Logo IeD

Lo scopo di lucro identifica il soggetto societario di fatto nei rapporti con l’amministrazione finanziaria

Scritto da Antonio Orlando • giu 2023

Sintesi

SINTESI Il saggio propone un commento alla sentenza della Corte di Cassazione dell’11 marzo 2021, n. 6835, mettendo in luce le principali assonanze e differenze fra la nozione di società di fatto adottata nel diritto ordinario e nell’ordinamento tributario. Attenzione è stata riservata agli elementi probatori necessari per riconoscere l’istituto giuridico de quo nei rapporti con l’amministrazione finanziaria e, in particolare, al ruolo che assume lo scopo di lucro nel qualificare ai fini fiscali un’entità collettiva di natura associativa in un soggetto societario costituito per fatti concludenti.

Abstract

ABSTRACT. The essay analyzes the sentence of the Court of Cassation of 11 March 2021, no. 6835, taking attention on the main aspects of the de facto company established in civil law and in the tax law. The elements of proof established by the civil court to declare the existence of the de facto company are examined in detail, specially the importance of the profit-making requisite. The question was, then, raised as to whether this element is equally important in dealings with the Tax Authorities.

Contenuto


1. Osservazioni preliminari

Il termine “società di fatto”,1 o per facta concludentia, è generalmente impiegato nel diritto vivente per indicare quel soggetto societario con il quale due o più persone, senza aver preventivamente pattuito alcun accordo, esercitano in comune un’attività economica, comportandosi di fatto come soci e integrando sostanzialmente la fattispecie prevista dall’art. 2247 cod. civ. La chiarezza dell’espressione “di fatto” pone in risalto e definisce, meglio di qualunque altro, la caratteristica fondamentale di questa particolare forma societaria.2

Ad oggi, tuttavia, l’istituto giuridico de quo non ha ancora trovato una collocazione sistematica nelle norme che compongono il Codice civile; rappresenta, difatti, il risultato di un’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, resa necessaria dal diffuso numero di realità imprenditoriali che adottano questa forma societaria.

Nell’ambito del diritto tributario, invece, il soggetto societario costituito per fatti concludenti trova menzione nei testi di legge che disciplinano i principali tributi,3 al pari dei tipi societari costituiti in modo formale, con una collocazione stabile ed ordinaria nei diversi sub-sistemi fiscali4 – decisamente differente rispetto alla rilevanza solo ipotetica ed incidentale assunta ai fini commerciali5 prova di una particolare attenzione del legislatore fiscale verso i fenomeni di natura fattuale e la loro qualificazione giuridica nel sistema impositivo.6

La recente sentenza della Suprema Corte di cassazione del 11 marzo 2021 n. 6835 offre l’opportunità, fra l’altro,7 di riflettere sull’onere probatorio richiesto per enunciare una società di fatto nei rapporti con l’amministrazione finanziaria, nonché sulla linea di confine fra l’istituto societario de quo e la categoria degli enti a base associativa disciplinati dall’art. 73 TUIR.


2. La vicenda processuale in breve

Nell’arresto giurisprudenziale in narrazione, il Fisco ha indentificato un rapporto giuridico di natura societaria fra i componenti del consiglio direttivo ed il socio fondatore di un ente con personalità giuridica, formalmente costituito sotto forma associativa, procedendo ad emettere i relativi atti impositivi nei confronti dell’ente societario di fatto e, per trasparenza, dei relativi soci.

A fondamento della pretesa erariale sono stati identificati elementi indiziari quali la sostanziale natura commerciale dell’attività svolta dall’ente collettivo, nonché la mancanza di un’effettiva vita associativa e della clausola di democraticità nella gestione, tanto da lasciare invariata nel tempo la composizione dello stesso consiglio direttivo.

Nella ricostruzione dei fatti operata dalla commissione tributaria, l’entità associativa oggetto di riqualificazione giuridica offriva ai propri associati – per il tramite di centri accreditati – dei prodotti e servizi di natura informatica elaborati da AICA (Associazione italiana e il calcolo automatico), svolgendo nella sostanza un ruolo di intermediazione.

Il corrispettivo percepito dagli associati, depurato della quota spettante ad AICA ed ai centri accreditati – rispettivamente per i prodotti e servizi offerti e per le spese di gestione ed istituzionali sostenute – rappresentava la voce predominante delle entrate dell’ente associativo.8

La stessa entità collettiva, tuttavia, registrava una perdita di esercizio dovuta essenzialmente a generosi compensi erogati ai componenti del consiglio direttivo ed al socio fondatore; tali erogazioni sono state assimilate, per dimensione e modalità di determinazione, a distribuzione di utili a soci.9

I giudici di seconde cure hanno, altresì, rimarcato lo svuotamento della clausola di democraticità; difatti le deliberazioni dall’ente associativo sono state assunte sempre in seconda convocazione con il voto esclusivo dei componenti del comitato direttivo.

Su queste argomentazioni, le commissioni tributaria provinciale e regionale si sono pronunciate a favore della riqualificazione dell’ente non commerciale in una realtà imprenditoriale orientata al perseguimento di un utile.

I giudici di legittimità, condividendo le argomentazioni proposte dalle corti di merito, non hanno ritenuto meritevoli di accoglimento le doglianze della parte ricorrente, la quale ha contestato la riqualificazione dell’ente associativo in una società di fatto sostenendo che la stessa associazione è stata destinataria di un provvedimento amministrativo di riconoscimento di ente non commerciale con personalità giuridica e, come tale, non si è mai palesato diversamente innanzi ai terzi.

La Suprema corte, sul punto, ha sottolineato che il giudizio di merito è stato improntato sulla valutazione della “concreta attività dell’ente (che svolgeva una attività imprenditoriale) e dei componenti del comitato direttivo (che, di comune accordo ed attraverso il conferimenti dei servizi lavorativi da loro svolti all’interno dell’associazione, hanno dato direttive e disposizioni sulla gestione dell’ente, organizzando l’attività economica e fissando, fra l’altro, l’ammontare dei corrispettivi per le prestazioni fornite agli utenti finali, con conseguente determinazione del margine di guadagno assicurato all’ente, ossia dell’utile d’impresa poi ripartito fra di loro), concludendo, con accertamento in fatto, che [l’ente associativo in narrazione, ndr] ha operato come una società di persone”.

In ultimo, richiamando precedenti orientamenti giurisprudenziali di legittimità,10 la Corte di cassazione ha sentenziato che per l’enunciazione di un soggetto societario di fatto è sufficiente l’esistenza di una causa lucrativa e di un accordo, anche solamente verbale, nonché la ricognizione dei criteri di cui all’art. 2247 cod. civ., «atteso che la disciplina tributaria (…) non richiede, per la tassazione del reddito di una società di fatto, altro requisito se non la ravvisabilità nel suo oggetto dell’esercizio di un’attività commerciale, e che la costituzione di una società è ammessa anche per l’esercizio occasionale di attività economiche».


3. La società di fatto nel diritto tributario ed il quadro normativo di riferimento

Le argomentazioni addotte dai giudici di legittimità rendono doverosa una prima riflessione sulla nozione di società di fatto valevole nella branca del diritto tributario che, inevitabilmente, si riflette sull’onere probatorio necessario per enunciare una società di fatto nei rapporti con l’amministrazione finanziaria.

Come anticipato precedentemente, l’organo legiferante ha evitato di utilizzare la locuzione “società di fatto” nelle norme introdotte con il Regio decreto 16 marzo 1942, n. 262, preferendo rivolgersi, unicamente, alla società in nome collettivo ed in accomandita semplice per offrire una disciplina alla categoria delle società di persone per le quali non è avvenuta la regolare iscrizione nel registro delle imprese; a queste due tipologie di società irregolari sono dedicati rispettivamente gli artt. 2297 e 2317 cod. civ.11

In coerenza con il principio di tipicità degli enti societari sancito dal legislatore ordinario, nel diritto vivente la società per facta concludentia non è definita come un istituto giuridico atipico, ma assume il significato di una mera variante negoziale di una delle tipologie già istituzionalizzate nell’art. 2249 cod. civ.; essa rappresenta l’espressione della libertà delle forme prevista per le società di persone,12 in opposizione al principio di solennità della forma caratterizzante la categoria delle società di capitali.

Diversa è, invece, la tecnica di produzione normativa adottata dal legislatore in ambito fiscale, con la ripetizione dellistituto giuridico de quo nel testo di legge dei principali tributi. Siamo in presenza di un rinvio di tipo esplicito,13 adottato dall’organo legiferante tanto nel Testo Unico dell’imposta sui redditi (artt. 5, comma 3, lett. b. e 65, comma 3), quanto nell’imposizione indiretta, ove trova accoglimento nel Decreto IVA (art. 4, comma 2, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), nel Testo Unico relativo alle imposte ipotecaria e catastale (art. 10, comma 2, D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347) e nel Testo Unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro (art. 4, comma 1, D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131).

Da una prima analisi dei testi di legge enunciati si può ritenere che questa tecnica normativa risponda ad una necessità di semplificazione costruttiva, che si ripropone ogni qualvolta l’esigenza di disciplinare specifici fenomeni estranei al diritto tributario porta l’autorità legiferante a preferire il collegamento ad altri settori giuridici, in cui gli stessi fenomeni sono già regolamentati.14

Tuttavia, non sono mancate critiche da parte di certi cultori del diritto tributario che hanno definito la ripetizione dell’istituto giuridico de quo quale inutile duplicazione,15 poiché fra i soggetti passivi dell’obbligazione tributaria sono state già contemplate le società di persone, di cui la società di fatto ne rappresenta una particolare forma costitutiva.

La scelta di questa tecnica di produzione legislativa può, inoltre, sollevare dubbi sull’intenzione del legislatore fiscale di attribuire all’istituto societario di fatto un significato ed una disciplina diversi rispetto al settore giuridico di appartenenza.

Tale ipotesi è corroborata anche da alcune infelici interpretazioni offerte dall’amministrazione finanziaria che sembrerebbero tendere verso il qualificare ai fini fiscali la società di fatto come soggetto societario atipico,16 discostandosi dalla definizione giuscommercialista di variante negoziale delle società a base personale enunciate nell’art. 2249 cod. civ.17

Nonostante questi dubbi ermeneutici, parte della dottrina tributaristica è concorde nel riconoscere l’esistenza, nell’ambito dell’imposizione diretta, di un parallelismo fra le disposizioni dell’art. 5, comma 3, lett. b TUIR ed il contenuto dell’art. 2249, commi 1 e 2 cod. civ.;18 mentre, si ritiene che nell’imposizione indiretta sia stato disposto un mero rinvio all’istituto extrafiscale senza alcuna indicazione sulla norma da applicare.19

Il legislatore ordinario, nell’art. 2249 cod. civ. ha previsto, in via generale, una disciplina diversificata a seconda dell’oggetto dell’attività svolta dal soggetto societario costituito per fatti concludenti.

Sull’abbrivio dell’interpretazione letterale della norma civilistica, la società di fatto, che esercita un’attività diversa da quella commerciale, è assoggettata alla disciplina della società semplice. Secondo l’interpretazione dottrinale consolidata, invece, il soggetto societario di fatto che svolge un’attività di natura commerciale è regolato dalle norme della società in nome collettivo irregolare; il silenzio da parte dei soci sul tipo societario da adottare è assunto, dai cultori del diritto commerciale, quale scelta implicita di questo schema societario.20

Anche il legislatore fiscale nell’art. 5, comma 3, lett. b TUIR, tiene conto dell’oggetto dell’attività esercitata dalla società di fatto per determinare la disciplina di riferimento, riproponendo essenzialmente la stessa distinzione prevista nel settore di origine dell’istituto.21 La società costituita per facta concludentia è equiparata ad una società in nome collettivo qualora l’attività abbia natura commerciale; in alternativa, occorre applicare il regime fiscale della società semplice.22

Verificata la corrispondenza nelle loro linee fondamentali fra le discipline dei due diversi rami del diritto,23 si può concludere riconoscendo l’assenza nel settore tributario di un’autonoma definizione di società di fatto. Sono condivisibili, quindi, le teorie dottrinali che ritengono ai fini fiscali l’assunzione tout court della nozione commercialistica dell’istituto de quo,24 nonostante alcuni termini inappropriati adottati dal legislatore.25

Nell’esaminare le disposizioni dell’art. 5, comma 3, lett. b TUIR, diverse autorevoli voci della dottrina hanno sollevato critiche verso la tecnica di produzione normativa scelta dall’organo legiferante.

La ripetizione di nozioni di natura extrafiscale è stata considerata un sintomo di carenza di attività creativa da parte del legislatore fiscale, che si palesa in un testo di legge ridondante a causa dell’inserimento di elementi superflui.26 Tuttavia, questa modalità di produzione normativa trova giustificazione nella necessità di offrire una maggiore chiarezza ed evitare dubbi interpretativi sul campo di applicazione di ogni singola imposta, a beneficio della completezza del testo di legge.27

Negli stessi termini si sono espressi anche altri autori, che hanno posto in relazione l’esigenza di una maggiore chiarezza del testo di legge con il bisogno di offrire all’amministrazione finanziaria una rapida e diretta informazione sui soggetti coinvolti dalla norma.28

Condividendo le osservazioni fin qui esposte, si ritiene di poter includere il testo dell’art. 5, comma 3, lett. b TUIR, fra i tanti esempi di una tecnica di produzione legislativa ispirata al metodo casistico, adottato da tempo dal legislatore fiscale. Questo metodo, benché garantisca una maggiore certezza del diritto, è concausa dello sviluppo di un sistema fiscale lacunoso e privo di principi generali, indispensabili per un maggiore coordinamento nella materia fiscale.29

Inoltre, la tipizzazione dell’istituto societario di fatto in ogni testo di legge è sentore di un sistema fiscale polisistemico, ove ogni tributo si configura come un sub sistema autonomo.30 Ne deriva che, a sommesso avviso dello scrivente, la disciplina della società di fatto possa assumere sfumature interpretative differenti fra i diversi tributi.

In particolare, le disposizioni contenute nel Testo Unico del 1986 hanno natura di norme speciali valevoli solo nel campo dell’imposizione diretta. Questo assunto è corroborato dall’assenza nella tassazione indiretta della società di fatto di principi di coordinamento, o di rinvio, al DPR. del 22 dicembre 1986, n. 917.31

Diversa è, invece, la tecnica di collegamento interna adottata nell’art. 3, comma 1, D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, ove si è preferito non riportare il nomen dell’istituto giuridico de quo, bensì operare un rinvio all’art. 5, comma 3, TUIR.32 In tal modo, l’organo legiferante ha inteso richiamare nel sub settore dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive l’intera disciplina prevista dal Testo Unico del 1986, a vantaggio di un migliore coordinamento nel sistema impositivo.33

Si può concludere che tanto per l'imposizione diretta, quanto per quella indiretta, il legislatore non ha elaborato una nozione innovativa di società di fatto dissimile da quella adottata nel diritto commerciale.34 La disciplina di riferimento resta quella definita dal ramo del diritto di provenienza che necessita, comunque, prima della sua adozione nel sistema fiscale, di uno studio di compatibilità con i principi dell’ordinamento tributario.

Tuttavia, a differenza del sistema delle imposte indirette, nel TUIR sono previste delle disposizioni aventi valore di norme speciali che trovano applicazione in deroga alla disciplina ordinaria della società a base personale.

In particolare, nel Testo Unico del 1986 si possono distinguere le disposizioni espressamente destinate alla società di fatto (presenti negli artt. 5, comma 3, lett. b. e 65, comma 3), dalle altre che delineano il profilo fiscale delle società di persone, applicabili anche alla società per facta concludentia in ottemperanza all’equiparazione prevista dall’art. 5, comma 3, lett. b TUIR.35

In ultimo, parte della dottrina sostiene che alla società di fatto – quale particolare forma di società a base personale – si possa estendere, in via ermeneutica, anche la disciplina delle società di capitali, compatibile con le peculiarità del soggetto societario di fatto. Le norme contenute nel Titolo II del TUIR, infatti, trovano applicazione alle società prive di personalità giuridica in via residuale, per quanto non disposto dal Titolo I, Capo VI dello stesso Testo Unico.36


4. L'onere probatorio della società di fatto innanzi all'amministrazione finanziaria

Stabilita la nozione di società di fatto valevole nel diritto tributario è necessario interrogarsi sulla rilevanza che possono assumere nei rapporti con l’amministrazione finanziaria gli elementi probatori che la giurisprudenza ordinaria ha ritenuto necessari per il riconoscimento di un rapporto societario costituito in via comportamentale.37

L’azione accertativa di una società per facta concludentia è, difatti, in primis un giudizio di fatto,38 ossia un’attività di carattere conoscitivo di tipo storico39 che, basandosi su prove ed elementi indiziari, è volta ad accertare la verità o la falsità dei fatti controversi. Nel nostro caso, questa è volta ad accertare l’esistenza, o meno, di una organizzazione societaria carente di un atto costitutivo in forma scritta e orale.40

Secondo un consolidato orientamento dei giudici di legittimità,41 affermatosi in materia fallimentare, è possibile offrire la prova dell’esistenza di una la società di fatto secondo due ordini di indagini differenti ed indipendenti: sul piano dei rapporti interni nei confronti dei soci ed in relazione ai rapporti esterni dei terzi-creditori.42

Con riguardo ai primi, l’ente societario è visto come un contratto di durata, la cui pubblicazione non incide sulla sua efficacia. La giurisprudenza, su tale abbrivio, ha sancito l’esistenza di un soggetto societario per facta concludentia in presenza dei requisiti tipici del contratto societario enunciati nell’art. 2247 cod. civ.,43 quali: (i) la sussistenza di un fondo comune costituito dai conferimenti effettuati dai soci,44 (ii) la condivisione di un’alea comune tra gli stessi nei guadagni e nelle perdite45 e, in fine, (iii) l’elemento soggettivo dall’affectio societatis.46

Nei rapporti con i terzi, invece, la prova del vincolo sociale si fonda su elementi puramente indiziari dell’esteriorizzazione del rapporto sociale, frutto di un agire uti socii da parte degli associati.47

L’onere probatorio legato all’esistenza della società di fatto si atteggia, quindi, in modo diverso a seconda che si tratti di rapporti interni tra soci o con terzi esterni.48 Secondo un certo orientamento della Corte di Cassazione, il giudice ordinario nella verifica dell’esistenza di un soggetto societario costituito su base fattuale nei rapporti interni deve ricostruire ed interpretare la reale volontà delle parti; mentre nei rapporti con i terzi, la stessa autorità giudicante deve prestare la propria attenzione, essenzialmente, alle manifestazioni esteriori significative dell’esistenza di un’affectio societatis, le quali abbiano determinato negli stessi terzi un affidamento meritevole di tutela.49

Il maggiore onere probatorio richiesto in caso di controversie fra i soci può essere spiegato da una condizione di uguaglianza dei soggetti coinvolti, che sono a conoscenza dell’esistenza di un rapporto sociale in quanto da loro stessi voluto ed accettato, anche per facta concludentia. L’associato, in quanto tale, dovrebbe essere nelle condizioni di provare la sussistenza dei requisiti minimi del contratto societario enunciati nell’art. 2247 cod. civ.

Qualora, invece, siano coinvolti soggetti estranei alla compagine sociale, è ammesso un regime probatorio meno rigido del precedente, dove è sufficiente offrire prova della rappresentazione esterna del rapporto associativo, fondata su elementi indiziari non equivoci di un atteggiamento di cooperazione di due o più persone, tale da determinare il legittimo convincimento dei terzi di un agire uti socii.50

Si ritiene, quindi, che in giurisprudenza sia pacificamente accettata la posizione di svantaggio del terzo, che difficilmente potrebbe accedere ad elementi probatori sufficienti per dimostrare le componenti interne di un contratto previste dall’art. 2247 cod. civ., di cui non è parte.51

La dimostrazione dell’esistenza di una società di fatto assume rilevanza – e dunque interessa il diritto – poiché implica la responsabilità dei soci verso i terzi e stabilisce un vincolo di destinazione ai beni conferiti, acquistati o creati nel corso dell’attività d’impresa.52

Importanti sono anche le conseguenze di natura tributaria, in quanto il riconoscimento di un soggetto societario su base fattuale comporta l’insorgere di vari obblighi tributari sostanziali e strumentali, che trovano spiegazione nel carattere stabile ed ordinario assunto dalla società di fatto nei diversi sub sistemi fiscali, a differenza del ruolo solo ipotetico ed accidentale destinato all’istituto societario nel diritto commerciale.53

Questo comporta che le osservazioni sul giudizio di fatto che il giudice ordinario è chiamato a condurre per dimostrare l’esistenza di una società per facta concludentia non hanno valore tout court nel settore del diritto tributario.54 Segnatamente i mezzi di prova necessitano delle dovute riflessioni ed adattamenti,55 posto che l’amministrazione finanziaria si pone in una posizione sostanzialmente intermedia fra il socio ed il terzo e, benché sia esonerata dal rigido onere probatorio dei requisiti minimi del contratto societario, è chiamata ad offrire una prova più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal principio dell’apparenza giuridica.56

L’ente impositore si colloca come soggetto esterno rispetto alla compagine sociale e rappresenta uno dei creditori privilegiati della stessa società.57

Tuttavia, benché il Fisco si possa annoverare fra i terzi creditori,58 la dottrina è concorde nell’escludere che l’affidamento dei terzi in buona fede sia un’esigenza primaria per la disciplina fiscale.59

Non sono mancate, altresì, argomentazioni a favore dell’applicazione all’Ente impositore della disciplina probatoria dei rapporti interni, poiché l’esistenza dell’accordo societario rappresenta il presupposto della stessa fattispecie impositiva, da cui scaturisce il rapporto creditizio di natura tributaria.60

L’onere probatorio previsto per i rapporti interni risulta, inoltre, compatibile con il requisito dell’effettività61 della capacità contributiva62 derivante dal dettato costituzionale dell’art. 53 Cost., a differenza di quanto non lo sia la disciplina probatoria richiesta nei rapporti esterni, fondata sul principio dell’apparenza.63

Se l’amministrazione finanziaria procedesse ad applicare la norma fiscale sulla base di un rigido formalismo legato all’apparenza si potrebbe attribuire un vantaggio ingiusto al contribuente che, perseguendo un interesse finalizzato al risparmio di imposta,64 si fosse adoperato ad alterare la realtà della propria capacità contributiva. Posizioni fiscali oggettivamente e realmente simili, sarebbero assoggettate ad un carico impositivo diverso, in evidente violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione.65

Fondare la pretesa fiscale sull’apparenza porterebbe, quindi, l’amministrazione finanziaria ad adottare degli atti impositivi in palese contrasto con i principi di buona fede e dell’affidamento sanciti dall’art. 10 dello Statuto del Contribuente.66

Non conforme ai principi dell’ordinamento tributario sarebbe, inoltre, invocare la responsabilità di chi abbia assunto comportamenti uti socius per debiti fiscali derivanti dalla partecipazione ad una società apparente, a maggior ragione se si è offerta prova dell’inesistenza del rapporto societario.67

Si può concludere che, contrariamente all’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità in sede di procedure fallimentari, l’obbligazione tributaria non può avere origine da una condizione di apparenza, in quanto i comportamenti dei pretesi soci non generano alcun legittimo affidamento nei confronti dello Stato.68

Nel processo di imposizione tributaria occorre, invece, individuare le concrete fonti di reddito; pertanto, verificare l’effettiva esistenza della società rappresenta il presupposto essenziale per la corretta applicazione del tributo.69

In linea con le considerazioni esposte si pone la valutazione proposta dalla Suprema corte nell’arresto in commento. I giudici di legittimità, difatti, hanno sentenziato che “per aversi una società di fatto (…) è sufficiente l'esistenza di una causa lucrativa e di un accordo, anche solo verbale, nonché la ricognizione dei criteri di cui all'art. 2247 c.c., ossia (…) l'intenzionale esercizio in comune tra i soci di un'attività commerciale a scopo di lucro con il conferimento, a tal fine, dei necessari beni o servizi.

In verità, questa posizione giurisprudenziale ripropone l’interpretazione offerta dalla maggior parte della giurisprudenza di legittimità, che antepone nei rapporti fra contribuente ed amministrazione finanziaria il principio dell’effettività al criterio dell’apparenza.70

Tuttavia, non sono mancate alcune pronunce difformi degli stessi giudici di legittimità, a favore di una prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali fondata su “elementi apparenti e rilevatori, sulla base della prova logica, dei fattori essenziali di un rapporto di società nella gestione dell’azienda”.71 L’errore commesso da questo orientamento giurisprudenziale è di considerare l’Ente impositore alla stregua di qualunque soggetto esterno alla compagine sociale, trascurando l’incompatibilità del criterio dell’apparenza con i principi posti a fondamento dell’agire dell’amministrazione tributaria.

In ultimo, la dottrina ha ritenuto valevoli, per fondare la pretesa tributaria, manifestazioni esteriori univoche ed oggettive riferibili all’esteriorizzazione dell’agire societario.72 Non si ha, quindi, l’apparenza di un soggetto societario, bensì la sua esteriorizzazione,73 intesa quale particolare spendita della ragione sociale.74

A differenza di quanto accade dinanzi al giudice ordinario,75 agli univoci fatti indice di esteriorizzazione dell’ente collettivo è stato attribuito solo un valore sintomatico di una reale esistenza del rapporto societario.76 Gli stessi rappresentano, quindi, degli elementi presuntivi,77 per i quali è ammessa la prova contraria da parte di chi è chiamato a rispondere dei debiti tributari derivanti dall’esistenza del vincolo contrattuale ex art. 2247 cod. civ.

La distinzione tra prova della società di fatto in ambito civilistico e prova della stessa in ambito tributario non risiede, quindi, nella tipologia di elementi o indizi utilizzabili per dimostrare la presenza di un’attività imprenditoriale esercitata in forma societaria.78 In entrambi i casi, ci si può avvalere di una prova di tipo presuntivo, dove i fatti noti dai quali trarre il fatto ignoto possono essere rappresentati da elementi di apparenza del vincolo sociale.79

La differenza fra i due regimi probatori è da ricercare, invece, nella didattica processuale. Nell’ambito del giudizio civile il presunto socio non potrà liberarsi da responsabilità fornendo la prova dell’inesistenza della società; mentre, innanzi alle Commissioni tributarie il contribuente ha la possibilità di contrastare la pretesa impositiva dimostrando che la società non esiste, senza che l’amministrazione finanziaria possa invocare l’apparenza del vincolo sociale, non rappresentando quest’ultima un elemento idoneo a manifestare alcuna capacità contributiva.80

Da quanto riportato, in termini di onere probatorio la posizione assunta dall’amministrazione finanziaria si pone fra il socio ed il terzo creditore;81 ne scaturisce una disciplina speciale valevole solo nei rapporti con il Fisco condizionata dalla compatibilità ai principi generali della materia.82 L’ente impositore, dunque, è esonerato dal dimostrare i requisiti minimi del contratto societario, ma è comunque chiamato ad offrire una prova più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal principio dell’apparenza giuridica.83

I differenti criteri di valutazione ed il grado di apprezzamento del materiale probatorio da adottare in base a chi agisce per dimostrare l’esistenza del soggetto societario, possono determinare asimmetrie nelle conclusioni del processo di accertamento; una collettività di individui potrebbe, quindi, risultare costituita in società dinnanzi al giudice ordinario, mentre agire come singoli individui nei rapporti con il Fisco, o viceversa.84


5. Riflessioni sul confine fra società di fatto ed enti a base associativa disciplinati dall'art. 73 TUIR

Dal corretto inquadramento giuridico di un’entità collettiva scaturiscono significative conseguenze di natura fiscale, nonché l’insorgere di vari obblighi tributari sostanziali e strumentali.85

La semplicità e la flessibilità della forma societaria costituita per fatti concludenti, dovute all’assenza di un’organizzazione formalizzata e di adempimenti burocratici in fase costitutiva, ampia notevolmente il numero di fenomeni a cui l’istituto giuridico de quo si presta ad offrire un’adeguata qualificazione giuridica.86

Pertanto, è opportuno interrogarsi sulla linea di confine che si può delineare fra la società per facta concludentia e la categoria di enti a base associativa87 ricadenti fra i soggetti indicati dall’art. 73, TUIR. In quest’ultima categoria di contribuenti si possono annoverare, fra gli altri, forme aggregative atipiche ex art 73, comma 2 TUIR, id est organizzazioni di individui non istituzionalizzate o – come nel caso dell’arresto in commento – costituite solo formalmente in forme associative non lucrative le quali, tuttavia, in diverse occasioni hanno esercitato sostanzialmente un’attività d’impresa.88

Per quanto concerne la fiscalità di queste forme collettive, dalle disposizioni contenute nell’art. 73 TUIR emerge un’evidente rilevanza attribuita dal legislatore al criterio formale per l’individuazione delle diverse casistiche dei soggetti passivi d’imposta. Elemento centrale sono le informazioni contenute nell’atto costitutivo o nello statuto, da cui si evince la scelta della natura giuridica dell’entità collettiva ed il tipo di attività che si intende esercitare.89

Per un’organizzazione pluripersonale costituita sotto forma di società di capitali il trattamento fiscale è correlato allo stesso tipo societario prescelto e non necessita di alcuna valutazione sull’attività effettivamente svolta.90

Al contrario, per l’ampia categoria degli enti disciplinata dal libro I del Codice civile è rilevante l’oggetto dell’attività esercitata, che permette di distinguere gli enti commerciali da quelli non commerciali e di destinare ad ognuno il proprio trattamento fiscale previsto da legge.

In presenza di entità non istituzionalizzate, prive di un atto costitutivo o di uno statuto, la qualifica dell’oggetto principale è demandata ad un criterio fattuale basato sull’attività effettivamente svolta dall’ente.91

In ultimo, poiché i soggetti associativi aventi natura non commerciale accedono a regimi fiscali di favore, per questi contribuenti il legislatore ha previsto un’ulteriore valutazione secondo dei parametri stabiliti dall’art. 149 TUIR – dell’effettiva attività condotta dell’entità collettiva, nel rispetto delle peculiarità di ogni categoria di ente non commerciale.92

I principi esposti sono valevoli per qualunque organizzazione a carattere associativo, anche non formalizzata, purché soddisfi i requisiti ex art. 73, comma 2 TUIR per essere riconosciuta come soggetti passivi d’imposta.93

Ogni entità pluripersonale può, quindi, svolgere in via esclusiva o prevalente un’attività di natura commerciale, così stabilita sulla base degli accertamenti previsti dagli artt. 73 e 149 TUIR;94 la differenza con le organizzazioni societarie è legata esclusivamente alla scelta degli associati di perseguire una finalità lucrativa.95 Lo scopo di lucro96 è stato considerato, difatti, la linea di confine fra l’istituto giuridico societario e le altre tipologie di organizzazioni a base personale.97

Occorre, tuttavia, porre l’accento sulla necessità che vi sia uno scopo di lucro soggettivo almeno in astratto, in quanto una completa esclusione del diritto alla ripartizione degli utili, prevista da statuto, riporterebbe l’organizzazione collettiva nella categoria delle associazioni non lucrative.98

L’ente associativo, infatti, non potrà mai avere come proprio scopo la distribuzione fra i propri associati dell’utile eventualmente realizzato – c.d. lucro soggettivo – senza trasformarsi in una società, giacché, il fine di lucro può essere solo mediato e strumentale”.99

Queste considerazioni sembrerebbero in linea con l’orientamento espresso dal Ministero dell’economia e delle finanze nella circolare del 12 maggio 1988 n. 124, ove il fine di lucro è considerato assente solo in presenza di un’espressa clausola statutaria che impone il divieto di distribuzione dei dividendi.100

Lo stesso documento di prassi scandisce anche la procedura di ricerca dello scopo primario perseguito dall’organizzazione collettiva – al fine di individuare la natura di ente non commerciale – articolata in una prima valutazione meramente formale e di una successiva verifica su base fattuale.

Condividendo il modus operandi proposto dall’amministrazione ministeriale, si ritiene che per identificare le reali finalità perseguite dagli associati sia necessario, non solo una valutazione dei documenti associativi ma, in via principale, il riscontro della reale destinazione del risultato positivo di gestione.

La prova dell’assenza di uno scopo di lucro soggettivo andrebbe ricercata inizialmente nelle clausole dell’atto costitutivo o dello statuto riferite alla destinazione della ricchezza prodotta dall’ente e, in particolare, al divieto di distribuire la stessa agli associati.

Nella successiva valutazione di tipo fattuale, invece, la dimostrazione dello scopo idealistico si può avere solo offrendo la prova della mancata assegnazione agli associati dei redditi prodotti dall’organizzazione collettiva ed il loro effettivo impiego per finalità di utilità sociale.

Questo onere probatorio, può assumere – in modo particolare in assenza di documenti ufficiali o quando la stessa documentazione risulti del tutto inattendibile – i connotati di una probatio diabolica, in quanto non è sufficiente che sia riferito ad una sola annualità, ma deve consistere nella dimostrazione di una destinazione stabile della ricchezza prodotta in forma associata a finalità non lucrative.101

Anche nella sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno sostenuto la sussistenza di uno scopo di lucro fra gli associati di un ente non commerciale esaminando la destinazione dei flussi di ricchezza prodotti dall’attività esercitata collettivamente; “dal complesso di elementi [è emerso, cdr] che l’ente svolga in concreto una attività commerciale e la corresponsione delle somme percette sia sproporzionata e sostanzialmente ingiustificata sì da assorbire la gran parte dei proventi, distogliendoli dai fini istituzionali e rivelando, per contro, l’effettiva finalità lucrativa dell’ente, orientata all’utile (nella specie, dei soci fondatori componenti del comitato direttivo)”.102

A sommessa opinione dello scrivente, in assenza della prova contraria di natura formale o fattuale, è ragionevole presumere l’esistenza di un fine lucrativo dell’attività commerciale condotta in forma associata a vantaggio dei soci. È, difatti, parere condiviso dai migliori tributaristi che nella commercialità siano insite le condizioni di economicità103 e, di conseguenza, la produzione di un profitto104 e lo scopo di lucro soggettivo.

In conclusione, in presenza di un’entità collettiva di natura associativa, la prova dell’esercizio in misura prevalente o esclusiva di un’attività commerciale può essere considerata condizione sufficiente per il riconoscimento di una fattispecie societaria, salvo non si dimostri la destinazione permanente ed in misura integrale del risultato positivo di gestione a finalità idealistiche.

Accertata la presenza di un’organizzazione pluripersonale esercente attività commerciale con il fine di perseguire un vantaggio per i propri membri, la corretta qualificazione giuridica è da ricercare nella categoria delle società di persone, anche se gli stessi associati non hanno proceduto a costituirsi formalmente secondo uno dei tipi societari disciplinato dal legislatore ordinario.

Tuttavia, proprio l’assenza di un accordo societario formalizzato, diventa elemento determinate per all’applicazione al caso di specie della disciplina delle società costituite per fatti concludenti.

Il percorso logico appena esposto per qualificare un gruppo organizzato di persone come una società di fatto si può ravvisare, a grandi linee, nelle motivazioni dell’arresto in commento.

Nella sentenza n. 6835 pubblicata in data 11 marzo 2021, difatti, i giudici di legittimità hanno, in primis, disconosciuto ad un’associazione con personalità giuridica la qualifica di ente non commerciale, ritenendo presuntivamente che l’attività condotta avesse natura commerciale,105 sulla base di una valutazione concreta della condotta effettivamente tenuta dall’entità collettiva e dai sui componenti del comitato direttivo.106

Successivamente lo stesso organo giudicante, dopo aver riqualificato i compensi dei membri del consiglio direttivo e del socio fondatore come ripartizione di utili, ha enunciato l’esistenza di un accordo societario concluso per via comportamentale fra gli stessi percettori dei dividendi escludendo, tuttavia, la possibilità che fra gli stessi membri si fosse potuto istaurare un rapporto giuridico diverso da quello societario.107

Sul punto, l’arresto giurisprudenziale in commento conclude che: “per aversi una società di fatto (…) è sufficiente l'esistenza di una causa lucrativa e di un accordo, anche solo verbale, nonché la ricognizione dei criteri di cui all'art. 2247 c.c., ossia (…) l'intenzionale esercizio in comune tra i soci di un'attività commerciale a scopo di lucro con il conferimento, a tal fine, dei necessari beni o servizi”,108 poiché il legislatore fiscale, per l’imposizione del reddito di una società di fatto, ha previsto solo l’identificazione nel suo oggetto sociale dell’esercizio di un’attività commerciale.

Per quanto riportato, ad opinione dello scrivente, l’istituto giuridico della società di fatto si può elevare a “categoria residuale” – con il conseguente ridimensionamento del confine applicativo della categoria degli enti commerciali ex art. 73, comma 1, lett. b TUIR – per offrire uno schema giuridico di riferimento alle organizzazioni di persone non istituzionalizzate che svolgono attività di natura commerciale o costituite solo formalmente in enti non commerciali, ma sostanzialmente esercenti attività d’impresa.109

In questi casi, la prova dello scopo di lucro soggettivo, oltre a rappresentare la linea di confine fra l’istituto giuridico societario ed un ente associativo, diventa elemento determinante per assoggettare la ricchezza prodotta da un’organizzazione di individui alla disciplina IRES o al principio di trasparenza ex art. 5 TUIR.110

1 La locuzione “società di fatto” è frutto di una definizione coniata dall’illustre cultore del diritto Gino Gorla, successivamente all’entrata in vigore del Codice del 1942, al fine di identificare quelli enti societari “che si formano senza un accordo espresso dei soci (sia verbale che scritto) diretto alla costituzione di una società, ma col fatto stesso di trattare insieme degli affari per un certo periodo di tempo, in modo da dar luogo ad un accordo tacito sull’esercizio in comune di un’attività economica con scopo di guadagno”; cfr. G. Gorla, Le società secondo il nuovo codice: breve guida pratica, Giuffrè, Milano, 1942, p. 6.

2 Il soggetto societario di fatto è stato un argomento molto affrontato in letteratura. Senza alcuna pretesa di completezza, si indicano i contributi dottrinali di maggiore rilievo: F. Messineo, Sulla pubblicità e l'irregolarità delle società commerciali, in Dir. Fall., 1942, I, pp. 503 e ss.; A. Genovese, Le forme integrative e le società irregolari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, pp. 335; G. De Gennaro, L'iscrizione degli atti societari, in Riv. soc., 1956, pp. 22 e ss.; P. Spada, La regolarizzazione delle società di fatto, in Giur. comm. 1973, I, pp. 612 e ss.; F. Galgano, Il contratto di società, Le società di persone, Zanichelli, Bologna, 1980, pp. 64 e ss., G. Ferri, Le società, Utet, Torino, 1985, pp. 113 e ss.; M.A. Marzulli, La società di fatto, in Trattato società di persone, (a cura di) F. Preite, C.A. Busi, Utet, Torino, 2015, pp. 61 e ss. Per la trattazione della società di fatto nella normativa antecedente all’entrata in vigore del Codice del 1942. V. Salandra, le società irregolari nel diritto vigente, Foto Italiano, Roma, 1935. In ultimo, alla tematica della società di fatto sono state dedicate diverse monografie, fra le principali: E. Zola, Le società di fatto nel diritto e nella pratica commerciale, F.lli Bocca, Torino, 1929; C. Natoli, Riflessioni sulle società di fatto profili teorici della realtà pratica, La Tipografica, Varese, 1972, p. 64; G. Prosperetti, Le società di fatto, Cetes, Milano, 1968; G. Spatazza, La società di fatto, Giuffrè, Milano, 1980; S. Mogorovich, Le società di fatto, Buffetti, Roma, 1994; M. Vacchiano, Il fallimento della società di fatto, in Il diritto privato oggi, (a cura di) P. Cendon, Giuffrè, Milano, 2004; P. Spera, La società di fatto. Recenti orientamenti giurisprudenziali, in Il diritto privato oggi, (a cura di) P. Cendon, Giuffrè, Milano, 2008; V. Vitrò, Le società di fatto. Profili sostanziali ed effetti del fallimento, Giuffrè, Milano, 2009.

3 Il legislatore tributario cita la società di fatto sia nell’imposizione diretta (artt. 5, comma 3, lett. b e 65, comma 3 del TUIR) e nell’imposizione indiretta: fra i soggetti passivi IVA (art. 4, comma 2, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), nel Testo Unico delle disposizioni concernenti le Imposte ipotecaria e catastale (art. 10, comma 2, "https://www.normattiva.it/uri- res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:1990-10-31;347!vig=") e nel Testo Unico delle disposizioni concernenti l’Imposta di Registro (art. 4, comma 1, D.P.R. "https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.del.presidente.della.repubblica: 1986-04-26;131!vig=").

A tal proposito occorre anche menzionare anche la normativa dedicata alla regolarizzazione di questa tipologia societaria, quale il D.L. 31 ottobre 1980, n. 693, convertito in Legge 22 dicembre 1980, n. 891, nonché la Legge 23 dicembre 1982, n. 947, la Legge 23 dicembre 1996 n. 662 ed in ultimo la Legge 21 novembre 2000 n. 342.

4 Un orientamento maggioritario fra gli studiosi del diritto tributario sostiene una divisione dell’ordinamento fiscale in più subsistemi, ognuno con proprie regole, principi, categorie ed istituti. Al riguardo il Boria suddivide il sistema fiscale in diversi livelli: (i) il macro sistema, composto da norme di rango costituzionale e principi generali; (ii) il medio-sistemi di primo livello, riferiti a regole, istituti e norme proprie di ogni tributo; (iii) i medio-sistemi di secondo livello, dedicato all’insieme normativo di ogni singola categoria in cui si compone un tributo; (iv) i micro-sistemi riguardanti le specifiche fattispecie impositive e gli obblighi tributari all’interno della disciplina di ciascun tributo. Cfr. P. Boria, Il sistema tributario, in Diritto Tributario, (a cura di) A. Fantozzi, Utet, Torino, 2012, p. 26.

Negli stessi termini si sono espressi anche R. Lupi, Società, diritto e tributi, Il Sole 24 ore, Milano, 2005, pp. 233 ss.; G.A. Micheli, Società di persone e società di capitali di fronte alla legge tributaria, in La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale, Atti del Convegno di S. Remo, Cedam, Padova, 1981, p. 46. Quest’ultimo autore accusa l’assenza nella disciplina attuale di “una disciplina coordinata di tutti questi centri di imputazione soggettivi, essendo privi di un Testo Unico o almeno di una parte generale che coordini le varie imposte sui redditi”.

In ultimo, la suddivisione del sistema fiscale in sub-sistemi è riproposta nell’opera del Fantozzi e del Paparella in riferimento alle diverse categorie di reddito previste dall’art. 6 TUIR. Secondo gli autori: “a ciascuna categoria di reddito corrispondono proprie regole di determinazione della ricchezza imponibile per cui esse non solo individuano e classificano le singole fattispecie reddituali ma possono essere considerate autonomi sub sistemi perché esprimono altrettanti regimi tipici ed autosufficienti”. A. Fantozzi, F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Cedam, Milano, 2019, p. 37.

5 Per un approfondimento sui rapporti fra categorie civilistiche e diritto tributario, si rimanda, senza alcuna pretesa di completezza, a M. Allena, Sull’applicabilità dei principi civilistici al diritto tributario, in Dir. Prat. Trib., 1999, I, p. 1776; F. Bosello, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. Prat. Trib., 1981, I, p. 1486; S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale, Cedam, Padova 1992, p. 118; E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995, p. 154; G.A. Micheli, Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. sc. fin. e dir. fin., 1977, I, p. 419; L. Osterloh, Il diritto tributario ed il diritto privato, in Trattato di diritto tributario, (a cura di) A. Amatucci, I, II, Cedam, Padova, 1994, pp. 113 e ss.; F. Paparella, Lezioni di diritto tributario, parte generale, Cedam, Milano, 2021, pp. 2 e ss.

6 Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, in Riv. Dir. Trib., vol. I, 1995, p. 651.

7 Nella sentenza in argomento la Suprema Corte propone anche chiarimenti sul principio della neutralità dell’IVA sancito dalla Corte di giustizia europea nel 2013, con la censura del motivo di denuncia della parte ricorrente, finalizzato al riconoscimento dell’importo riscosso dal cliente finale comprensivo dell’Imposta sul Valore Aggiunto. In ultimo, il ricorrente ha denunciato, altresì, la mancata inapplicabilità delle sanzioni ex artt. 8 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e 6 D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, nonostante l’ente avesse, in buona fede, ritenuto di operare come ente non commerciale.

8 Al riguardo i giudici di seconde cure hanno sostenuto che: “macroscopica la sproporzione fra ricavi derivanti dall’attività commerciale e le entrate correlate alla gestione caratteristica”; voci di bilancio che hanno assunto nel 2008 rispettivamente i valori di € 1.539.176,00 ed € 60.678,00.

9 Nel giudizio innanzi alla commissione tributaria regionale, è stato puntualizzato che ai componenti del consiglio direttivo “risultano erogati nel corso del 2008 complessivi € 220.075,00 a titolo di compensi senza che sia noto il criterio di determinazione e la relativa base contrattuale”; mentre, al socio fondatore, “risultano versati € 72.000,00 a titolo di diritti d’autore (deliberati dal consiglio direttivo su espressa richiesta dell’interessato) senza che di tale titolo vi sia alcuna dimostrazione, atteso che oltretutto tali diritti avrebbero dovuto competere all’associazione stessa per la quale il [socio fondatore] ha prestato la sua opera intellettuale”.

10 I riferimenti proposti sono le sentenze della stessa Corte di Cassazione del 31 gennaio 2014 n. 2200 e del 6 novembre 2002 n. 15538, entrambe disponibili in C.E.D. Cassazione.

11 Per queste ragioni si è dubitato del riconoscimento di una certa autonomia concettuale della società di fatto, tant’è che la dottrina considera la stessa come una species del genus società irregolare. v. V. Molinari, L’attuazione del registro delle imprese, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 1996, p. 150; nonché M. Cutolo, Diritto privato, Giuffrè, Milano, 2006, p. 572.

Autorevoli giuristi ritengono, infatti, che ogni società costituita su base fattuale è anche un soggetto societario irregolare, sebbene la prima si contraddistingue, rispetto al secondo, per la carenza di un accordo espresso e scritto. Cfr. V. Buonocore, G. Castellano, R. Costi, Società di persone (Casi e materiali), I, Giuffrè, Milano, 1980, p. 237.

Da qui l’applicazione della disciplina delle società non registrare sia a soggetti societari – come quelli di fatto – privi di un atto formale ed un accordo scritto, sia a quelle società carenti solo della regolare iscrizione nel registro delle imprese.

La mancata registrazione, tuttavia, ha quale conseguenza una modifica della disciplina, in particolare rispetto ai terzi, proprio in virtù della funzione di pubblicità che questa espleta nei loro confronti, ovvero quella di rendere noto fatti o dati socialmente rilevanti. Cfr. F. Santi, Amministrazione e controlli. Società di persone, Imprese gestite da enti collettivi. Consorzi. Gruppi Europei di interesse economico. Imprese familiari. Associazioni di partecipazione, Cedam, Padova, 2011, p. 91 ed anche Cfr. P. Cendon, Commentario al codice civile, Giuffrè, Milano, 2008, p. 99.

Si ha, quindi, un generale rinvio alle disposizioni relative alla società semplice, salvo alcune eccezioni, in applicazione del disposto degli artt. 2297 e 2317 cod. civ., in particolare per quanto concerne l’attenuazione del beneficio di preventiva escussione (l’art. 2268 cod. civ. a fronte dell’art. 2304 cod. civ.); dell’autonomia patrimoniale (l’art. 2270 cod. civ. in luogo dell’art. 2305 cod. civ.), e per converso all’esclusione di quelle norme che il codice preordina al compimento della pubblicità legale. Cfr. A. Gambino, Impresa e società di persone, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 185 e ss., e anche C. Angelici, voce società di fatto, op. cit., p. 7, F. Galgano, Trattato di diritto civile, II, Cedam, Padova, 2014, p. 131, P. Cendon, Commentario al codice civile, op. cit., p. 345.

12 Il principio della libertà delle forme implica che, salva ogni diversa regola specifica, un contratto non è invalido, e dunque nullo, qualora non venga adottata una forma solenne o tipica. La libertà delle forme, tuttavia, incontra un limite, che è costituito dai contratti a causa liberale, come le donazioni, per i quali si impone l’atto pubblico e la presenza di due testimoni. La regola della libertà delle forme si evince dall’art. 2251 cod. civ., che riguarda le società semplici, in forza del quale si afferma che “il contratto non è soggetto a forme speciali, salve quelle richieste dalla natura dei beni conferiti”; da ciò ne deriva che l’osservanza della forma scritta nell’ambito societario, e in generale nel diritto civile, è imprescindibile esclusivamente quando vengono conferiti dai soci, a titolo di proprietà o di godimento ultranovennale, beni immobili o altri diritti reali immobiliari.

13 Per delle riflessioni sul ruolo ricoperto dalla c.d. “tecnica del rinvio” adottata dalla legislazione fiscale, fra i tanti, v. V. Mastroiacovo, Dalla norma generale e astratta all’applicazione concreta, in Diritto tributario, (a cura di) Fantozzi A., Utet, Torino, 2012, pp. 262 - 263.

In riferimento al rinvio contenuto nell’art. 5, comma 3, TUIR, una certa dottrina sostiene che lo stesso si possa qualificare come una “presupposizione”, in quanto accoglie pienamente la definizione civilistica a cui si rinvia. Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 648.

Inoltre, è stato evidenziato che nel caso della società di fatto il legislatore fiscale abbia adottato lo stesso richiamo alle nozioni civilistiche previsto per le società di capitali e di persone, così da avvalorare l’unanime pensiero dottrinale giuscommercialista di non considerare il soggetto societario di fatto quale “tipo” autonomo rispetto ai tipi di società disciplinati dal Codice civile. Cfr. M.A. Capula, La prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali, in Rass. Trib., 2009, 5, p. 1427.

14 Cfr. S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale, op. cit., pp. 14-15.

15 In proposito il Fedele così ha apostrofato la scelta del legislatore fiscale: “sembra pertanto impropria, e sostanzialmente inutile, la formulazione delle norme tributarie (attualmente l’art. 5, comma 3, lett. b, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) che si preoccupano di menzionate espressamente le società di fatto e di equipararle alla società in nome collettivo od alla società semplice a seconda dell’attività in concreto svolta, dato che, in ragione dell’attività medesima, essere sono o società in nome collettivo irregolari o società semplice”. A. Fedele, Società in nome collettivo e in accomandita semplice: forme, esibizioni documentali e loro integrazione, in Riv. del Not., 1990, p. 1312.

Critico sulla tecnica di produzione normativa scelta dall’organo legiferante in ambito tributario è stato anche il Braccini, che definisce la norma tributaria contenuta nell’art. 5, comma 3, lett. b, come una disposizione “inessenziale e pleonastica”. Cfr. R. Braccini, Società edilizia costituita re o verbis ed imposta sul valore aggiunto, in Dir. Prat. Trib., 1977, pp. 511.

16 Cfr. A. Fedele, Profilo fiscale della società di persone, in Riv. not., 1988, p. 563. L’autore, dopo aver puntualizzato che la società di fatto non costituisce un distinto tipo di società di persone, ma si riconduce alle più ampie categorie della società collettiva irregolare o della società semplice, ritiene che i documenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria a volte si discostano dalla qualifica di diritto sostanziale e tendono a considerare la fattispecie societaria di fatto come un tipo societario autonomo.

Lo stesso autore, già in una sua precedente opera, criticava la definizione offerta dall’Amministrazione finanziaria nella Circolare 19 novembre 1984 n. 64/250986, sostenendo che nello stesso documento di prassi si fornice “un esempio macroscopico dei gravi errori cui può condurre, nell’interpretazione delle norme tributarie, l’inconscia distorsione di nozioni ed istituti del diritto sostanziale determinata dalla sovrapposizione di particolari aspetti della disciplina dei singoli tributi”. A. Fedele, Osservazioni in tema di regolarizzazione di società di fatto, in Riv. trib., 1985, p. 91.

17 Un esempio è offerto dal testo della Circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 7 agosto 1985 n. 59 (consultabile in Banche dati fisconline), dove si esclude la società di fatto dalla pubblicità nei registri immobiliari in quanto non esplicitamente menzionata nell’art. 2659 cod. civ., nonostante lo stesso articolo preveda, invece, le tre tipologie di società di persone.

La stessa interpretazione è nuovamente riproposta nella Risoluzione del Ministero delle finanze del 27 febbraio 1987 n. 3000001 (consultabile in Banche dati fisconline). In questa occasione, l’esclusione del soggetto societario di fatto dai registri immobiliari è stata argomentata ponendo in luce le differenze con la società irregolare, quest’ultima ammessa al regime pubblicitario.

È evidente come la conclusione suggerita nel documento di prassi – di considerare le due forme societarie come soggetti ben distinti a cui destinare un trattamento fiscale totalmente differente – stride con il rapporto di species a genus proposto dall’interpretazione consolidata fra i cultori del diritto commerciale.

18 In proposito, un’autorevole voce del diritto tributario ha affermato che: “si deve osservare che la soluzione proposta nell’art. 5 Tuir consistente nella identificazione della società di fatto con le società in nome collettivo o con le società semplici a seconda della natura dell’oggetto sociale, ricalca nelle sue linee fondamentali quella desumibile dall’art. 2249, comma 1° e 2° Cod. civ.” P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 649.

19 Al riguardo una certa dottrina, in riferimento alla qualificazione della società di fatto nel diritto tributario, ha puntualizzato che: “il legislatore tributario si è limitato a ricalcare le scelte già compiute in ambito civilistico non dotando tali organismi di una definizione concreta e procedendo o alla loro semplice menzione o, come nel caso delle imposte sui redditi, a compiere la stessa equiparazione del legislatore civile. L’opportunità di questa scelta del legislatore tributario è sicuramente discutibile, dal momento che pare rinviare totalmente l’individuazione delle società di fatto ai fini fiscali agli stessi criteri stabiliti in sede civile”. R. Miceli, La prova del conferimento societario e la rilevanza dei rapporti familiari ai fini dell'individuazione dell'esistenza di una società di fatto, in Riv. dir. trib., 5, 2000, p. 241.

20 In caso di attività commerciale svolta da un soggetto societario, la dottrina ha ritenuto che qualora i soci non manifestino una diversa volontà, si debba applicare la disciplina della società in nome collettivo, interpretando il silenzio delle parti quale scelta implicita di questo schema societario. Cfr. F. Galgano, Società in genere. Società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, (diretto da) A. Cicu, F. Messineo, Giuffrè, Milano, 1982, pp. 363 e ss. e P. Spada, La tipicità delle società, Cedam, Padova, 1974, pp. 435 e ss.

In caso di una società di fatto, il legislatore ha previsto negli artt. 2297 e 2317 cod. civ. rispettivamente il caso della mancata registrazione di una società in nome collettivo e di una società in accomandita semplice.

Pertanto, qualora non risulti qualche accordo da parte dei soci a limitare la responsabilità di parte della compagine sociale, si ritiene che alla società di fatto sia da applicare la disciplina della società in nome collettivo irregolare, in caso si svolgimento di attività commerciale.

Tuttavia, in considerazione delle peculiarità della società costituita per fatti concludenti, la dottrina prevalente sostiene che la disciplina della società in nome collettivo sia l’unica da poter applicare a causa della mancanza di qualunque accordo fra le parti. Cfr. R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Giuffrè, Milano, 1974, p. 2035.

21 Per quanto concerne le società a base personale, ovvero le società in nome collettivo, le società in accomandita semplice e le società semplice non vi sono dubbi in dottrina sul richiamo per presupposizione effettuato dal legislatore fiscale alla disciplina del Codice civile. Cfr. P. Boria, Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, Giuffré, Milano, 1996, p. 30.

22 Cfr. F. Cicognani, voce società di fatto II) Diritto tributario, in Enc. giu. Treccani, XXIX, Roma, 1993, p. 2. Lo Schiavolin, invece, ha così argomentato il parallelismo fra disciplina civile e fiscale: “in mancanza di una qualificazione esplicita della figura societaria, il legislatore tributario ha espresso in termini sostanziali di “equiparazione” una regola il cui contenuto corrisponde in linea di massima ai criteri di accertamento della fattispecie civilisticaR. Schiavolin, I soggetti passivi, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, (diretto da) F. Tesauro, I, Utet, Torino, 1994, p. 134.

23 È necessario far presente che, nel diritto commerciale, la società di fatto identificata in una società semplice o in una collettiva irregolare in base alla natura dell’attività svolta, conserva a grandi linee la stessa disciplina in quanto la società semplice rappresenta il quadro giuridico di riferimento per le altre società di persone. Pertanto, si ha un generale rinvio alle disposizioni relative alla società semplice salvo alcune eccezioni, in applicazione del disposto degli art. 2297 cod. civ., in particolare per quanto concerne l’attenuazione del beneficio di preventiva escussione (l’art. 2268 cod. civ. a fronte dell’art. 2304 cod. civ.), dell’autonomia patrimoniale (l’art. 2270 cod. civ. in luogo dell’art. 2305 cod. civ.), e per converso all’esclusione di quelle norme che il codice preordina al compimento della pubblicità legale. Cfr. F. Santi, Amministrazione e controlli. Società di persone, op. cit., pp. 91 e ss.

Le stesse considerazioni relative alla disciplina commerciale non sono valevoli nel settore tributario, dove è essenziale la corretta identificazione della società di fatto come società semplice o società collettiva in quanto sussistono rilevanti differenze nella disciplina impositiva delle due forme societarie.

24 Cfr. F. Cicognani, voce società di fatto, op. cit., p. 1; ed anche A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Cedam, Padova, 1996, pp. 390-391. Negli stessi termini anche il Boria, il quale pone l’accento su come “le norme tributarie in materia di società di fatto si adagino su quelle civilistiche. Infatti, nel sistema delle imposte dirette l’esistenza della società di fatto viene presupposta, con ricorso quindi ad un rinvio implicito alle norme civilistiche”. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 648.

In senso contrario, invece, il Perrone che, interrogandosi sulla fattispecie giuridica da attribuire alle aggregazioni temporanee di imprese, conclude nell’attribuire al medesimo fenomeno aggregativo una qualifica fiscale differente da quella civile, difatti “è possibile configurare un’aggregazione organizzata di interessi che assume rilevanza giuridica (un autonomo soggetto passivo) ai fini fiscali (ed in particolare dell’IVA e delle imposte sui redditi e non pure ai fini civili)”. L. Perrone, Associazione temporanea di imprese e consorzi con attività esterna: problemi di diritto tributario, in Riv. dir. sc. fin., 1984, p. 144. L’autore basa le sue conclusioni sull’assunto di una definizione di società di fatto nel diritto tributario differente rispetto al quella utilizzata nel diritto comune.

25 Nell’esame del testo dell’art. 5, comma 3, lett. b, TUIR diversi autori hanno ritenuto inappropriato il termine “equiparazione” utilizzato dal legislatore fiscale per le società di fatto, in quanto il termine ha il significato di ricondurre una determinata categoria in un’ipotesi a questa estranea allo scopo di applicare la medesima disciplina giuridica. Poiché la società di fatto rappresenta una variante negoziale delle società di persone, il termine più appropriato suggerito dall’illustre voce della dottrina sarebbe “identificazione”. Cfr. G. Oppo, Categorie commercialistiche e riforma tributaria, in Aa.Vv., Riforma tributaria e diritto commerciale: le fattispecie, Atti del convegno di Macerata del 12-13 novembre 1976, Giuffrè, Milano, 1978, p. 25; R. Braccini, Società edilizia costituita re o verbis ed imposta sul valore aggiunto, op. cit., p. 511; e anche P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 647.

Quest’ultimo illustre tributarista considera, invece, corretto il termine “equiparazione” per la disciplina delle associazioni fra professionisti e per le società di armamento. In questo caso, l’autore fa presente che le stesse “non vengono infatti considerate una sub-fattispecie negoziale, ma un tipo societario a sé stante con collocazione extracodicistica”; P. Boria, Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, op. cit., p. 48.

26 Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 649. Questo è uno dei diversi esempi che l’autore identifica nel TUIR per porre l’accento sulla tecnica della ridondanza utilizzata dal legislatore fiscale.

Altro esempio proposto è riferito all’art. 186 TUIR dedicato alle società civili equiparate ai fini fiscali alle società in nome collettivo o, in alternativa, alle società semplici. “Probabilmente una tale conclusione avrebbe potuto essere raggiunta anche sul piano interpretativo, ciò a conferma della tendenza legislativa alla ridondanza delle norme in funzione della maggiore chiarezza possibile”, P. Boria, Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, op. cit., p. 53. Per la disciplina commercialistica delle società civile si rimanda a G. Visentini, F. Sisca, La società civile, in Trattato società di persone, (a cura di) F. Preite e C.A. Busi, Utet, Torino, 2015.

27 Sulla completezza delle norme fiscali, V. Mastroiacovo, Dalla norma generale e astratta all’applicazione concreta, op. cit., p. 357.

28 Al riguardo una certa dottrina ha sostenuto che: “la ragione dell’autonoma considerazione della società di tatto nei tributi sembra doversi spiegare con l’esigenza di fornire all’Amministrazione finanziaria criteri estrinseci e di agevole riscontro ai fini della tassazioneR. Schiavolin, I soggetti passivi, op. cit., p. 134. In senso conforme, anche, G. Tinelli, S. Mencarelli, Lineamenti giuridici dell’imposizione sul reddito delle persone fisiche, Giappichelli, Torino, 2013, p. 54.

29 Cfr. F. Paparella, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento fra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei rapporti giuridici, in Rivista di dir. tributario, 6, 2019, pp. 618 e ss. L’illustre voce della dottrina pone l’accento anche sui rischi di una legislazione per principi che potrebbe determinare il proliferare di processi interpretativi valutativi. Questa condizione porterebbe ad attribuire un significativo potere a coloro che hanno il compito di applicare la legge.

30 Cfr. P. Boria, Il sistema tributario, op. cit., p. 26; e anche R. Lupi, Società, diritto e tributi, op. cit., pp. 233 e ss.

31 Il termine “società di fatto” è stato introdotto nei testi di legge riferiti all’imposizione diretta ed all’Imposta sul Valore Aggiunto con il processo riformatore del sistema tributario degli anni settanta. Il soggetto societario di fatto trova iniziale collocazione nella disciplina dell’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche nell’art. 5, comma 2 DPR. del 29 novembre 1973, n. 597: “le società di fatto sono equiparate alle società in nome collettivo o alle società semplici a seconda che abbiano o non abbiano per oggetto l'esercizio di attività commerciali ai sensi dell’art. 51”.

Lo stesso passaggio legislativo è transitato nell’art. 5, comma 3, lett. b, DPR. 22 dicembre 1986 n. 917, che ha sostituito i precedenti Decreti presidenziali ordinando le disposizioni fiscali attinenti all’imposizione diretta in un unico Testo Unico.

Nella disciplina IVA, invece, la prima versione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, non prevedeva alcuna menzione del soggetto societario di fatto. Successivamente, a seguito delle modifiche previste dall’art. 1 D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687, all’art. 4, comma 4, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è stato introdotto il seguente periodo: “Le società di fatto sono equiparate alle società in nome collettivo o alle società semplici a seconda che abbiano o non abbiano per oggetto l'esercizio di attività commerciali”. Nella versione della disciplina IVA in vigore dal 1° gennaio 1975 si può riscontrare un’evidente assonanza con la disciplina fiscale prevista per le società di fatto nell’imposizione diretta, con una maggiore uniformità dell’intero sistema fiscale.

Pertanto, con l’intervento normativo del 1974, a partire dal gennaio 1975, la disciplina della società di fatto contenuta nei testi di legge delle imposte IRPEF ed IVA risultava stata allineata, con una maggiore uniformità nel sistema tributario, è andato a porre fine ad un acceso dibattito dottrinale sull’inquadramento della società di fatto ai fini IVA. Cfr. R. Braccini, Società edilizia costituita re o verbis ed imposta sul valore aggiunto, op. cit., p. 512.

Prima dell’entrata in vigore delle modifiche previste dall’art. 1 del D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687, in assenza della tipizzazione della società di fatto nel testo del Decreto IVA, in dottrina si sono registrate opinioni opposte, tra chi era a favore dell’applicazione al soggetto societario commerciale di fatto della disciplina IVA destinata alle collettive irregolari in considerazione della nozione offerta dalla dottrina commercialistica (v. R. Braccini, Società edilizia costituta re o verbis ed imposta sul valore aggiunto, op. cit., pp. 512); e chi, invece, ha sostenuto l’assoggettamento della società commerciale di fatto alla disciplina IVA degli imprenditori persone fisiche e della società semplice (v. S. Sammartino, Profilo soggettivo del presupposto dell’Iva, Giuffrè, Milano, 1975, pp. 61 e ss.). Con l’intervento normativo del 1974, il legislatore ha esplicitamente sconfessato quest’ultima tesi dottrinale.

Tuttavia, l’allineamento fra le disposizioni IRPEF ed IVA è durato per un arco temporale di circa quattro anni, difatti, con l’art. 1 del DPR. del 29 gennaio 1979 è stata depennata dal Decreto IVA la disciplina relativa all’equiparazione delle società di fatto, senza alcuna previsione di specifiche disposizioni o principi di coordinamento con i testi di legge degli altri tributi. Successivamente a quest’ultima modifica legislativa, la dottrina è stata concorde nel considerare valevole ai fini delle imposte indirette la nozione di soggetto societario di fatto elaborata dalla dottrina commercialistica. Cfr. F. Cicognani, voce Società di fatto, op. cit., 1990, pp. 1 e ss; P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 646.

32 La stessa tecnica di produzione normativa si può notare anche nei testi di legge della disciplina procedimentale contenuta nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, rubricata “disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi” ove agli artt. 6, comma 1, 13, comma 1, 23, comma 1, 26, comma 4, 26-quinques, comma 4, 27, comma 1, 40, comma 2, è richiamato espressamente l’art. 5 TUIR (o la disciplina precedente contenuta nell’art. 5 D.P.R. 29 settembre 1973 n. 597).

Nello stesso decreto presidenziale, inoltre, all’art. 35, comma 2, è menzionata esplicitamente la società di fatto. Tuttavia, il contesto in cui si inserisce il testo di legge non pone dubbi sul riferimento alla disciplina del Testo Unico del 1986.

Le disposizioni contenute nel D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 sono la prova che il legislatore ha adottato nel tempo diverse tecniche di produzione normativa, pertanto, interventi modificativi risalenti a periodi differenti hanno inciso sul testo di legge in modo diverso, facendo perdere uniformità all’impianto normativo del sistema impositivo.

33 Un’attenta dottrina ritiene che la tecnica del rinvio utilizzata dal legislatore nella disciplina dell’IRAP ha la “funzione di aggancio” con le altre regole del sistema tributario. “una funzione è di predisporre un quadro delle varie categorie di soggetti passivi di cui si applicano le distinte discipline in materia di base imponibile, un’altra di rendere più chiaro ai contribuenti il significato della definizione generale del presupposto, concretizzandola in un paradigma fondato su situazioni ad essi già note ai fini dell’applicazione di altre imposte”. R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale: il sistema delle imposte in Italia, Cedam, Padova, 2013, p. 1037.

34 In altri termini, il legislatore tributario non spiega cosa sia una società di fatto, ma opera un mero rinvio al diritto comune, accogliendone pienamente la definizione. Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 648.

35 Questa lettura interpretativa non era necessaria nella precedente versione normativa contenuta nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, in quanto l’equiparazione della società di fatto con le società di persone costituite formalmente “comportava una assoluta e totale identicità di trattamento tanto che, premessa tale equiparazione dall’art. 5, D.P.R., n. 597, nessun’altra norma di detto decreto faceva più menzione distinta delle società equiparate; talché dovevano necessariamente intendersi riferite, tal quali, anche a dette società equiparate le (…) fondamentali presunzioni assolute [previste per le società personificate regolari]”. R. Napolitano, sub. art. 5, in AA.VV. Commentario al Testo Unico delle Imposte sui Redditi, I – IRPEF, Roma, 1988, p. 91.

Con il riordino della disciplina relativa all’imposizione diretta contenuta nel Testo Unico del 1986, alle società equiparate ex art. 5, comma 3 TUIR sono state dedicate specifiche disposizioni che, in alcuni casi, divergono rispetto al regime fiscale previsto per la società collettiva regolare (come, ad esempio, la norma inserita nell’art. 65, comma 3, TUIR), così da rendere i soggetti societari costituiti di fatto destinatari di una disciplina fiscale di natura speciale.

36 In proposito il Fedele ha affermato che: “anche in materia fiscale la disciplina più compiuta dei fenomeni societari è dettata in materia di società di capitali; alle società di persone devono applicarsi, in linea di principio e salvo divergenze razionalmente giustificabili, le medesime soluzioni adottate per le società personificate”. A. Fedele, Profilo fiscale delle società di persone, op. cit., p. 576.

37 Cfr. V. Vitrò, Le società di fatto. Profili sostanziali ed effetti del fallimento, op. cit., p. 124. Per una riflessione storica sulle teorie dottrinali dell’età intermedia del diritto comune aventi ad oggetto gli elementi identificativi di un rapporto societario di fatto ed il relativo regime di prova della società di fatto, si rimanda a F. Treggiari, La società di fatto: sondaggi di dottrina giuridica intermedia, in Scritti in onore di Vito Rizzo. Persona, mercato, contratto, e rapporti di consumo, (a cura di) E. Caterini, L. Di Nella, A. Flamini, L. Mezzasoma, S. Polidori, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017, pp. 2235 e ss.

38 Il Taruffo offre una distinzione fra giudizio di fatto e giudizio di diritto, qualificando come fatto “tutto e soltanto ciò che riguarda l’accertamento della verità o falsità dei fatti empirici rilevanti, salvo ciò che concerne l’applicazione di norme relative all’ammissibilità e all’assunzione delle prove, o di norme di prova legale”. È inteso, invece, come diritto “tutto ciò che concerne l’applicazione di norme, ossia in particolare: la scelta della norma applicabile al caso; l’interpretazione di tale norma; la qualificazione giuridica dei fatti e la sussunzione di essi nella fattispecie astratta; la determinazione delle conseguenze giuridiche previste dalla norma e riferite al caso di specie”. M. Taruffo, voce Giudizio (teoria generale), in Enc. Giur. Treccani, Roma, XV, 1988, p. 1.

Per approfondimenti sulle differenze fra giudizio di fatto e giudizio di diritto, dello stesso autore: M. Taruffo, Note in tema di giudizio di fatto, in Riv. dir. civ., 1971, pp. 33 e ss.; ed anche A. Nasi, voce Fatto: giudizio di fatto (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XVI, Milano 1967, pp. 967 e ss. Fra gli studiosi del diritto tributario si rimanda a G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Cedam, Padova, 2005, pp. 41 e ss.

39 Il giudizio di fatto è definito in dottrina un giudizio di tipo storico in quanto colui che è chiamato ad indagare, allo stesso modo di uno storico, deve valutare episodi passati, accertarne la verità ed operare scelte e ricostruzioni su dati preesistenti; v. M. Taruffo, Il giudice e lo storico: considerazioni metodologiche, in Riv. dir. proc., 1967, pp. 438 e ss.; S. Chiarloni, Riflessioni sui limiti del giudizio di fatto nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1986, pp. 819 e ss.; A. Carratta, Funzione dimostrativa della prova, in Riv. dir. proc., 2001, p. 75.

40 Per un commento sul procedimento probatorio per dimostrare l’esistenza della società occulta o apparente. v. F. Galgano, Le società in genere. Le società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, (già diretto da) A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, (continuato da) P. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 497 e ss.

41 I giudici di legittimità hanno confermato, in più occasioni, che l’accertamento dell’esistenza o meno di una società di fatto può essere il frutto della valutazione di rapporti interni fra i soci o relazioni esterne con terzi soggetti. Occorre, infatti, “una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l’esercizio in comune di una attività imprenditoriale quali il fondo comune, costituito dai conferimenti finalizzati all’esercizio congiunto di un’attività economica, l’alea comune dei guadagni e delle perdite, e l’affectio societatis, (omissis) invece, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci ai sensi dell’art. 2297 c.c., la esteriorizzazione del vincolo sociale”. Cass., Sez. Civ., sent. 11 marzo 2010, n. 5961, in C.E.D. Cassazione, 2010; in senso conforme anche Cass., Sez. Civ., sent. 28 marzo 1987, n. 3029, in Società, 1987, p. 595.

42 V. G. Spatazza, Le società di fatto, op. cit., pp. 20 e ss.; V. Buonocore, Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 217 e ss.

43 È principio acquisito dalla giurisprudenza che ai fini della dimostrazione della sussistenza di una società di fatto occorre avere riguardo ai requisiti previsti dall’art. 2247 cod. civ., e non a quelli ex art. 2082 cod. civ. In proposito, la Corte di Cassazione ha affermato che, per riconoscere l’esistenza di una società di fatto non occorre guardare ai requisiti dell’abitualità, sistematicità e continuità dell’attività, che l’art. 2082 cod. civ. richiede come presupposti per attribuire la qualità di imprenditore, ma a quelli individuati dall’art. 2247 cod. civ. previsti per il contratto societario. Cfr. Cass., Sez. Civ., sent. 6 novembre 2002, n. 15538, in Giust. civ., 2003, p. 2454.

La dottrina commercialistica si è dilungata sulla relazione fra concetto di impresa e di società, nonché sul problema della società senza impresa, rectius società occasionale. In proposito vi sono stati diversi orientamenti discordanti, uno di questi ha sostenuto che una società configuri sempre un’impresa e pertanto anche la società occasionale; v. T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale, Giuffrè, Milano, pp. 194 e ss.

Una certa dottrina ha affermato, invece, che la società occasionale non costituisca né un’impresa, né tanto meno una società; v. G. Ferri, Delle società, in Commentario del codice civile, (diretto da) A. Scialoja, G. Branca, Zanichelli, Bologna, 1981, pp. 60 e ss.

In altri casi, invece, si è ritenuto che il requisito della professionalità fosse insito nella definizione di società, v. W. Bigiavi, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, pp. 10 e ss.

La dottrina ad oggi prevalente non include il requisito della professionalità nella definizione del soggetto societario, individuando nella società occasionale una fattispecie non assoggettabile alla disciplina dell’impresa ma soltanto a quella della società. v. G.F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. 2 Diritto delle società, Utet, Torino, 2002, pp. 12 e ss. ed anche E.R. Desana, L’impresa fra tradizione e innovazione, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 26 e ss.

In proposito, si riporta il pensiero del Galgano, per il quale: l’elemento dell’esercizio in comune, da parte di due o più persone, di un’attività economica, mette in evidenza il nesso esistente fra il fenomeno della società e il fenomeno dell’impresa: l’esercizio di un’attività economica è, infatti, uno degli elementi della nozione legislativa di imprenditore, che l’art. 2082 definisce appunto come colui che “esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione di beni e servizi”. Rispetto alla nozione legislativa di imprenditore quella di società presenta un elemento ulteriore, il quale è dato dal fatto che, nell’ipotesi delle società, l’attività economica è esercitata, in comune fra loro “da due o più persone”. È ciò che fa delle società altrettante forme di imprese collettive: il contratto di società si presenta, sotto questo aspetto, come il vincolo contrattuale che unisce fra loro più persone le quali esercitano collettivamente una medesima impresa. Inoltre, l’art. 2247 nel definire le società non dice che essa ha per oggetto l’esercizio, in comune, fra più persone di un’impresa, né riproduce integralmente la nozione di impresa desumibile dall’art. 2082, ma si esprime più sinteticamente, in termini di esercizio in comune di un’attività economica. Di qui il problema della costituzione di società anche per l’esercizio di attività che sebbene definibili economiche non rivestano però tutti i caratteri dell’attività d’impresa”. F. Galgano, Le società in genere, le società di persone, in Trattato di diritto civile e commerciale, (già diretto da) A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, (continuato da) P. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2007, p.16.

44 Per quanto concerne il conferimento di beni e servizi in un fondo comune, la giurisprudenza di legittimità ha sempre adottato un concetto ampio di conferimento in società tale “da comprendere ogni contributo che abbia un valore economicamente apprezzabile e che possa servire all’attuazione del fine sociale”. Cass., Sez. Civ., sent. 7 giugno 1974, n. 1690, in Giur. Comm., 1975, II, p. 733. L’apporto dei soci può essere, quindi, identificato non solo in un apporto di danaro o di beni mobili ma anche di beni incorporali, di aziende, di crediti ed altro ancora; v. Cass., Sez. Civ., sent. 7 giugno 1974, n. 1690, in Giur. comm., 1975, II, p. 733.

45 La definizione di utile offerta dalla giurisprudenza di legittimità è, infatti, molto ampia e comprende, non solo il diretto incremento pecuniario, ma annovera anche qualsiasi ritorno economico o patrimoniale realizzato mediante l’attività sociale.

In questa categoria di vantaggi sono incluse anche le utilità percepite direttamente dal socio senza il tramite della società, quali possono essere un risparmio personale derivante dall’accesso in tempi brevi a cospicui mutui ottenuti grazie dall’attività di intermediazione del credito svolta attraverso il soggetto societario di fatto.

I giudici di legittimità slegano il concetto di utile quale parte del risultato economico prodotto da un soggetto societario: “l’espressione ‘divisione di utili’ deve essere intesa letteralmente, nel senso, cioè, che il risultato economico debba essere prima acquisito dalla società e poi distribuito tra i soci, essendo ben possibile, invece, che questi ricavino il vantaggio derivante dall’attività sociale direttamente e non per tramite della società”. Per gli stessi giudici il vantaggio economico che i soci percepiscono dall’esercizio in comune di un’attività d’impresa può anche configurarsi: “nel vantaggio economico ad essi derivante dallo stesso esercizio della funzione creditizia nei loro confronti (…) che destinano al finanziamento delle loro personali iniziative economiche”. Cass., Sez. Civ., sent. 6 agosto 1979 n. 4458, in Giur. civ., p. 2256.

Le perdite, invece, sono da intendersi una diminuzione di capitale dovuto ad un andamento sfavorevole degli affari dell’azienda e sono ben distinte dal concetto economico di spese di esercizio. Pertanto, il sostenimento da parte di terzi di costi di esercizio di un’impresa non è elemento sintomatico per sostenere una partecipazione anche alle perdite sociali.

Secondo la Suprema Corte, infatti, la prova della semplice partecipazione alle spese di esercizio non integra quella della esistenza di una società di fatto, stante la diversità esistente tra il concetto economico di spese di esercizio dell’impresa e quello di perdite dell’impresa medesima”. Cass., Sez. Civ., sent. 16 novembre 1967, n. 2752, in Dir. fall., 1968, p. 534.

46 L’elemento dell’affectio societatis deve essere valutato con particolare attenzione, al fine di non confonderlo con l’affectio familiaris, che contraddistingue la costituzione di un’impresa familiare e ne determina un diverso regime, rispetto alla società di fatto. Cfr. M. Vacchiano, Il fallimento della società di fatto, op. cit., p. 143.

Questo requisito costituisce la componente soggettiva del contratto societario e rappresenta la volontà dei contraenti di costituire un vincolo di collaborazione allo scopo di conseguire un comune interesse nell’esercizio collettivo di un’attività imprenditoriale.

Per il Fimmanò l’affectio societatis rappresenta: “un sinonimo della “comunione di scopo” dei contratti plurilaterali associativi previsti dal codice civile del 1942, e possiamo declinarlo in altro modo, ad esempio come interesse sociale, ma il senso non cambia”. F. Fimmanò, La vera ragione dell’eccezionalità dell’art. 147, comma 5, legge fallim.: l’invulnerabilità della persona giuridica, in Dir. fall. e delle soc. comm., 2017, 2, p. 571.

In fase di verifica dell’esistenza di una società di fatto, una volta riscontrata la sussistenza di tale elemento, si viene così a colmare il vuoto lasciato dall’assenza del contratto sociale.

In dottrina, difatti, si è ritenuto che nelle trattazioni sulla società di fatto l’affectio societatis assume, oltre ad un livello di indagine che attiene la dimensione psicologica, anche un carattere pratico, in quanto soddisfa: “il bisogno di valutare il significato sociale di determinate condotte al fine di stabilire (con obiettiva certezza) se esse si inseriscano nel contesto di un’attività comune o siano da ricondurre a rapporti di diversa natura”. E. Morino, Affectio societatis e affectio familiaris fra società apparente e società di fatto, in Giur. it., 2014, p. 6.

47 Cfr. M.A. Marzulli, La società di fatto, op. cit., p. 66.

Nella valutazione finalizzata all’accertamento di una realtà societaria costituita per fatti concludenti occorre individuare comportamenti esteriori che creino l’incolpevole convincimento del terzo, il c.d. “creditore medio ideale” – rectius una categoria astratta e virtuale normalmente informato dell’avvenuto e dell’accaduto. Cfr. A. Bassi, L’apparenza come criterio di impugnazione della responsabilità per l‘esercizio dell’impresa, in Giur. comm., 2016, p. 756. L’autore definisce il “creditore medio ideale” come “operatore economico “normalmente informato, ragionevolmente attento ed avveduto”, così come accade, in campo finanziario, per la categoria astratta del ragionevole investitore”.

All’uopo occorre dimostrare che vi sia stato un effettivo e ragionevole affidamento sull’esistenza della società da parte dei terzi quando nasce l’obbligazione insoddisfatta. Quest’onere probatorio grava su chi intenda far valere i propri diritti nei confronti di un soggetto societario di fatto.

Per quanto concerne l’affidamento incolpevole del terzo, una certa dottrina, in conformità ad un orientamento giurisprudenziale di merito, sostiene che tale affidamento debba essere attribuibile ad una indifferenziata generalità dei terzi. “se ‘in linea generale’, la teoria dell’apparenza del diritto richiede necessariamente che l’affidamento del “terzo” sia incolpevole, si osserva invece come, ai fini di assoggettare a fallimento la ritenuta struttura sociale, stante la natura collettiva della procedura concorsuale e in coerente sviluppo della soluzione appena esposta, la scusabilità dell’errore debba essere qui accertata con caratteristiche di oggettiva plausibilità siccome attribuibile ad una generalità di soggetti”. M. Vacchiano, Il fallimento della società di fatto, op. cit., p. 100.

Critico è invece il Vitrò nel suo commento all’orientamento espresso dalla Suprema Corte; secondo l'autore, “per l’ennesima volta la Cassazione trae conseguenze giuridiche, supponendo l’esistenza del principio dell’affidamento, che, si è dimostrato, non avere alcuna base normativa – e traendo conseguenze giuridiche – supponendo di trovarsi di fronte all’esistenza reale e non fittizia di un fatto-evento, cioè all’esistenza di una società di fatto, di cui nessuno ha dimostrato l’esistenza di un fatto evento giuridico, da cui trarre gravi conseguenze giuridiche”. V. Vitrò, Le società di fatto. Profili sostanziali ed effetti del fallimento, op. cit., p. 160.

48 La dottrina è concorde nel ritenere presente nel diritto commerciale due nuclei di disciplina differenti relativi ai rapporti interni ed esterni dei soggetti societari. In relazione a questa dicotomia lo Spada ritiene che: “uno concerne i modi di partecipazione dei soci all’operazione ed, in particolare, all’esercizio dell’attività ed ai risultati dell’esercizio; l’altro, gli atteggiamenti di quello che diremmo il rilievo reale del contratto di società, per sottolineare la rilevanza della fattispecie per la generalità dei terzi e segnatamente la rilevanza della destinazione contrattuale dei beni e del porsi d’un’azione giuridica come azione sociale (cioè non individuale), con la conseguente attivazione dei regimi non coincidenti con quelli connessi all’agire dell’individuoP. Spada, La tipicità delle società, op. cit., p. 27.

49 Cfr. Cass., Sez. Civ., sent. 24 maggio 2000, n. 6797, in C.E.D. Cassazione, 2000; in senso conforme Cass., Sez. Civ., sent. 29 agosto 1997, n. 8187, in Mass. giust. it., 1997, p. 8187.

50 Fra i diversi pronunciamenti della Corte di Cassazione che si sono susseguiti in tal senso, v. Cass., Sez. Civ., sent. 20 giugno 1972, n. 1966, in Dir. fall., 1973, II, p. 109; Cass., Sez. Civ., sent. 7 maggio 1976 n. 1594, in Mass. giur. it., 1976, p. 421; in senso conforme Cass., Sez. Civ., sent. 28 marzo 1990 n. 2539, in Giur. it., 1990, I, 1, 1727.

51 Secondo il Bassi questa distinzione è spiegata da diverse questioni distinte, una riferita alle società insolventi e l’altra alle società in bonis: “i creditori hanno interesse, prevalente od esclusivo, all’accertamento della responsabilità patrimoniale della società e dei suoi soci (…), mentre i soci potrebbero invocare la società di fatto per tutelare interessi sociali che essi ritengono violati”. A. Bassi, L’apparenza come criterio di imputazione della responsabilità per l’esercizio dell’impresa, op. cit., p. 754.

52 Così si è espresso il Sacco: la fattispecie della società di fatto interessa il diritto soltanto perché crea i problemi giuridici della responsabilità verso i terzi e della destinazione dei beni acquistati o creati. R. Sacco, Sulla società di fatto, in Riv. dir. civ., 1995, p. 59.

Dalla dimostrazione dell’esistenza di una società di fatto discendono diversi effetti, a seconda che questi si rivolgano nei confronti dei soci, ovvero nei confronti dei terzi. Con riguardo ai rapporti tra i soci si fa riferimento all’obbligo dei conferimenti, al diritto di ripartire gli utili e, di conseguenza, a quelle obbligazioni che scaturiscono dall’esito dell’attività societaria. Invece, con riferimento ai rapporti con i terzi, si tratta della soggettività giuridica, della responsabilità dei soci, per le obbligazioni assunte dalla società, al beneficio di escussione e, in ultimo, all’estensione del fallimento nei confronti dei soci. Cfr. P. Spera, La società di fatto., op. cit., p. 57.

53 Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 651.

54 Così in dottrina: “i criteri di identificazione della società di fatto ai fini fiscali devono essere distinti rispetto a quelli che possono sorreggere la ricerca della stessa ai fini civili, dal momento che differenti son le esigenze che alimentano queste due discipline”. R. Miceli, La prova del conferimento societario e la rilevanza dei rapporti familiari ai fini dell'individuazione dell'esistenza di una società di fatto, op. cit., p. 238.

55 Così il Cipolla spiega le peculiarità del giudizio di fatto svolto in materia fiscale:il giudizio di fatto, di conseguenza, viene ad assumere il ruolo di “stanza di compensazione” di due esigenze spesso antitetiche, in cui ci si imbatte tutte le volte in cui il comando giuridico è subordinato ad un accertamento fattuale: l’esigenza della precisione e quella dell’efficacia (…). Nel diritto tributario, si assiste ad una continua tensione fra tali esigenze. Ciò dipende dal fatto che, diversamente dagli altri rami dell’ordinamento, efficacia e precisione si presentano qui in un’ottica tutta particolare. Esse, infatti, trovano la loro garanzia e nel contempo il loro limite (quasi in una corta di pesi e contrappesi) nel principio costituzionale di capacità contributiva: “efficienza” vuol dire assicurare una pronta e sollecita riscossione del tributo; “precisione” assoggettare a tassazione la capacità effettivamente manifestata dal contribuente”. G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, op. cit., pp. 57 - 58.

56 Secondo il Fedele, l’Amministrazione finanziaria assume una “posizione ibrida” perché deve conciliare “esigenze dell’individuazione delle fattispecie definite dalla legge tributaria – che ha sempre riguardo alla consistenza oggettiva dei fatti – e della tutela del fisco come creditore o comunque portatore di un interesse contrapposto a quello della società – che implica una maggiore considerazione dell’apparenza”. A. Fedele, Società in nome collettivo e in accomandita semplice: forme, esibizioni documentali e loro integrazione, op. cit., p. 1313.

57 Le norme di natura tributaria rimandano quasi integralmente al Codice civile per quanto concerne la disciplina in tema di privilegi fiscali, regolando solo alcuni aspetti specifici. Per una disamina dei privilegi di cui godono i crediti erariali v. P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2007 pp. 394 e ss; F. Batistoni Ferrara, I privilegi, in Trattato di diritto tributario, (a cura di) A. Amatucci, Padova, 1994, II, pp. 317 e ss.; S. Ghinassi, voce Privilegi fiscali, in Enc. dir., Milano, 1998, pp. 722 e ss; C. Glendi, voce Privilegi. II) Privilegi del credito d’imposta, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991.

58 Questa posizione è stata ribadita anche dall’Amministrazione finanziaria nella recente risposta ad interpello del 30 aprile 2021, n. 306, dove è stato stabilito che i fatti societari (come il recesso da parte di un socio) attinenti ad una società di persone formalizzata sono rilevanti verso l’Ente impositore solo successivamente all’annotazione nel registro delle imprese, come per qualunque altro creditore della società; v. Risp. Interpello 30 aprile 2021, n. 306 in banca dati fiscoline.

59 In proposito, una certa dottrina ha sostenuto la necessità di “accertare l’effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale non essendo sufficiente la mera apparenza di tale vincolo, sia pure accompagnato dal ragionevole convincimento della sua esistenza. In materia tributaria gli elementi di carattere presuntivo possono ben rilevare purché siano indicativi della reale esigenza di un organismo sociale”. M. Procopio, Individuazione della qualità di socio di società di fatto e litisconsorzio necessario, in Dir. prat. trib., 3, 2009, p. 633.

Si son espressi in senso concorde anche altri autori; fra i tanti, si riporta il pensiero della Miceli, secondo il quale “per la disciplina fiscale, invece, la tutela dei terzi non si pone come esigenza primaria, considerando, inoltre, che l’utilizzo del principio dell’apparenza potrebbe spesso condurre a notevoli discrasie fra volontà e manifestazione. Alla base infatti, “dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione delle norme impositive: di qui la necessità di accertare l’effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale non essendo sufficiente la mera apparenza di esso”. R. Miceli, La prova del conferimento societario e la rilevanza dei rapporti familiari ai fini dell'individuazione dell'esistenza di una società di fatto, op. cit., p. 239.

60 Diversi studiosi del diritto tributario hanno sostenuto che per accertare l’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali si sarebbero dovuti utilizzare i criteri elaborati dalla giurisprudenza per conoscere l’effettiva sussistenza di essa nei rapporti interni fra i soci. Tale esigenza sarebbe scaturita non in termini di responsabilità dei soci verso il fisco, ma di integrazione di fattispecie imponibili. Cfr. A. Fedele, Profilo fiscale delle società di persone, in AA.VV, Commentario al T.U. delle imposte sui redditi ed altri scritti. Scritti in memoria di A. E. Granelli, Roma, 1990, p. 30, ed anche L. Tosi, La nozione di reddito, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, (diretta da) F. Tesauro, I, Utet, Torino, 1994, p. 134.

Il Rovelli identifica la posizione dell’Amministrazione finanziaria asserendo che “non come mero creditore di un rapporto tributario sorto indipendentemente dal rapporto sociale, ma come soggetto per il quale l’esistenza della società e del rapporto sociale costituisce presupposto dell’obbligazione o elemento costitutivo della fattispecie impositiva, sembrerebbe più rapportabile alla disciplina dei rapporti interni che a quella dei rapporti esterni: non essendo ipotizzabile (verso chi non assuma relazioni negoziali con i soci, né ha un previo credito assunto sulla convinzione dell’esistenza effettiva della società) l’operatività di un principio, come quello dell’affidamento, ritenuto valevole a far considerare esistente, nei rapporti eterni, una società, in realtà, mai venuta in essere e, per questo, inesistente nei rapporti interni. Pare certo che possa costituire elemento di una fattispecie impositiva solo un contratto sociale “realmente” venuto ad esistenza”. L. Rovelli, Motivazione e prova della società di fatto ai fini Irpef, in Riv. giur. trib., 7, 2000, p. 581.

Gli elementi interni del contratto societario indicati dall’art. 2247 cod. civ. sono stati menzionati in diverse occasioni anche dai giudici di legittimità per qualificare la società di fatto nei rapporti con il Fisco. Secondo la corte di Cassazione, “la società di fatto invero prescinde dalle qualità o capacità personali dei contraenti e si fonda sul concorso di due elementi: uno oggettivo (conferimento beni o servizi in un fondo comune) ed uno soggettivo (comune intenzione dei contraenti di collaborare per conseguire risultati comune nell’esercizio collettivo di una attività imprenditoriale) e non è esclusa dal fatto che il fine degli associati consista nel compimento di una opera unica purché di obiettiva complessità (c.d. “società occasionali”) ovvero dalla mancanza di un atto scritto che può risultare da manifestazioni esteriori dell’attività di gruppo, quando esse, per la loro sintomaticità e concludenza, evidenzino la esistenza della società”. Cass., Sez. Civ., sent. 25 febbraio 2010, n. 4588, in C.E.D. Cassazione, 2010.

61 In dottrina si è sostenuto che: “tale soluzione discende direttamente dal principio costituzionale di capacità contributiva che, dettando di applicare il tributo soltanto a fatti realmente espressivi di forza economica e ai soggetti che effettivamente sono titolari della stessa, impone all’Amministrazione di non arrestarsi alla mera apparenza del vincolo, ma di dimostrare l’effettiva esistenza della società”. M.A. Capula, La prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali, op. cit., p. 1428.

62 Sul requisito dell’effettività della capacità contributiva, il Fantozzi ha rimarcato la sua valenza di limite assoluto della normativa fiscale; secondo l’illustre studioso, “il criterio della capacità contributiva dettato dalla norma costituzionale al legislatore ordinario pone a quest’ultimo al tempo stesso un limite assoluto (…). Un limite assoluto, che gli impone di scegliere quali presupposti del tributo fatti manifestativi di forza economica effettiva ed attuale”. A. Fantozzi, Diritto Tributario, Utet, Torino, 2003, p. 28.

Inoltre, tale effettività “va individuata nella definizione degli elementi di fatto che consentano di ricostruire in maniera analitica e puntuale l’incremento patrimoniale o comunque l’indice di potenzialità economia assunto a presupposto d’imposta”. P. Boria, I principi costituzionali dell’ordinamento fiscale, in Diritto tributario, (a cura di) A. Fantozzi, Utet, Torino, 2012, p. 91.

Sul requisito dell’effettività della capacità contributiva, senza alcuna pretesa di completezza, v. L. Tosi, La capacità contributiva. Il requisito dell’effettività, in Trattato di diritto tributario, (a cura di) A. Amatucci, 1994, I, Padova, pp. 321 e ss.; G.A. Micheli, Reddito di impresa ed imprenditore commerciale, in Opere minori di diritto tributario, II, Milano 1982, pp. 320 e ss.; F. Batistoni Ferrara, voce Capacità contributiva, in Enc. dir., III, Milano, 1999; F. Moschetti, voce Capacità contributiva, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988; E. De Mita, voce Capacità contributiva, in Digesto comm., II, Torino, 1987; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Utet, Torino, 2003, pp. 68 ss; A.F. Uricchio, Percorsi di diritto tributario, Cacucci, Bari, 2017, pp. 35 e ss.; F. Paparella, Lezioni di diritto tributario, parte generale, Cedam, Milano, 2021, pp. 45 e ss.

63 Cfr. A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, op. cit., pp. 390-391. L’autore si esprime a favore dell’utilizzo in ambito fiscale per il riconoscimento di una società di fatto degli elementi costitutivi del rapporto societario previsti dal Codice civile, mentre è scarsamente rilevante il principio dell’apparenza presupposto a garanzia dei diritti dei terzi.

Negli stessi stermini si e espresso anche il Boria, il quale sostiene come “l’imposizione deve venire calibrata in riferimento alle situazioni reali ed oggettive indipendentemente dalla “forma” (dell’attività o dell’atto) che si presenta all’esterno”. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 650.

Dello stesso avviso, fra i tanti, la Miceli, secondo la quale “per la disciplina fiscale, invece, la tutela dei terzi non si pone come esigenza primaria, considerando, inoltre, che l’utilizzo del principio dell’apparenza potrebbe spesso condurre a notevoli discrasie fra volontà e manifestazione. Alla base infatti, “dell’esistenza dei presupposti per l’applicazione delle norme impositive: di qui la necessità di accertare l’effettiva esistenza degli elementi costitutivi del vincolo sociale non essendo sufficiente la mera apparenza di esso”. R. Miceli, La prova del conferimento societario e la rilevanza dei rapporti familiari ai fini dell'individuazione dell'esistenza di una società di fatto, op. cit., p. 239.

64 In tal modo si viola uno dei doveri inderogabili di solidarietà previsti dall’art. 2 della Costituzione, sui quali si fonda la convivenza civile ordinata ai valori di libertà individuale e di giustizia sociale. Cfr. Corte cost., 18 febbraio 1992, n. 51, in Giur. it., I, 1, p. 2087.

65 I giudici della Corte costituzionale, in tal senso, si sono espressi sul combinato degli artt. 3 e 53 della Costituzione, sentenziando che: “a situazioni uguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario disuguale”. Corte Cost. 6 luglio, 1972, n. 120, in Boll. trib., 1972, p. 1452.

Per un approfondimento sulla correlazione con il principio di uguaglianza, si rimanda a L. Paladin, Il principio di uguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Riv. dir. trib., I, 1997, pp. 305 e ss., e anche F. Gallo, L’imposta regionale sulle attività produttive e il principio di capacità contributiva, in Giur. comm., 2002, 2, pp. 131 e ss.

66 Cfr. M. Procopio, Individuazione della qualità di socio di società di fatto e litisconsorzio necessario, op. cit., p. 634.

Un’illustre voce del diritto ha, tuttavia, sostenuto che il principio dell’apparenza potrebbe avere rilevanza nel diritto tributario al massimo qualora si volesse dimostrare l’inesistenza dell’ente. Difatti, “è bene dire, (…) che, in quanto l’amministrazione [finanziaria] è terza rispetto alla società, il criterio dell’apparenza potrebbe giocare un ruolo determinante ancorché (per pura ipotesi) si tendesse a dimostrare l’esistenza dell’ente. A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, op. cit., p. 391.

67 Il Santamaria ritiene incostituzionale una pretesa impositiva basata su presunzioni assolute senza la possibilità di offrire prova contraria da parte del contribuente; secondo il cultore del diritto: “sarebbero perciò incostituzionali le norme: a) che disponessero un carico d’imposta in relazione ad un possibile o potenziale indice di capacità contributiva, ritenuto in via meramente astratta; b) che giungessero ad indici di capacità contributiva attraverso la previsione di presunzioni assolute che non lasciassero spazio di prova contraria al contribuente”. B. Santamaria, Diritto tributario. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2011, p. 54.

68 Si condivide la considerazione del Bassi in merito ad un legittimo affidamento generalizzato scaturente dal principio di apparenza. Per l’autore, “esistono anche creditori – non secondari – che sfuggono a questo inquadramento: il Fisco, la Previdenza e i creditori da illecito, che oggi sono i protagonisti delle procedure concorsuali, rispetto ai quali non ha alcun senso parlare di affidamento e di apparenza societaria”. A. Bassi, L’apparenza come criterio di imputazione della responsabilità per l’esercizio dell’impresa, op. cit., p. 756.

69 Cfr. M.A. Capula, La prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali, op. cit., p. 1428.

70 Nella sentenza del 23 aprile 1991, i giudici di legittimità hanno chiarito che nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria si: “deve fornire la prova della concreta sussistenza della società medesima e, quindi non soltanto della sua apparenza esterna”. Cass., Sez. Civ., sent. 23 aprile 1991, n. 4415, in Boll. trib., 1992, 6, p. 544. Dello stesso avviso anche l’orientamento espresso dalla Suprema Corte nella sentenza 16 gennaio 2005 n. 27775, in C.E.D. Cassazione, 2005.

Il concetto è stato ribadito nuovamente in una recente controversia avente ad oggetto la possibilità di accedere al perfezionamento del condono ex art. 9 L. 289/2002: “mentre nel diritto societario e fallimentare viene tutelato l'affidamento dei terzi e, quindi, può essere dichiarato il fallimento della società "apparente" che, pur non esistendo, però si manifesta ai terzi come esistente, e quindi induce i terzi a contrattare con la stessa, nel diritto tributario conta l'esistenza della società nella sua effettività”. Cass., Sez. Trib., sent. 30 ottobre 2019, n. 27793, in C.E.D. Cassazione, 2019.

71 Cass., Sez. Trib., sent. 20 gennaio 2006, n. 1131, in Corr. Trib., 2006, p. 1413. Con questa pronuncia la Suprema Corte apre alla possibilità di basare la pretesa fiscale su elementi probatori utili solo a dimostrare l’apparenza del soggetto societario di fatto e non alla sua effettiva esistenza. L’Amministrazione finanziaria, quindi, non ha alcun obbligo di provare i rapporti interni fra i soci e, in particolare, la trasformazione dei beni in comunione a patrimonio sociale autonomo, la divisione degli utili, la percezione di somme da parte dei soci.

Nella recente sentenza del 17 gennaio 2020 n. 896 i giudici di legittimità hanno sostenuto che l’obbligazione tributaria è comunque da annoverare fra i rapporti esterni alla compagine sociale, per i quali non è necessario provare gli elementi costitutivi del contratto societario indicati dall’art. 2247 cod. civ., il Tribunale Supremo ha concluso che “l’esistenza di una società di fatto può essere desunta da manifestazioni comportamentali rivelatrici di una struttura sovraindividuale indiscutibilmente consociativa, assunta non per la loro autonoma valenza, ma quali elementi apparenti e rilevatori, sulla base della prova logica, dei fattori essenziali di un rapporto di società nella gestione dell’azienda” Cass., Sez. Trib., sent. 17 gennaio 2020 n. 896, disponibile per la consultazione in C.E.D. Cassazione, 2020.

Un altro esempio di configurazione di una società di fatto fra i membri di un sodalizio criminale è stato proposto nella recente pronuncia della Commissione Tributaria Regionale per la Campania del 14 febbraio 2020, n. 2194 (la pronuncia è disponibile in Banca dati fisconline.), ove i giudici di merito si sono espressi favorevolmente sull’esistenza di una società di fatto fra i reali beneficiari di una frode carosello. L’Ente impositore, oltre a contestare la fittizietà di una società a responsabilità limitata utilizzata quale mero schermo giuridico, ha qualificato l’agire dei beneficiari della frode quale manifestazione di un rapporto occulto di natura societaria, nonostante fra i soggetti coinvolti vi fosse un vincolo di parentela.

In questa occasione, la Commissione tributaria, richiamando un orientamento espresso in più occasioni dalla Suprema Corte, ha posto l’accento sul carattere di sistematicità delle componenti del rapporto societario, nonché sull’esteriorizzazione del vincolo sociale.

Tuttavia, non sempre chi sostiene l’azione di un sodalizio volto all’evasione fiscale è qualificato automaticamente socio in affari della stessa organizzazione criminale. È il caso affrontato dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia nella sentenza del 29 giugno 2020 n. 1438 (sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia – sezione staccata di Brescia è disponibile in Banca dati fisconline), dove i giudici di seconde cure non hanno ritenuto sufficiente, per riconoscere il ruolo di socio occulto, l’occultamento delle scritture contabili e l’attività di compilazione dei modelli F24 con i quali erano utilizzati crediti inesistenti, in assenza della prova degli elementi costitutivi del rapporto societario indicati dall’art. 2247 cod. civ.

Considerazioni simili sono state espresse anche in alcune pronunce di merito. A titolo esemplificativo, v. Commissione Tributaria Regionale della Puglia del 2 maggio 2019, n. 1354, in Mass. naz. giust. trib. mert., II, 2018, I, 2019, pp. 224-225.

72 Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 660.

73 Il principio dell’esteriorizzazione rappresenta un perfezionamento del criterio della spendita del nome, ritenuto insufficiente per provare l’esistenza di un soggetto societario. Si è registrata, quindi, una maggiore rilevanza di quei fatti e comportamenti esterni dell’attuazione del rapporto sociale che avessero un’obiettiva attitudine a rivelare l’esistenza di un vincolo sociale, nonché dell’effettiva volontà dei soci. Cfr. G. Marziale, Società di fatto, società apparente e affidamento dei terzi, in Giur. comm., 1975, II, p. 597.

74 Cfr. G. Spatazza, La società di fatto, op. cit., p. 26.

75 Nel giudizio ordinario di accertamento di un soggetto societario di fatto, i pretesi soci non possono provare l’inesistenza della società, ma solo l’inidoneità dei comportamenti assunti dai soci apparenti a far indurre nei terzi in buona fede il convincimento della sussistenza di un rapporto societario. Cfr. F. Preite, La società apparente, in Trattato società di persone, (a cura di) Preite F., Busi C.A., Utet, Torino, 2015, p. 84.

76 Secondo una certa dottrina, “per quanto attiene i fatti noti da cui trarre il fatto ignoto dell’esistenza della società, riteniamo che essi possono essere rappresentati da quegli stessi elementi utilizzabili in ambito civile dal terzo creditore di buona fede che agisce in giudizio per la tutela dei suoi diritti. Sia l’Amministrazione che il terzo possono dimostrare per via presuntiva l’esistenza della società di fatto, utilizzando quegli elementi di apparenza del rapporto sociale che, secondo l’id quod plerumque accidit, rappresentano la manifestazione esterna di un’attività imprenditoriale esercitata in forma societaria. M.A. Capula, La prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali, in op. cit., p. 1429.

77 Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 660. In dottrina si ritiene, altresì, che il ricorso alla prova per presunzioni rappresenta per l’Amministrazione finanziaria un percorso quasi obbligato; sarebbe di fatto impossibile per un soggetto estraneo al rapporto sociale reperire la prova diretta degli elementi costitutivi di un’organizzazione societaria realizzata per fatti concludenti. Cfr. M.A. Capula, La prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali, op. cit., p. 1429.

78 Cfr. M.A. Capula, ult. op. cit., p. 1430.

79 Una chiara dottrina giustifica il minore rigore nella valutazione degli elementi probatori e la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di utilizzare elementi presuntivi, in quanto l’Ente impositore è pur sempre “estraneo alla vicenda e non dovrebbe vedersi interamente addossato l’onere di una prova specifica relativamente a ciascuno degli aspetti suindicati, spesso implicitamente deducibili (almeno fino a prova contraria) dal concorso nello svolgimento dell’attività comune e nella determinazione dei suoi indirizzi”. A. Fedele, Profilo fiscale delle società di persone, in Riv. not., 1988, op. cit., p. 561.

80 In dottrina così si è argomentata la distinzione fra il presunto socio ed il contribuente: “mentre il presunto non socio potrà liberarsi da responsabilità fornendo la prova dell’inesistenza della società, il contribuente ben potrà provare che la società non esiste, per mancanza dei requisiti a cui l’art. 2247 del codice civile, subordina il sorgere del rapporto societario”. M.A. Capula, La prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali, op. cit., p. 1429.

81 Cfr. A. Fedele, Società in nome collettivo e in accomandita semplice: forme, esibizioni documentali e loro integrazione, op. cit., p. 1313.

Tuttavia, in dottrina non sono mancati orientamenti più propensi ad accostare la posizione dell’Ente impositore a quella di un socio; “la posizione del Fisco, non come mero creditore di un rapporto tributario sorto indipendentemente dal rapporto sociale, ma come soggetto per il quale l’esistenza della società e del rapporto sociale costituisce presupposto dell’obbligazione o elemento costitutivo della fattispecie impositiva, sembrerebbe più rapportabile alla disciplina dei rapporti interni che a quella dei rapporti esterni: non essendo ipotizzabile (verso chi non assuma relazioni negoziali con i soci, né ha un previo credito assunto sulla convinzione dell’esistenza effettiva della società) l’operatività di un principio, come quello dell’affidamento, ritenuto valevole a far considerare esistente, nei rapporti eterni, una società, in realtà, mai venuta in essere e, per questo, inesistente nei rapporti interni. Pare certo che possa costituire elemento di una fattispecie impositiva solo un contratto sociale “realmente” venuto ad esistenza”. L. Rovelli, Motivazione e prova della società di fatto ai fini Irpef, op. cit., p. 581.

82 La dottrina è concorde nel ritenere non ammissibile tout court nel diritto tributario quelli indici assunti a prova di un soggetto societario di fatto in ambito civilistico. Cfr. M. Procopio, Individuazione della qualità di socio di società di fatto e litisconsorzio necessario, op. cit., p. 20631.

83 La posizione dell’Amministrazione finanziaria in termini di onere probatorio è così spiegata dal Boria: “l’amministrazione finanziaria da un lato non è chiamata a fornire la prova specifica di ciascuno dei requisiti minimi necessari per aversi una società, dall’altro canto non può ritenere sufficiente la dimostrazione della “apparenza” della società di fatto; si avrebbe un quid pluris rispetto alla posizione dei terzi ed un quid minoris rispetto alla posizione dei soci”. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 661.

84 In dottrina si è evidenziato che ciò che differenzia la disciplina fiscale da quella commercialistica non è una differente nozione di società di fatto, bensì un diverso metodo da seguire per la valutazione dei vari elementi probatori. Mentre nell’ambito fiscale “non si potrà mai prescindere da una valutazione in merito all’idoneità degli elementi presentati dal caso concreto a dimostrare l’esistenza di un’attività svolta in forma societaria”; per il diritto commerciale “la prova varierà a seconda e vi sono dei conflitti fra i soci o fra un socio ed un terzo. Gli elementi presentati da una fattispecie potrebbero quindi condurre l’interprete ad entrambe le dimostrazioni laddove gli indici riescano, orientati secondo le diverse prospettive, a dimostrare l’operare di una società di fatto; in caso contrario si avrà rilevanza dell’organismo per una sola di queste due discipline, o per nessuna delle due”. R. Miceli, La prova del conferimento societario e la rilevanza dei rapporti familiari ai fini dell'individuazione dell'esistenza di una società di fatto, op. cit., p. 257.

85 Basti pensare all’applicazione della disciplina della trasparenza ex art. 5 TUIR, nonché all’assoggettamento all’Imposta Regionale sulle Attività Produttive poiché, con le modifiche introdotte dall’art. 1, comma 8, Legge 30 dicembre 2021, n. 234, dal 2022 sono esclusi dai soggetti passivi IRAP le ditte individuali.

86 Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 641. Lo stesso fenomeno giuridico può avere più possibili qualificazioni. Occorre, pertanto, confrontare le diverse ricostruzioni giuridiche per individuare la più adatta a qualificare il fenomeno giuridico.

87 Le associazioni rappresentano delle fattispecie di entità collettive previste dal nostro ordinamento giuridico per le quali si è proceduto o meno a portare a termine la procedura di riconoscimento. Come ogni ente, le associazioni sono composte da una pluralità di individui che perseguono specifiche finalità comuni ma, a differenza delle fondazioni ed i comitati, la struttura organizzativa a base soggettiva assume il ruolo di componente principale rispetto alla componente patrimoniale. Per una esaustiva trattazione dei parametri di classificazione degli enti collettivi nell’ordinamento giuridico, fra i tanti, si rimanda a F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2007, pp. 137 e ss.

È opinione condivisa in dottrina che il concetto di associazione ha un’accezione molto ampia, fino a ricomprendere ogni organizzazione costituita da una pluralità di individui per la gestione di interessi comuni, tanto da definire l’associazione in senso negativo, ovvero come non-società, non-consorzio, non-cooperativa, ecc. Cfr. A. Auricchio, voce Associazioni (diritto civile), in Enc. dir., III, Milano 1958, p. 874.; negli stessi termini anche P. Greco, Le società nel sistema legislativo italiano, Giappichelli, Torino, 1959, pp. 16 e ss.

Una certa dottrina annovera fra gli enti associativi anche le società, ritenendo che fra i due istituti sussista un rapporto di genus a species. Secondo il Barile, “il concetto di associazione, lato sensu, comprende come genus le species costituite dalle corporazioni, dalle istituzioni, dagli enti, dalle società civili e commerciali dagli istituti, da molti corpi morali, dai consorzi, dagli ordini professionali e religiosi, dalle confraternite e così via”, P. Barile, voce Associazione (diritto di), in Enc. dir., III, Milano, 1958, p. 838. Negli stessi termini si è espresso anche A. Auricchio, voce Associazioni (diritto civile), op. cit., pp. 873, mentre in senso contrario M. Ghidini, Società personali, op. cit., pp. 27 e ss., e G. Cottino, Diritto commerciale, I, Cedam, Padova, 1986, pp. 17 e ss.

Le società, a loro volta, possono essere distinte in tre categorie, a seconda dello scopo che intendono perseguire: società lucrative, società mutualistiche e società consortili. L’elemento in comune fra tutti i soggetti societari è l’essere “enti associativi che operano con metodo economico e per la realizzazione di un risultato economico a favore esclusivo dei soci”. G.F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. 2. Diritto delle società, op. cit., p. 28.

Negli stessi termini si è espresso anche il Buonocore, il quale ha individuato nel metodo economico “il minimum perché si possa parlare di impresa, senza rinnegare che il lucro è il fine naturale di ogni imprenditore o, se si vuole, può naturalmente prodursi in conseguenza dell’esercizio di un’attività economica”. V. Buonocore, L’impresa, in Trattato di Diritto Commerciale (diretto da) V. Buonocore, Giappichelli, Torino, 2002, p. 88.

88 Non sono rari i casi in cui l’attività imprenditoriale è condotta di fatto da una società occulta attraverso l’utilizzo improprio di altre fattispecie di contratti associativi. È il caso di quella miriade di pseudo-associazioni, circoli culturali, cooperative a scopo mutualistico ecc. costituite come tali solo per accedere a regimi fiscali di favore, ma che di fatto sono amministrate da un ristretto numero di associati che traggono il beneficio dall’attività economica svolta.

A titolo esemplificativo si menziona la pronuncia di merito della CTR Lombardia, 16 maggio 2012, n. 55/8/12 (disponibile in Banca dati fisconline), la Sentenza della Corte di cassazione 8 marzo 2013 n. 5836 (presente in C.E.D. Cassazione 2013), ed il recente giudizio di legittimità Cass., Sez. Trib., sent. 14 febbraio 2017, n. 6934 (riportato in Fisco, 2017, p. 1675).

89 In dottrina si ritiene che questa impostazione è dovuta ad un sistema improntato alla certezza dei rapporti con l’Amministrazione finanziaria, pertanto, “impone di apprezzare solo le indicazioni previste negli atti costitutivi o di autoregolamentazione dell’ente salvo che i documenti siano redatti in forma diversa da quella prevista dalla legge (ad esempio, la scrittura privata) oppure non siano proprio formalizzati come accade per gli enti di fatto”. A. Fantozzi, F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, op. cit., p. 96.

90 Cfr. T. Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 80 e ss. L’autore pone l’accento sulla rilevanza che assume il contratto sociale nell’individuazione della tipologia societaria che esprime “una destinazione istituzionale dell’organizzazione societaria allo svolgimento di attività commerciali. Non appare necessaria, come invece lo è per gli imprenditori individuali, la ricostruzione dell’attività in termini di verifica dell’unità funzionale degli atti effettivamente compiuti, come neppure l’esame fattuale dei caratteri dell’economicità professionalità ed organizzazione”. Ivi, p. 80.

91 La verifica della qualità di ente non commerciale ha da sempre rappresentato un elemento di criticità del sistema impositivo, anche a seguito dei vantaggi fiscali finalizzati ad incentivare il settore del no profit. Il Ministero delle Finanze ha, quindi, ritenuto opportuno predisporre un documento di prassi utile a chiarire alcuni aspetti normativi, ovvero la Circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 12 maggio 1998 n. 124, disponibile in Banca dati fisconline.

In caso di ente non societario, il legislatore prevede una prima valutazione – secondo il criterio formale individuato dall’art. 73, 4° co, TUIR – dell’oggetto stabilito in sede di costituzione quale mezzo per realizzare i fini perseguiti dall’ente.

È da applicarsi, invece, l’art. 73, comma 5, TUIR, dove è prevista una valutazione su base fattuale dell’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato al fine di individuare l’oggetto principale, ovvero quello che realizza direttamente i fini primari e giustifica l’esistenza dell’ente. Cfr. A. Fantozzi, F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, op. cit., pp. 94 e ss.

92 Al fine di valutare la commerciabilità di un ente associativo la Circolare del Ministero delle Finanze del 12 maggio 1998 n. 124, pone una correlazione fra l’art. 73 TUIR ed i parametri indicati dal legislatore all’art. 149 TUIR, per stabilire la perdita della qualifica di ente non commerciale, nel rispetto di alcune peculiarità previste da discipline speciali (quali ad esempio l’art. 148 TUIR per gli enti a base associativa, il recente Codice del Terzo Settore contenuto nel D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, ecc.).

In dottrina si ritiene che le disposizioni dell’art. 149 TUIR abbiano natura di norma antielusiva finalizzata a contrastare il fenomeno di quegli enti che, costituiti come non commerciali, esercitino effettivamente attività di natura commerciale. Cfr. A. Fedele, Disciplina degli enti “non profit”: profili tributari, in La disciplina degli enti non profit, (a cura di) G. Masarà, Giappichelli, Torino, 1998, p. 31.

Per un’attenta esposizione sulla valutazione della natura commerciale di un ente, oltre alla bibliografia già menzionata, si rimanda a M. Interdonato, Il regime fiscale dei consorzi tra imprenditori, Guffrè, Milano, 2004, pp. 59 e ss.; ed anche A.M. Proto, La fiscalità degli enti non societari, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 80 e ss.; M. Anselmo, Le attività commerciali nella disciplina fiscale del terzo settore, in La fiscalità del terzo settore, in La fiscalità del terzo settore, (a cura di) G. Zizzo, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 203 e ss.

93 Questa norma di chiusura rappresenta un “test chiarificatore” voluto dal legislatore per risolvere i tanti casi dubbi in cui non si riesce a stabilire la soggettività giuridica dell’organizzazione atipiche di persone e beni.

La migliore dottrina ritiene che la norma dell’art. 73, comma 2., TUIR possa avere portata generale nell’intero settore tributario, riconoscendo che: “è sufficiente scorrere una qualunque raccolta di legislazione per constatare come (…) tutte le possibili figure di enti o centri impersonali passibili di autonoma imposizione si riducono a quelli indicati dall’art. 2 del DPR. n. 598 [oggi art. 73 TUIR]” E. Nuzzo, Questioni in tema di tassazione degli enti non economici, in Rass. trib., 1985, p. 125.

94 Si fa presente che negli anni si è consolidato l’orientamento dottrinale, il quale attribuisce un maggior peso all’attività accertata qualora sia difforme dal dato formale indicato nei documenti sociali. La prevalenza del criterio sostanziale è anche giustificata dalla vaghezza riscontrata nella stesura degli atti costitutivi e degli statuti degli enti non commerciali; v. M. Polano, Attività commerciali ed impresa nel diritto tributario, Cedam, Padova, 1984, p. 185.

95 Nella dottrina giuscommercialista si è posto l’accento sulle differenze fra l’istituto societario e l’associazione del libro I del Codice civile che risiedono nella natura dell’attività esercitata e nello scopo da perseguire. Qualora l’ente collettivo svolga attività con un metodo non economico allora non si può configurare sicuramente un soggetto societario. Mentre, se l’attività esercitata è di natura economica occorre verificare la destinazione dei risultati positivi conseguiti; se gli stessi sono istituzionalmente ed integralmente devoluti ad uno scopo ideale si è ancora in presenza di un’associazione, in caso contrario si configura un soggetto societario; v. G.F. Campobasso, Diritto commerciale vol. 2. Diritto delle società, op. cit., p. 29.

96 Illustri autori del diritto si sono interrogati sulla rilevanza dello scopo di lucro quale elemento determinante per il contratto societario ex art. 2247 cod. civ. Una certa dottrina sostiene che lo scopo di lucro ha gradualmente perso importanza come elemento essenziale del contratto societario ex art. 2247 cod. civ. a seguito del proliferare di norme speciali che permettono di utilizzare lo schema societario anche per attività prive di uno scopo di lucro soggettivo. Si parla, difatti, di “tramonto dello scopo di lucro”, tesi ideata dal Santini nella sua opera: G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973, I, pp. 151 e ss., e riproposta, fra i tanti, anche in V. Buonocore, G. Castellano, R. Costi, Società di persone, op. cit., p. 47 e L. Buttaro, Corso di diritto commerciale, I, Premesse storiche e disciplina dell’impresa, (a cura di) M. Castellano, F. Vessia, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 101 e ss.

Tali conclusioni non sono condivise da chi ritiene che le deroghe previste dal legislatore sono comunque insufficienti per ritenere che un elemento naturale del contratto societario, insito in ogni normale fenomeno societario, sia diventato irrilevante; v. C. Angelici, La società nulla, Giuffrè, Milano, 1975, pp. 264 e ss., G. Marasà, Le società senza scopo di lucro, Giuffrè, Milano, 1984, pp. 471 e ss., e G.F. Campobasso, Diritto commerciale vol. 2. Diritto delle società, op. cit., pp. 30 e ss.

Nella dottrina tributarista lo scopo di lucro ha assunto rilevanza essenziale per suddividere i soggetti passivi d’imposta fra enti lucrativi e non lucrativi. La prima categoria accoglie, fra gli altri enti collettivi, anche le società di persone e di capitali, ed è caratterizzata dalle problematiche relative alla doppia imposizione economica in quanto, proprio la finalità lucrativa soggettiva porta alla distribuzione della ricchezza prodotta dall’ente collettivo. Cfr. A. Fantozzi, F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, op. cit., pp. 86 e ss., ed anche A. Fedele, Il regime fiscale delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, pp. 331 e ss.

97 La fattispecie societaria, così come afferma un’illustre voce della dottrina, è un fenomeno “essenzialmente egoistico” caratterizzato per l’istituzionale destinazione ai sui membri dei benefici patrimoniali conseguiti attraverso l’esercizio della comune attività d’impresa. Cfr. G.F. Campobasso, Diritto commerciale vol. 2. Diritto delle società, op. cit., p 32. Secondo l’autore le società sono un “fenomeno essenzialmente egoistico” e restano strutture associative fruibili in via generale solo per il perseguimento di uno scopo di lucro (o quanto meno economico). Non per il perseguimento di scopi ideali”.

Le previsioni legislative che attribuiscono alla fattispecie societaria uno scopo diverso da quello lucrativo sono da considerarsi norme eccezionali a cui l’accesso è previsto solo a determinati requisiti; v. G. Cottino, Le società di persone, Zanichelli, Bologna, 2019, p. 32, ed anche A. Gambino, Impresa e società di persone, Giappichelli, Torino, 2019, pp. 140 e ss.

98 Questa è l’opinione maggiormente condivisa in dottrina che ammette l’esercizio dell’attività commerciale finalizzata a perseguire un lucro da parte di entità associative diverse dal soggetto societario, ma senza alcuna distribuzione di utili. Fra tutti, si riportano le parole del Bigiavi, secondo il quale: “la differenza fra società e associazione dipende dal fatto che nella prima c’è, nella seconda non c’è lo scopo di lucro; dove tale criterio conserva piena rilevanza solo quando si intenda il lucro nel senso di lucro soggettivo”. W. Bigiavi, La professionalità dell’imprenditore, op. cit., p. 51.

In giurisprudenza non sono mancate isolate pronunce del giudice ordinario, non condivise dalla dottrina, che hanno collegato l’esistenza di un soggetto societario al mero esercizio di un’attività economica, anche in assenza di uno scopo di lucro. È il caso dei giudici di appello del Tribunale di Roma, i quali hanno sentenziato che: “se un’associazione, costituita per il raggiungimento di finalità assistenziali o sociali, pone in essere, come mezzo per il perseguimento di detto scopo, una attività di natura commerciale, essa è assoggettabile a fallimento come società di fatto, né ha rilievo che i lucri, obiettivamente ottenuti, fossero destinati ai fini di assistenza, e non divisi fra gli associati”. Trib. Roma 11 giugno 1954, in Dir. fall, 1954, II, p. 455, App. Roma 5 giugno 1957, in Foro it., I, p. 1274; App. Trento 18 maggio 1970, in Giur. it., 1971, I, 2, p. 306.

99 E. Morino, Società di fatto, associazione e scopo di lucro: un nodo gordiano ancora da sciogliere, in Giur. it., 2, 2014, p. 359. Secondo l’autore la partecipazione agli utili integra un requisito essenziale del contratto di società; pertanto, all’associazione è ammesso di esercitare in via mediata un’attività economica o addirittura gestire un’impresa commerciale, ma solo per devolvere esclusivamente e totalmente i guadagni di tale attività ai fini non economici.

Negli stessi termini si sono espressi, fra i tanti, F. Galgano, Le società in genere. Le società di persone, op. cit., pp. 56 e ss., ed anche R. Costi, G. Di Chio, Società in generale. Società di persone. Associazioni in partecipazione, in Giur. sist. Dir. Civ. Comm., 1980, pp. 43 e ss.

Tuttavia, fra i giuscommercialisti non è mancato chi ha sostenuto che l’associazione dovesse assumere la qualifica di imprenditore commerciale ogni qualvolta esercitasse, a qualunque titolo – quindi non solo come attività principale o prevalente, ma anche se fosse accessoria o strumentale – una delle attività commerciali elencate all’art. 2195 cod. civ.; v. P. Spada, Note sull’argomentazione giuridica in tema d’impresa, in Giust. Civ., 1980, I, pp. 2274 e ss.; G.F. Campobasso, Associazioni e attività d’impresa, in Riv. Dir. Civ., 1994, II, pp. 79 e ss.; L. Farenga, Esercizio di impresa commerciale da parte di enti privati diversi dalle società e fallimento, in Dir. fall., 1981, pp. 222 e ss.

100 Le previsioni statutarie che impongono il divieto di distribuzione degli utili sono state disposte per l’accesso a regimi fiscali particolarmente vantaggiosi destinati agli enti non commerciali. Tuttavia, si ritiene che la definizione di “assenza di scopo di lucro” offerta dall’amministrazione finanziaria in tale sede, possa avere valore generale, tale da poter scongiurare lo scopo di lucro di un ente non commerciale in presenza di un il divieto di distribuzione di utili”. Cir. Min. Fin. 12 maggio 1998 n. 124, in Banca dati fisconline.

La stessa interpretazione è stata riproposta dall’amministrazione finanziaria anche in documenti di prassi più recenti, quali la Risoluzione 18 ottobre 2007, n. 299, la risoluzione 29 luglio 2014, n. 74 e, da ultimo, la risoluzione 28 giugno 2019 n. 63/E; in quest’ultima si è fatto presente che “il concetto di non lucratività non coincide necessariamente con quello di non commercialità. Infatti, mentre il carattere non commerciale dell’ente dipende dallo svolgimento in via esclusiva o prevalente di attività d’impresa, l’assenza del fine di lucro implica, invece, un’espressa previsione statutaria che vincola la destinazione del patrimonio e degli utili, di cui deve essere esclusa (anche in forma indiretta) la ripartizione, alle stesse finalità sociali perseguite dall’Ente”. Ris. 28 giugno 2019 n. 63, in Banca dati fisconline.

In ultimo, è da sottolineare che il legislatore fiscale, per evitare comportamenti elusivi degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, all’art. 10, comma 6, D.Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, il legislatore ha qualificato come distribuzione indiretta di utili: (i) l’acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore normale; (ii) la corresponsione ai componenti degli organi amministrativi e di controllo di compensi individuali annui superiori al compenso massimo previsto per il presidente del collegio sindacale delle s.p.a.; (iii) la corresponsione ai lavoratori dipendenti di salari o stipendi superiori del 20% rispetto a quelli previsti dai contratti di lavoro per le medesime qualifiche.

Tali limiti quantitativi che, secondo le disposizioni contenute nella Circ. 26 giugno 1998, "http://home.ilfisco.it/perl/public_wkilogin.pl?OPERA=90;%20AUTH=6edd541e1893118cd45f4362db7aefa6;%20SSCKEY=30b62e61ab77661f1f875ef1067fe28f-206;%20REDIR=fol-new.pl%3 Flog-ssckey%3D30b62e61ab77661f1f875ef1067fe28f-206%3Blog-ckey%3D%2540agentra% 3Bcmd-doc%3D249068%2520cod_istruz%25283%253A1%252A%252A%2529%2520data_istr %25280%253A1%252A%2529%2520tipo_istr%25280%253A1%252A%2529%2520%255B0%25D" (disponibile in Banca dati fisconline), assumono valore di presunzione assoluta e che, come chiarito dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate 10 settembre 2002, http://home.ilfisco.it/perl/public_wkilogin.pl?SSCKEY=30b62e61ab77661f1f875ef1067fe28f-206;OPERA=90;%20AUTH=6edd541e1893118cd45f4362db7aefa6;REDIR=fol-new.pl%3Flog-ckey %3D%2540agentra%3Blog-ssckey%3D30b62e61ab77661f1f875ef1067fe28f-206%3Bcmd-doc%3D72700%2520cod_istruz%25283%253A1%252A%252A%2529%2520data_istr%25280%253A1%252A%2529%2520tipo_istr%25280%253A1%252A%2529%2520%255B0%255D" (disponibile in Banca dati fisconline), hanno lo scopo di evitare eventuali abusi o pratiche elusive. Al di fuori delle ipotesi appena elencate, la distribuzione indiretta di utili o avanzi di gestione dovrà essere verificata caso per caso, ma, poiché non vale alcuna presunzione, il contribuente potrà opporre la prova contraria.

101 Si può addivenire a questa conclusione dalla lettura di alcuni passaggi del documento di prassi predisposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze riferiti agli enti di tipo associativo, dove per accedere a particolari regimi agevolativi è richiesta, fra le altre condizioni, la previsione espressa nello statuto del divieto di distribuzione degli utili. Pertanto, anche per l’Amministrazione finanziaria l’esclusione del fine di lucro deve perdurare stabilmente nel tempo; v. Cir. Min. Fin. 12 maggio 1998, n. 124, in Banca dati fisconline.

Sul vincolo di destinazione degli utili e l’accesso da parte di enti non commerciali a regimi fiscali di favore v. A.M. Proto, La fiscalità degli enti non societari, op. cit., 2003, pp. 126 e ss.

102 Cass., Sez. Trib., sent. 11 marzo 2021, n. 6835, in C.E.D. Cassazione, 2021.

103 È orientamento dottrinale consolidato che in ambito fiscale la nozione di commercialità opera un rinvio implicito al concetto di economicità. Infatti, una certa parte della dottrina afferma che: “per determinare la spera commerciale ai fini fiscali, l’art. 55 del TUIR rinvia all’art. 2195 del Cod. Civ. e tale riferimento impone di apprezzare i vincoli della norma civilistica (…) in quanto le attività ivi indicate devono essere “economicamente organizzate” in forza del coordinamento con l’art. 2082 del Cod. Civ.”. A. Fantozzi, F. Paparella, Lezioni di diritto tributario d’impresa, op. cit., p. 97.

104 Cfr. A.M. Proto, Classificazione egli enti diversi dalle società e natura delle attività esercitate, in Riv. Trib., 1995, p. 556. L’autrice collega la natura commerciale dell’attività esercitata dall’ente solo in presenza di una politica dei prezzi orientata al conseguimento di un profitto. Pertanto, non è sufficiente la conservazione dell’integrità del capitale, ma è necessario avere un incremento del capitale investito. Per ulteriori riflessioni si rimanda anche all’opera della stessa autrice A.M. Proto, La fiscalità degli enti non societari, op. cit., p. 49.

Un orientamento dottrinale alternativo ritiene che la natura economica di un ente presuppone lo svolgimento di attività programmate ed esercitate con modalità che garantiscano un flusso di ricavi sufficienti a coprire i costi ed a remunerare i fattori della produzione. Cfr. A. Fedele, Il regime fiscale delle associazioni, op. cit., p. 336.

105 I giudici di legittimità hanno riconosciuto la natura commerciale dell’attività effettivamente svolta dall’ente associativo, secondo l’assunto che il corrispettivo richiesto agli associati: “è ripartito tra tre soggetti: l'AICA riceve un importo (costo medio per candidato sulla base del «costo medio su base nazionale») che, in realtà, è il costo della prestazione; il Centro accreditato riscuote l'intero corrispettivo e trattiene la quota che gli compete per la copertura delle spese di gestione e istituzionali; la differenza spetta a DIDASCA. Da ciò la conseguenza che l'ente ha ricoperto e svolto un ruolo di intermediazione tra l’AICA, fornitrice dei beni e servizi, e l'effettivo (Centro accreditato) soggetto erogatore degli stessi verso gli utenti finali, ricevendo per tale compito una parte del corrispettivo della vendita”. Cass., Sez. Trib., sent. 11 marzo 2021, n. 6835, in C.E.D. Cassazione, 2021.

106 Come puntualizzato dai giudici di via Cavour: “il giudice di merito (…), si è limitato, in termini lineari, a valutare in concreto (…) la corretta attività dell’ente (che svolge attività imprenditoriale) e dei component del comitato direttivo (che, di comune accorto ed attraverso il conferimenti dei servizi lavorativi da loro svolti all’interno dell’associazione, hanno dato direttive e disposizioni sulla gestione dell’ente, organizzando l’attività economica e fissando, fra l’altro, l’ammontare dei corrispettivi per le prestazioni fornite agli utenti finali, con conseguente determinazione del margine di guadagno assicurato all’ente, ossia all’utile d’impresa poi ripartito fra di loro), concludendo, con accertamento in fatto, che DIDASCA ha operato come una società di persone” Cass., Sez. Trib., sent. 11 marzo 2021, n. 6835, in C.E.D. Cassazione, 2021.

107 La Suprema corte conclude, infatti, le sue osservazioni affermando che: “orbene, da tali elementi il giudice di merito, con indagine in fatto insuscettibile di riesame in sede di legittimità, ha ritenuto provato che l’attività economica sopra descritta costituiva il vero oggetto dell’associazione non riconosciuta e che lo scopo associativo era la ripartizione degli utili fra gli associati”. Cass., Sez. Trib., sent. 11 marzo 2021, n. 6835, in C.E.D. Cassazione, 2021.

108 V. Cass., Sez. Trib., sent. 11 marzo 2021, n. 6835, in C.E.D. Cassazione, 2021.

109 Illustri voci della dottrina hanno già adottato l’istituto della società di fatto per offrire una veste giuridica a fenomeni non disciplinati dall’ordinamento.

Uno di questi è costituito dagli atti compiuti prima della conclusione del procedimento costitutivo di una società di capitali, qualificati come atti di una società di fatto; v. T. Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, op. cit., pp. 103 e ss.; id., Gli atti preparatori e l’inizio dell’impresa, in Rass. Trib., 2000, 2, pp. 455 e ss., e anche C. Sacchetto, L’imposta sul reddito delle persone giuridiche, in Trattato di diritto tributario, (a cura di) A. Amatucci, IV, I, Cedam, Padova, 1994, p. 88.

Un altro impiego del soggetto societario di fatto è avvenuto per offrire una qualifica giuridica ai fini fiscali a fenomeni aggregativi di società quali, ad esempio, le associazioni temporanee di imprese; v. L. Perrone, Associazione temporanea di imprese e consorzi con attività esterna: problemi di diritto tributario, in Riv. dir. fin., 1984, pp. 144 e ss., e C. Sacchetto, A. Spotto, Aspetti tributari degli accordi di cooperazione fra imprese indipendenti (le joint ventures), in Riv. dir. trib., 1993, I, pp. 593 e ss.

110 In dottrina si è espresso un ragionamento similare. Qualora vi sia un’organizzazione di persone che svolga attività economica a scopo di lucro, se si prova l’esistenza di un’organizzazione di attività unitaria ed autonoma, non si può che essere in presenza di una società di fatto; mentre, se non si riesce a provare tale organizzazione di attività non solo non si configura una società per fatti concludenti, ma non si può riconoscere alcun soggetto passivo d’imposta. Cfr. P. Boria, Criteri di identificazione delle società di fatto ai fini delle imposte sui redditi, op. cit., p. 682.