione sulle imprese digitali ci si limita a riportare che per quanto concerne tutte le tipologie di imprese sono state proposte23, prima nel 2011 e poi nel 2016, due direttive che stabiliscono regole per definire una Common Corporate Tax Base (CCTB) ed una Common Consolidate Corporate Tax Base (CCCTB) per l’unificazione di un bilancio mondiale da parte delle società multinazionali24.

Focalizzandoci invece su ciò che abbraccia l’economia digitale dobbiamo tornare all’anno 2018, quando sono state proposte due direttive interessanti25, ovvero la n. 147 (comprehensive solution) e la n. 148 (targeted solution).

Bisogna anche specificare che ciò che ha indotto l’Unione Europea ad emanare tali direttive con una certa urgenza è stata la paura legata alla volontà di alcuni Paesi membri di introdurre autonomamente una web tax, andando poi questa eventuale situazione a distorcere e rendere ancor più disomogeneo il mercato26.

Entrando nel merito, la direttiva n. 14727 (2018b) istituisce delle norme che vanno a rivisitare e ad ampliare il tradizionale concetto di stabile organizzazione, con la finalità di farne rientrare anche il concetto di PES, definendone i concetti e fissandone le condizioni a seconda dei diversi Paesi in cui verrebbe applicata.

La direttiva n. 14828 (2018b), invece, istituisce in via provvisoria, ed in attesa di una soluzione globale in tema di imposta sui servizi digitali, un’imposta indiretta sui servizi digitali29 (c.d. ISD) con aliquota del 3% da applicare ai ricavi lordi, al netto dell’IVA e di eventuali ulteriori imposte analoghe, derivanti dalla fornitura di servizi digitali da parte di imprese che rispettino precisi limiti dimensionali, ovvero:

  • Ricavi a livello globale superiori a 750 milioni di euro;

  • Ricavi, realizzati nell’area dell’Unione Europea, superiori ai 50 milioni di euro (e subordinatamente ad alcune condizioni relative alla localizzazione degli utenti in uno Stato membro dell’UE).

Le due proposte di direttiva, però, ancora oggi non hanno trovato applicazione, rimandando la corrente di pensiero alle iniziative proposte nel progetto OECD-G20.


7. La svolta dell’OECD: l’Unified Approach e il Blueprint (2020)

Bisogna innanzitutto premettere che a seguito della pandemia da Covid-19, i diversi sistemi economici hanno accelerato sensibilmente il processo di digitalizzazione e lo sviluppo dei servizi digitali come l’impiego ormai sempre più diffuso dello smart working.

Tutto ciò ha indirettamente aiutato il percorso dell’OECD che nel 2020 (gennaio) ha approvato, in collaborazione con il G20, l’Inclusive Framework on BEPS30, a seguito di una proposta presentata dal Segretario dell’OECD31 nel mese di ottobre 201932.

Tale documento focalizza la sua attenzione al Pillar One della Policy Note del 2019 e definisce uno Unified Approach.

L’idea che caratterizza tale decisione è quella di sviluppare un approccio che possa favorire una conciliazione e la giunta di un accordo tra i diversi Paesi sull’introduzione di nuove regole di tassazione che non riguardino nello specifico solo e soltanto le web companies, ma più in generale, tutte quelle aziende che operano in ambito internazionale anche mediante i canali tradizionali di vendita, fatta eccezione per i modelli «B2B».

Tali regole sembrano proprio basarsi su una concezione di mercato assai più ampia, molto più attuale, abbandonando quindi la necessità di ritrovare una presenza necessariamente fisica in un determinato Paese e andando ad agire, sulla base del nuovo nexus, sul volume delle vendite effettuate in un dato Paese. Ovviamente, non vi è una regola generale che definisce una soglia «standard» per assoggettare a tassazione una determinata impresa, bensì tali parametri verranno adattati alle caratteristiche dei diversi Paesi, in modo da garantire gettito fiscale anche a quelli di minori dimensioni.

Volendo nel concreto schematizzare i punti chiave di tale nuova proposta, si ha quanto segue:

  • E’ stata dichiarata l’intenzione di considerare specificamente le attività economiche caratterizzate da elevata digitalizzazione33;

  • La definizione di una nuova regola di allocazione dei profitti conseguiti dalle imprese multinazionali. Tale nuova regole comporta la suddivisione dei profitti in tre quote differenti:

- «Importo A» da determinarsi sulla base del fatturato (consolidato di gruppo) realizzato da un’impresa in un dato Paese a prescindere dalla presenza fisica e localizzazione diretta in esso;

- «Importo B» e un «importo C» determinati applicando le tradizionali regole di allocazione degli utili (comprendenti questa volta la considerazione della presenza fisica). Tale allocazione ovviamente discenderà dalle risultanze di bilancio (da intendere quest’ultimo consolidato a livello mondiale).

Un ulteriore passo in avanti, da parte della collaborazione basata sul binomio OECD-G20, è stato poi compiuto il 14 ottobre 2020 con l’approvazione del c.d. Blueprint34. Tale elaborato contiene un Rapporto preparato dal gruppo di lavoro sul BEPS che tiene conto sia di quanto proposto nel Pillar One e nel Pillar Two, sia del Unified Approach sinora esposto, offrendo un insieme articolato di proposte operative.

Merita particolare attenzione la linea operativa perseguita verso il Pillar One, andando a prevedere delle proposte relative al “nesso” e all’allocazione dei profitti “contesi” fra i diversi Paesi.

È stato innanzitutto chiarito che la quota parte di utili conseguiti (sia da singole imprese che da gruppi multinazionali) e facenti capo all’«importo A» viene tassata in un determinato Paese, rispetto ad un altro, subordinatamente a due condizioni:

  • Devono essere svolte determinate attività digitali, la cui elencazione è raccolta nei due gruppi dei servizi digitali automatizzati (Automated Digital Services)35 e delle attività economiche direttamente offerte ai consumatori (Consum Facing Business);

  • Superamento di due soglie di fatturato, una in termini globali e l’altra relativa ai ricavi di sola fonte estera36.

È chiaro quindi che sono state previste delle soglie di tassazione andando a percorrere due fini ben precisi:

  • Riduzione al minimo dei costi di adempimento per i contribuenti;

  • Garantire l’agevole gestibili delle nuove norme per le amministrazioni fiscali dei diversi Paesi.

Sempre in riferimento a teli norme, è stata prevista la possibilità di applicare in maniera graduale, partendo in un primo momento con delle soglie più elevate che vadano a colpire le imprese di maggiori dimensioni, per poi effettuare una vera e propria pratica di scrematura, ovvero, andando a colpire in un secondo momento le imprese di dimensioni minori.

Dal quadro operativo così descritto, restano però fuori alcune questioni a cui si sta ancora cercando di trovare una efficace ed efficiente risposta.

Innanzitutto ci si chiede quale possa essere l’effettiva metodologia di calcolo dell’«importo A», quindi come andarne a determinare a quantificare la base imponibile. Dopodiché ci si chiede se l’elenco contenente l’elencazione delle attività digitali rientranti nella sfera di giudizio debba essere ampliato o ridotto (sempre ai fini della determinazione dell’«importo A»).

Sono probabilmente queste le ultime domande a cui il gruppo di lavoro OECD-G20 deve cercare di trovare un’adeguata e rapida risposta, sia perché il contesto economico che caratterizza i nostri tempi è in continua e repentina evoluzione, sia perché diversi sono i Paesi che stanno idealizzando delle web tax domestiche, andando così a porre un ostacolo difficile da superare se si vuole trovare un punto d’incontro a livello internazionale e rendere omogenee le regole appartenenti ad un’economia/mercato che non può più essere localizzato con esattezza dato che supera, senza una possibilità di effettivo tracciamento, tutti i perimetri nazionali.


8. Conclusioni

Numerose sono le difficoltà a cui devono far fronte le istituzioni internazionali, soprattutto se la soluzione da ricercare deve raccogliere il consenso condiviso di tutti i Paesi. È sicuramente complicato ricercare una soluzione che vada correttamente a colpire le imprese digitali e, come si è visto, le imprese multinazionali in genere, senza creare delle situazioni distorsive o comunque minatorie di atteggiamenti anticoncorrenziali.

Tuttavia si condivide la strada che l’OECD e il G20, in collaborazione, stanno prendendo, ovvero l’identificazione di una base imponibile alternativa o sostitutiva che va ad abbandonare la nozione classica di reddito data da una semplice formula matematica, bensì l’individuazione del processo di creazione e la corretta allocazione di materia imponibile alle (eventuali) diverse giurisdizioni competenti. Così come si condivide la pericolosità, nel caso in cui non si giunga ad un’armonizzazione a livello internazionale, di soluzioni autonome domestiche che potrebbero rappresentare un ostacolo difficile da superare.

È pienamente condivisibile la volontà di affidarsi ad una collaborazione attiva da parte sia delle istituzioni internazionali quanto ad una platea ben ampia di studiosi e tecnici della materia, in modo da limitare le possibilità di errore applicativo e metodologico e contrastare, in modo efficace e immediato, le pratiche di profit shifting descritte nel presente articolo.

1 Sono i noti temi del fenomeno BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), da tempo all’attenzione della Task Force dell’OCSE. Il primo rapporto dell’OCSE risale al 2013 (Addressing Base Erosion and Profit Shifting, 12.02.2013).

2 Nell’Unione Europea, ad esempio, l’aliquota fiscale media per un’azienda digitale è del 9,5% rispetto al 23% applicato alle altre aziende, in modo particolare, del ramo manifatturiero.

3 Con il rapporto Carroll del 1933.

4 In ambito nazionale ci si rifà all’art. 162 del TUIR.

5 S. DORIGO, Il superamento dei criteri di collegamento tradizionali” nellepoca delleconomia digitale: le conclusioni dellAG Kokott nella causa Google e la problematica localizzazione del reddito dimpresa, in Riv. dir. trib. online, 06.12.2019.

6 S. NOESS-SCHMIDT, P. SORENSEN, B. BARNER CHRISTIANSEV, V. ZUROLO, C. ZIENAU, J. JUUL HENRIKSEN, J. BROWN, Future taxation of company profits: what to do with intangibles?, Copenaghen Economics, 19.02.2019.

7 https://st.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2016-06-13/febbraio-2014-facebook-acquista-whatsapp-19-miliardi-dollari-190755.shtml?uuid=ADO6hOb&refresh_ce=1

8 Il termine, creato da A. TOFFLER, The third wave, New York, 1980, è divenuto popolare con lavvento di internet e nasce dalla fusione dei termini produttore (Productor) e consumatore (Consumer) e sta ad indicare proprio la nuova figura di consumatore che contribuisce alla produzione del valore.

9 In quanto facente parte del valore aggiunto in esso generato.

10 Le cui regole generali sono state elaborate dall’OECD.

11 Un aiuto importante in tali casi è dato dallart. 5 del Modello OCSE 2017, ovvero la sua più recente edizione. I modelli di convenzione fra Stati diretti alleliminazione della doppia imposizione dei redditi e dei capitali ed alla prevenzione di evasione ed elusione fiscale proposti dallOECD fin dal 1963 sono infatti largamente utilizzati nei trattati bilaterali tra Stati.

12 Ad esempio il numero delle transazioni compiute sulla piattaforma.

13 Soprattutto se si tiene conto che le imprese digitali spesso si trovano ad operare in condizioni in cui i loro costi marginali sono prossimi allo zero, se non addirittura completamente inesistenti. Di conseguenza, i ricavi ottenuti dalla loro attività corrisponderanno sostanzialmente agli effettivi profitti realizzati, salvo l’eventuale presenza di costi fissi quali ad esempio la componente hardware o software.

14 Questa tipologia di imposta è quella proposta dall’Unione Europea per l’introduzione della web tax.

15 Cfr. AUERBACH (2017), DEVEREUX e VELLA (2017) e CARPENTIERI (2019).

16 L. CARPENTIERI, Profili fiscali dell’economia digitale, Napoli, 2019.

17 La Commissione Europea (2012) la definisce la pianificazione fiscale aggressiva consiste nellapprofittare degli aspetti tecnici di un regime fiscale o delle differenze fra due o più regimi fiscali allo scopo di ridurre il debito dimposta”.

18 Di comune accordo con lart. 5 del Modello OCSE e lart. 162 del TUIR, la stabile organizzazione tradizionale” viene così definita: una sede fissa di affari in cui limpresa esercita in tutto o in parte la sua attività”. Difatti, anche nei trattati bilaterali, tale concetto è sostanzialmente usato al fine di determinare il diritto di uno Stato contraente di assoggettare a tassazione gli utili di unimpresa dellaltro Stato contraente.

19 L. CARPENTIERI, Profili fiscali dell’economia digitale, Napoli, 2019.

20 https://www.oecd.org/tax/beps/policy-note-beps-inclusive-framework-addressing-tax-challenges-digitalisation.pdf

21 Mediante l’elaborazione della «global anti-base erosion proposal» (GloBE).

22 Così come esposto nel paragrafo precedente.

23 Entrambe le direttive non hanno ancora trovato applicazione.

24 Cfr. Commissione Europea (2016a) e (2016b).

25 Tuttavia, entrambe le direttive non hanno ancora trovato applicazione a causa delle numerose opposizioni riscontrate dai diversi Paesi nel Consiglio Ecofin del marzo 2019.

26 Cfr. GASTALDI e ZANARDI (2019).

27 https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2018/IT/COM-2018-147-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF

28 https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2018/IT/COM-2018-148-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF

29 Specificamente individuati dall’art. 3.

30 OECD, 2020b.

31 OECD, Secretariat Proposal for a “Unified Approach” under Pillar One, Public consultation document, 9 October 2019 – 12 November 2019, in https://www.oecd.org/tax/beps/public-consultation-document-secretariat-proposal-unified-approach-pillar-one.pdf.

32 OECD, 2019c.

33 Tale parametro è dato dall’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI). La relazioni DESI sono lo strumento con cui la Commissione Europea monitora il progresso digitale degli Stati membri dal 2014.

34 OECD, 2020c.

35 Identificato da una definizione e da due elenchi, uno positivo (di tipo inclusivo) che comporta l’automatica applicazione delle regole relative all’«importo A», ed uno negativo (quindi esclusivo) inerente all’applicazione di tali regole, così che la soggezione di una data attività a quelle regole è subordinata al passaggio di questo doppio test.

36 Così come prefissato nel progetto di Direttiva dell’UE, la soglia è di 750 milioni di euro (Cfr. Commissione Europea, 2018b).