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Pubblicazione Anteprima 4 - 2024Articolo 1

Note in tema di integrazione fiscale negativa e giurisprudenza europea

Scritto da Luca Costanzo • nov 2024

Sintesi

Il saggio propone un’analisi essenziale dei giudizi di restrizione e non discriminazione svolti dalla Corte di giustizia nell’ambito della cd. integrazione tributaria negativa, rinvenendovi assonanze con il controllo di ragionevolezza operato dalle Corti costituzionali degli Stati membri. La giurisprudenza di Lussemburgo sembra però interpretare il parametro del principio di uguaglianza più alla luce della garanzia formale della parità di trattamento che in vista della realizzazione dei valori solidaristici e di uguaglianza sostanziale che improntano il principio di capacità contributiva nell’ordinamento interno.


Abstract

The essay proposes an essential analysis of the rulings of restriction and non-discrimination carried out by the Court of Justice in the context of fiscal integration, finding analogies with the principle of reasonableness carried out by the Constitutional Courts of the Member States. However, the Luxembourg jurisprudence seems to interpret the parameter of the principle of equality more in light of the formal guarantee of equal treatment than in view of the realization of the values ​​of solidarity and substantial equality that characterize the principle of the ability to pay in the internal legal system.

Contenuto

1. Premessa

Ci si propone qui di dare conto del ruolo della c.d. “integrazione negativa” in ambito euro-tributario, attraverso una ricognizione critica delle più note pronunce della Corte di giustizia in tema di fiscalità, con l’intento di mostrare possibilità e limiti dell’esperienza giuridiche euro-unitaria nel definire standard coordinati di equità impositiva in una prospettiva multilivello.

In questo quadro, l’esposizione si soffermerà sugli esiti giurisprudenziali cui è pervenuto il giudice dell’Unione europea nella disamina della conformità delle formule impositive statali rispetto alle libertà economiche sancite dai Trattati.

Nel corso dell’analisi, si proverà quindi ad enucleare i motivi di criticità della c.d. “integrazione europea negativa”, essenzialmente riconducibili al carattere reattivo (e non proattivo) dell’armonizzazione di matrice giurisprudenziale, e, per altro verso, al sostanziale difetto di legittimazione democratica rispetto agli effetti positivi e costruttivi di nuove regole precettive in materia tributaria.1


2. Il principio di non discriminazione e parità di trattamento nella giurisprudenza della Corte di giustizia

Un primo profilo di riflessione pertiene quindi all’applicazione del principio di non discriminazione da parte della Corte di giustizia nei confronti delle discipline tributarie nazionali, laddove queste mettano a repentaglio le esigenze di uniformità e salvaguardia dei principi politico-economici dell’Unione europea.

Come è stato osservato,2 l’applicazione delle libertà fondamentali secondo i moduli del principio di non discriminazione può essere ricondotta nel suo svolgimento essenzialmente a quattro fasi, ossia

a) la sperimentazione di un test soggettivo di rilevanza della libertà UE,

b) la verifica circa la pertinenza oggettiva della libertà all’attività transnazionale svolta dal contribuente (test oggettivo),

c) la comparazione tra la situazione in esame e una analoga che funge da parametro di legittimità (tertium comparationis), e

d) il riscontro di eventuali cause di giustificazione (deroghe) alla violazione della libertà UE.

Sub a) Quanto al primo dei punti illustrati, il c.d. test soggettivo, la giurisprudenza della Corte di giustizia sembra consolidata nel ritenere, per le persone fisiche, la cittadinanza dell’Unione europea condizione necessaria e sufficiente per il godimento delle libertà economiche e i diritti fondamentali dell’ordinamento eurounitario.

Mentre, per quanto concerne le persone giuridiche, la Corte ha precisato come la soggettività unionale dipenda dalla normativa dei singoli Stati membri in tema di residenza fiscale:3 sicché, laddove un ente abbia la residenza nell’Unione ed eserciti una libertà nel suo contesto territoriale, ad esso potrà applicarsi il meccanismo di verifica della non discriminazione.

Sub b) Con riferimento al c.d. test oggettivo, la giurisprudenza unionale ha chiarito come esso si estrinsechi nel carattere transnazionale della fattispecie cui pertiene la violazione del diritto UE.4

Si è anche osservato come potrebbe rispondere positivamente al test oggettivo anche il caso del cittadino di uno Stato membro che, residente in altro Stato membro, risulti discriminato dalla normativa dello Stato di cittadinanza5. In effetti, l’ampliamento delle fattispecie soggette al rispetto del diritto dell’UE, estendendone la rilevanza dal collegamento di cittadinanza a quello di residenza, oltre ad essere maggiormente aderente ai criteri di imposizione vigenti in ambito tributario, consentirebbe una riduzione delle questioni di diritto “puramente interno” in conformità col principio dell’effetto utile del diritto dell’UE.6

Passando al punto sub c), il cuore dell’analisi circa l’attuazione del principio di parità di trattamento in campo euro-tributario è, però, certamente ricoperto dalla comparazione tra fattispecie discriminate e non discriminate, le quali, laddove congruamente confrontabili, conducono all’esito positivo della declaratoria di illegittimità euro-unitaria della normativa discriminante da parte della Corte di giustizia. Si tratta, in altri termini, di rinvenire un tertium comparationis nel confronto tra fattispecie a rilevanza interna e a incidenza europea.

Nel diritto costituzionale interno, il giudizio di ragionevolezza, per così dire, “classico” è informato al parametro del tertium comparationis e si esprime nell’individuare in una norma regolativa (riferita a una determinata fattispecie “A”) la misura di congruità del rapporto prescrizione – finalità prescrittiva (id est, la ratio legis); stabilito tale rapporto, esso viene confrontato alla fattispecie “B” per valutare se dal punto di vista della ratio legis della prima norma sussista un’analogia con la fattispecie “A”.

Se “A” è analoga a “B”, alla luce della ratio legis della norma regolativa di “A”, allora la norma regolativa di “B” non potrà differire da quella di “A”.

Nell’ambito del diritto euro-tributario il giudizio di ragionevolezza assume, potremmo dire, due volti differenti, a seconda che il confronto tra fattispecie a rilevanza transnazionale e fattispecie meramente interna sia realizzato con riferimento allo Stato membro di origine o allo Stato membro ospitante il soggetto “discriminato”.

Nel primo caso, si può parlare di “giudizio di restrizione”, perché la discriminazione comporta una restrizione della fruizione delle normative agevolative dello Stato membro di origine del contribuente in corrispondenza dell’accesso al mercato europeo. Nella seconda ipotesi, siamo invece in presenza di un “giudizio di discriminazione” perché la discriminazione si verifica nella sede dello Stato che ospita il soggetto che ha realizzato la fattispecie transnazionale.7

Orbene, è solo con riguardo al “giudizio di discriminazione” che può tratteggiarsi il medesimo giudizio di ragionevolezza che si attua nel diritto interno; in tal caso, il tertium comparationis sarà costituito dalla norma regolativa della fattispecie meramente interna, mentre l’oggetto della valutazione comparativa sarà la situazione del contribuente che si è avvalso delle libertà europee.

Laddove, invece, fossimo dinanzi a un “giudizio di restrizione”, allora non potrà darsi analogia tra la fattispecie di rilevanza europea e la fattispecie meramente interna, perché la prima è tesa a fruire delle libertà UE, mentre la seconda non se ne avvale; le due fattispecie saranno allora strutturalmente eterogenee. L’ordinamento intende, in questo caso, perseguire la medesima finalità “X” rispetto a due fattispecie diverse, comminando prescrizioni diverse.

Il giudizio di restrizione allora assumerà le sembianze di un giudizio di proporzionalità, in quanto la Corte UE sarà chiamata a valutare se la diversa prescrizione dedicata alla fattispecie di rilevanza europea sia proporzionata a quanto necessario per perseguire la medesima finalità comune alla fattispecie a incidenza meramente interna. Così assimilando il ragionamento descritto al giudizio di ragionevolezza “di terza generazione” cui fanno ricorso le Corti costituzionali, ossia al giudizio del bilanciamento tra principi opportunamente modulato ai fini di garantire la proporzionalità degli effetti del suo esito8. Tra “giudizio di discriminazione” e “giudizio di restrizione” cambiano, dunque, i termini del confronto poiché, ci si domanda, nel primo caso, se il diverso trattamento giuridico della fattispecie unionale e di quella interna sia validamente possibile, e, nel secondo, se esso sia validamente proporzionato alla luce del principio di non discriminazione.

Sul punto, si propone ora un excursus della giurisprudenza della Corte di giustizia.


3. Il giudizio di restrizione

Un caso di “giudizio di restrizione” si è, ad esempio, verificato nella pronuncia Imfeld e Garcet del 2013.9 Il caso riguardava l’applicazione di una “quota di esenzione” del reddito ai fini dell’imposizione fiscale in Belgio, la quale di regola veniva applicata nei redditi familiari alla porzione di reddito di quello che tra i coniugi risultava maggiore.

In questo contesto, il signor Imfeld, un professionista belga, esercitava la libertà di stabilimento in Germania producendo l’interezza del proprio reddito in quel Paese, per poi venire tassato anche in Belgio congiuntamente al suo coniuge. Nella determinazione della base imponibile, per effetto della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Germania e Belgio, il reddito del signor Imfeld, che costituiva la componente maggiore tra i redditi dei due coniugi, era considerato però completamente esente, con la conseguenza di non comportare alcuna “quota di esenzione” supplementare secondo la regola sopra illustrata.

La finalità della regola di imputazione della “quota di esenzione” è quella di alleviare l’imposizione fiscale per ciascun contribuente secondo canoni di equità che, laddove l’imposizione si riferisca a un nucleo familiare, si riferiscono al soggetto che in quel nucleo percepisce la componente maggiore di reddito. Laddove, però, il reddito cui sarebbe riferibile la quota di esenzione sia già del tutto esente, allora la finalità equitativa risulta già raggiunta indipendentemente dall’attivazione del particolare meccanismo previsto dal sistema fiscale belga; con il risultato di non comportare alcuna quota di esenzione aggiuntiva perché già assorbita nell’esenzione generale del reddito del signor Imfeld.

L’esito così raggiunto, ossia l’assenza di quote di esenzione aggiuntive sul reddito complessivo del nucleo familiare, era quindi conforme alla finalità della regola fiscale prevista per le fattispecie puramente interne, anzi discendeva dall’applicazione stessa di quella regola, riferendosi la quota di esenzione a un reddito già esente.

Tuttavia, tale risultato era più sfavorevole rispetto a quello che il signor Imfeld avrebbe avuto nel caso in cui il suo reddito professionale fosse stato prodotto in tutto o in parte sul territorio belga, così cagionando una restrizione all’esercizio della libertà di stabilimento. In effetti, proprio il ricorso alla libertà di cui all’art. 49 TFUE aveva comportato una situazione maggiormente sfavorevole rispetto a quella di cui il professionista avrebbe giovato se il suo reddito, in pari misura quantitativa e qualitativa, fosse stato prodotto in Belgio.

In altri termini, la regola di diritto interno comportava un pregiudizio per la fattispecie transnazionale.10

La problematica sottesa alla questione riguardava quindi il bilanciamento tra la regola nazionale e la libertà di stabilimento o, per meglio dire, la proporzionalità della restrizione alla libertà di stabilimento cagionata dalla regola fiscale di diritto interno.

Ciò che, come vedremo, si traduce nell’ambito del giudizio sulla parità di trattamento/non discriminazione in ambito UE nella verifica circa la ricorrenza di una qualche causa di giustificazione e nel ricorso in modo proporzionato a tale causa.

Tali aspetti oggetto di analisi sono entrambi rinvenibili nella pronuncia in esame. E infatti, in primo luogo, la Corte di giustizia si interroga circa la sussistenza della giustificazione relativa alla “equilibrata ripartizione della potestà impositiva tra Stati”, avanzata dal Regno del Belgio.11

Tuttavia, la Corte osserva che siffatta causa di giustificazione, ancorché ravvisabile in astratto, sarebbe funzionale “a prevenire comportamenti atti a pregiudicare il diritto di uno Stato membro all’esercizio della propria competenza fiscale in relazione alle attività svolte sul suo territorio”; ma nel caso del signor Imfeld non saremmo in presenza di una sottrazione di potestà, ovvero di materia, impositiva allo Stato Belga, ma a una sterilizzazione delle agevolazioni fiscali a beneficio del nucleo familiare (e quindi non solo del professionista), per il solo fatto che il reddito più elevato del componente familiare è stato tassato in Germania.

Un secondo argomento, probabilmente più efficace, è considerato dall’interveniente governo estone,12 secondo cui la distorsione nella ripartizione della materia impositiva sarebbe da ricondurre non tanto alla sottrazione dichiarativa di base imponibile in uno Stato, bensì all’effetto recato dalla concessione, in sostanza, di una doppia agevolazione da parte del meccanismo che prevedesse in Belgio, oltre all’esenzione del reddito tassato in Germania, anche l’attribuzione al reddito cumulativo dei due coniugi di una quota imponibile esente.

Siffatto esito, per la Corte, non sarebbe però tanto una distorsione collaterale del meccanismo impositivo dei due Stati, quanto “il frutto dell’applicazione parallela delle normative fiscali belga e tedesca, come concordata da questi due Stati membri nei termini stabiliti dalla convenzione del 1967”.13

In altri termini, la violazione della libertà di stabilimento, anche laddove ravvisabile, non può trovare giustificazione in una ipotetica distorsione della ripartizione impositiva che trovi origine nell’accordo tra gli Stati. Proprio la Convenzione contro la doppia imposizione diventa quindi la regola di giudizio della proporzionalità della violazione della libertà UE.

La violazione è quindi proporzionale solo nella misura in cui conduce ad effetti che sono stati oggetto di accordo tra le parti; diversamente, laddove la norma fiscale di diritto interno, in tesi prevalente sulla libertà di stabilimento, conduca a “compensazioni” della potestà impositiva tra gli Stati interessati che non erano previste nella relativa Convenzione contro la doppia imposizione, e che quindi di fatto valgono a integrare e sostituire in via unilaterale quanto disposto dalla Convenzione, tale compensazione risulta sproporzionata.

Così, anche la norma di diritto interno, ovvero la sua applicazione, che conduce a negare la quota di esenzione supplementare prevista dalla normativa fiscale belga sul reddito cumulativo del nucleo familiare, in presenza di una componente reddituale dei due coniugi prodotta in altro Stato UE completamente esente per effetto della Convenzione Germania – Belgio, costituisce una violazione/restrizione di diritto interno (ossia un bilanciamento) a danno della libertà di stabilimento di natura non proporzionata, perché volta a integrare/sostituire il regolamento e la ripartizione della potestà impositiva inscritto in detta Convenzione.

Un altro esempio di intervento puntuale della Corte di giustizia sulla disciplina fiscale nazionale in termini di “giudizio di restrizione” è ravvisabile nel caso Marks & Spencer,14 in cui veniva in rilievo la possibile interferenza con il diritto di stabilimento secondario della norma tributaria britannica che limitava l’imputabilità delle perdite di società controllate localizzate in altri Stati membri alle società controllanti residenti nel Regno Unito. In particolare, si trattava della normativa sul c.d. “sgravio di gruppo”, ossia la facoltà di trasferire, ai fini della deduzione fiscale, le perdite di esercizio da una società a un’altra, facenti entrambe parte di un medesimo gruppo di controllo; a condizione, però, che sia la trasferente sia la trasferita fossero registrate (e quindi residenti) nel Regno Unito, ancorché la prima esercitasse attività commerciale in altro Stato UE.

In tale contesto la società Marks & Spencer, attiva nei settori dell’abbigliamento, dei prodotti alimentari e domestici e dei servizi finanziari, si vedeva negare dall’Ufficio fiscale britannico la possibilità di usufruire dello sgravio di gruppo con riferimento alle perdite prodotte da alcune sue succursali che avevano esercitato le vendite in Francia e Germania, in quanto queste, ancorché appartenenti al medesimo gruppo della controllante inglese, non erano registrate nel Regno Unito.

Anche in questo caso, la Corte attiva un giudizio di vero e proprio bilanciamento della libertà di stabilimento (secondaria) con i principi fiscali dello Stato membro, per i quali lo scomputo della perdita deve essere riferita agli utili della medesima attività che l’ha generata e quindi al medesimo sistema fiscale; peraltro, la Corte UE osserva come la norma limitativa di diritto interno persegua anche le apprezzabili finalità di evitare che si verifichi una doppia deduzione di perdite negli Stati della controllata e della controllante, nonché che il gruppo possa disporre a suo piacimento delle perdite per finalità di pianificazione fiscale transnazionale, agendo in modo da abbattere i profitti là dove la tassazione è più elevata per aumentarli nei Paesi in cui il peso fiscale sia più lieve.15

Conseguentemente, però, secondo gli schemi del giudizio di restrizione, la Corte si interroga circa la proporzionalità di tale bilanciamento. E giunge alla conclusione che nel caso di specie la misura applicata dall’Ufficio britannico non fosse proporzionata perché del tutto astratta e priva di considerazione delle circostanze concrete. In particolare, l’interesse fiscale deve essere salvaguardato solo nella misura in cui possa essere messo a rischio: ciò che si verifica quando la possibilità di un utilizzo strumentale delle perdite di esercizio di una succursale non residente da parte della controllante residente nel Regno Unito sia ancora possibile, mentre tale rischio non sussiste allorquando il predetto uso strumentale delle perdite non sia più possibile.

Nel caso della Marks & Spencer, le succursali non residenti nel Regno Unito avevano, in effetti, perduto il diritto di riportare a nuovo le perdite, ovvero di cederle a un terzo secondo la normativa tributaria degli Stati di rispettiva residenza e, pertanto, nessuno dei rischi di duplicazione/ripartizione pianificata ai soli fini fiscali delle perdite poteva più avere luogo. Di conseguenza, il divieto opposto dall’Amministrazione tributaria inglese risultava, per quanto conforme alla regola di bilanciamento operata dalla normativa britannica, volta a preservare l’utilizzo congruo delle perdite fiscali da un uso improprio in via transnazionale, sproporzionato nel caso di specie.16 Per incidens, vale la pena di osservare che tale conclusione, per quanto condivisibile, potrebbe dover presupporre una chiara ripartizione degli obblighi informativi circa lo status delle perdite di esercizio, e la loro utilizzabilità residua negli Stati di residenza delle succursali controllate, tra Ufficio fiscale e società controllante, elemento che, però, non viene affrontato dalla pronuncia.

Altrettanto esemplare del giudizio di restrizione è la pronuncia della Corte Ue sul caso Lasteyrie du Saillant.17 La vicenda riguardava un contribuente francese che deteneva azioni in una società residente in Francia e che decideva di trasferirsi in Belgio; conseguentemente, questi era assoggettato alla normativa sulla exit tax francese, che prevedeva l’imposizione fiscale immediata, all’atto del trasferimento della residenza, delle plusvalenze da cessione di titoli detenuti dai contribuenti trasferiti, ancorché ancora non realizzate tramite effettiva cessione (si trattava quindi di c.d. “plusvalenze latenti”). La ratio della disciplina descritta era, in particolare, quella di evitare trasferimenti opportunistici e temporanei della residenza fiscale all’estero, al fine di realizzare le plusvalenze in un sistema fiscale diverso e più favorevole di quello francese, e così da poter successivamente ritrasferire la residenza fiscale in Francia, “alleggerita” delle plusvalenze predette (già monetizzate all’estero).

Sennonché, tale normativa, com’è evidente, comportava una frizione con la libertà di stabilimento all’interno dell’UE, assoggettando, di fatto, alla tassazione delle plusvalenze latenti qualsivoglia contribuente che decidesse di operare un trasferimento della residenza fiscale in altro Stato membro, secondo una logica priva di discrezionalità e un criterio di tipo automatico.

Se quindi in generale può essere ammissibile una disciplina tesa a conservare la potestà impositiva di uno Stato, il problema era comprendere se la modalità di esercizio di tale potestà poteva considerarsi proporzionata e quindi in concreto legittima ai sensi del diritto comunitario.

In proposito, lo Stato francese precisava come l’imposizione sulle plusvalenze latenti non avesse inderogabilmente carattere immediato, ben potendo il contribuente posporla, sino all’effettivo realizzo, a condizione però di concedere delle garanzie patrimoniali. Tale previsione, tuttavia, non parrebbe, osserva la Corte, idonea a evitare una violazione della libertà di stabilimento, atteso che anche la prestazione di garanzie ha un effetto restrittivo e si atteggia in senso dissuasivo all’esercizio della libertà di stabilimento.18

In tale quadro, proprio la finalità di ostacolare spostamenti temporanei e opportunistici di residenza induceva la Corte UE a dichiarare l’illegittimità della norma interna. In effetti, tale finalità, ancorché in sé legittima e congrua alla luce del diritto nazionale che assoggetta l’imposizione fiscale delle plusvalenze al momento di realizzo, non risulta avere alcun ruolo in una disciplina che prevede il collegamento automatico tra trasferimento e imposizione della plusvalenza, ovvero che consente un differimento dell’imposizione alla condizione inderogabile della prestazione di garanzie. Analogamente, nella disciplina sulla exit tax francese, il trasferimento costituiva il presupposto impositivo, a prescindere dalla sua natura temporanea o definitiva e l’obbligo di prestazione delle garanzie prescindeva da un effettivo rischio per la riscossione. In proposito, l’Avvocato generale in causa suggeriva la possibilità di immaginare misure meno lesive della libertà di stabilimento, quale l’assoggettamento a imposizione delle plusvalenze realizzate all’estero in conseguenza del rientro del contribuente nel sistema fiscale francese19. Così, anche in questo caso, la normativa di diritto interno veniva dichiarata illegittima non tanto per la sua contraddittorietà in sé con la libertà UE, quanto per la modalità di attuazione del bilanciamento, che non prendeva in considerazione misure altrettanto rispettose della finalità della norma fiscale interna, ma in proporzione meno incidenti sulla libertà euro-unitaria.


4. Il giudizio di non discriminazione

Di natura, per così dire, più tradizionale è invece il “giudizio di discriminazione”.

Come si è detto in precedenza, si tratta della valutazione compiuta dalla Corte di giustizia circa il carattere discriminatorio (quindi, contrario al principio di parità di trattamento) della normativa interna di uno Stato membro nei confronti del cittadino o residente di altro Stato membro. In tali fattispecie, in effetti, la Corte procede a valutare se la regola applicata al contribuente che risiede in altro Stato membro sia giustificata, con riferimento alla sua ratio, rispetto alla regola applicata ai propri residenti in casi analoghi.

Un esempio in tal senso è fornito dal noto caso Schumacker,20 che riguardava un cittadino belga residente in Belgio, il quale traeva la maggior parte del proprio reddito dal lavoro svolto in Germania. In tale contesto, il ricorrente si vedeva negata dallo Stato tedesco l’applicazione del regime di tassazione sui redditi da lavoro previsto in Germania per i redditi dei nuclei familiari (c.d. “splitting”), riservato alla categoria dei residenti in Germania. La Corte UE era quindi chiamata a valutare se tale diniego integrasse una violazione della libertà di stabilimento.

Il punto centrale del ragionamento del Giudice di Lussemburgo si incentra sulla finalità della riserva del regime di splitting ai residenti, per poi valutare se la ratio legis così rinvenuta per il tertium comparationis (la disciplina sui soggetti residenti) possa congruamente discriminare la fattispecie in esame (riguardante il signor Schumacker, non residente).

Orbene, la finalità della limitazione soggettiva al regime agevolativo dell’imposta sui redditi consisteva nel fatto che, di norma, il legame della residenza comporta anche quello della localizzazione della capacità contributiva. In altri termini, presumibilmente il lavoratore è residente nel luogo in cui produce la maggior parte dei suoi redditi, sì che il relativo sistema fiscale risulta il più idoneo a valutare la capacità contributiva del lavoratore e, quindi, a prendere in considerazione ai fini tributari anche la sua situazione familiare e personale.21

Tuttavia, tale regola generale non si verificava per il ricorrente, il quale, invece, produceva la maggior parte del proprio reddito nello Stato di non residenza: di qui la sussistenza della discriminazione, attraverso la “chiusura del triangolo” del ragionamento di ragionevolezza, in quanto la ratio stabilita per i cittadini residenti e oggetto della fattispecie di tertium comparationis trovava piena applicabilità anche alla fattispecie scriminata, cui quindi doveva essere estesa la regola prevista per i contribuenti residenti. La discriminazione veniva conseguentemente ritenuta anche non giustificata, in quanto le obiezioni sollevate dallo Stato tedesco, inerenti alla più difficile reperibilità delle informazioni personali rilevanti ai fini tributari per i soggetti non residenti, non appariva fondata, avuto riguardo alle procedure di collaborazione amministrativa vigenti tra Stati membri.22

Un secondo caso di importanza non marginale per l’analisi del “giudizio di discriminazione” è quello che riguarda la vertenza Saint Gobain ZN,23 riguardante una stabile organizzazione in Germania della società di diritto francese Saint Gobain SA.

In particolare, l’Ufficio tedesco aveva negato alla Saint Gobain tre agevolazioni fiscali relative ai dividendi e al possesso di partecipazioni in società estere che, in base alla normativa fiscale tedesca e alle Convenzioni contro le doppie imposizioni intercorrenti tra la Germania e determinati Paesi terzi, erano riservate alle società con obbligo fiscale illimitato in Germania.24

La società di diritto francese, tuttavia, percependo i redditi in Germania solo attraverso la sua stabile organizzazione non aveva in detto Stato un obbligo fiscale illimitato e, pertanto, non avrebbe potuto fruire delle predette agevolazioni.

Si trattava quindi di comparare la fattispecie della società non residente che detiene una stabile organizzazione in Germania con quella della società non residente che detiene una società controllata in Germania, per valutare se l’applicazione della disciplina di quest’ultima fattispecie (tertium comparationis) possa essere estesa anche alla fattispecie scriminata, avuto riguardo alla sua finalità; così rilevando la sussistenza o meno di una violazione della libertà di stabilimento da parte della normativa tedesca.

In proposito, lo Stato tedesco opponeva la non comparabilità delle due situazioni. Ciò, in base al fatto che le controllate residenti di società non residenti sono assoggettate a imposta in Germania in occasione della distribuzione degli utili alle proprie controllanti; diversamente, le stabili organizzazioni di società non residenti, non avendo personalità giuridica distinta dalle proprie società-madri, fungerebbero da filtro per l’attribuzione degli utili provenienti da sub-controllate estere alla società non residente, senza alcuna applicazione di imposta in Germania in occasione della distribuzione a questa dei dividendi.25

Tuttavia, la Corte di giustizia osservava che la finalità della normativa tedesca applicata alle società controllate residenti fosse quella di non far ricadere nell’obbligo fiscale di queste ultime il reddito (o il patrimonio) imputabile primariamente alle sub-controllate estere; e tale finalità prescinde da qualsivoglia “compensazione fiscale” che possa derivare dalla successiva distribuzione di utili verso le controllanti non residenti.

Pertanto, le medesime agevolazioni dovevano essere riconosciute alle stabili organizzazioni in Germania di società ivi non residenti, atteso che, con riguardo alla funzione dell’agevolazione, queste erano oggettivamente paragonabili alle controllate residenti.26

Né, osserva la Corte, sussiste alcuna causa di giustificazione della disparità di trattamento, atteso che la normativa tedesca sopravvenuta, ma non applicabile al caso di specie, aveva esteso le agevolazioni in discussione anche alle stabili organizzazioni di società non residenti.27

Così esaminata la valutazione comparativa in senso stretto sulla parità di trattamento, nelle sue due forme del “giudizio di restrizione” e del “giudizio di discriminazione”, l’analisi delle sentenze ha richiamato, con un elemento ricorrente di quell’analisi, l’ultimo elemento del test di sussistenza della valutazione del principio di non discriminazione in ambito UE, ossia l’esame circa possibili cause di giustificazione alla violazione delle libertà unionali (il punto sub d) della ripartizione sopra richiamata).

La giurisprudenza della Corte di giustizia sulle cause di giustificazione è, invero, di carattere ambivalente. In effetti, se in generale la Corte ha affermato la regola per la quale le deroghe alle libertà dell’Unione, costituendo eccezioni al mercato unico, devono essere interpretate restrittivamente,28 con riferimento alla materia tributaria non è infrequente assistere a un’estensione dell’ambito applicativo della categoria delle cause di giustificazione attraverso l’enucleazione di cause specifiche, aggiuntive a quelle di fonte testuale, in via pretoria.

Tale meccanismo di configurazione giurisprudenziale di limiti alle libertà unionali sarebbe frutto anch’esso del ragionamento di ragionevolezza, secondo la formula originaria dei sistemi di common law del rule of law, applicato stavolta non alla singola fattispecie concreta, attraverso l’ausilio del tertium comparationis e del principio di proporzionalità, bensì al sistema fiscale complessivo europeo e alle matrici valoriali che lo sorreggono e giustificano.

In altri termini, il rule of law richiede di garantire sempre una certa uniformità e un equilibrio tra le potestà impositive degli Stati membri, con la conseguenza che l’attivazione delle libertà UE non potrebbe mai agire in senso espropriativo delle prerogative tributarie dei singoli Stati. Come si vede, quindi, l’enucleazione delle cause di giustificazione in via pretoria costituirebbe, secondo questa impostazione, un procedimento nella sostanza dipendente dal grado di integrazione politica dell’Unione europea anche sotto il profilo fiscale.29 Ciò varrebbe a evidenziare la preminenza e, in definitiva, la irrinunciabilità della componente positiva, ossia legislativamente determinata, e quindi politicamente condivisa, dell’integrazione europea, rispetto al settore giurisprudenziale (l’integrazione negativa che stiamo analizzando), ai fini di pervenire a un vero ed effettivo sistema fiscale integrato europeo.

Qualche esempio potrebbe configurare in termini più concreti quanto finora illustrato.

Con la sentenza National Grid Indus,30 la Corte UE era interrogata circa la conformità alla libertà di stabilimento della normativa sulla exit tax olandese, contenuta nella Convenzione contro le doppie imposizioni tra Regno Unito e Paesi Bassi, che assoggettava a tassazione le plusvalenze latenti realizzate in potenza, ma non “monetizzate” attraverso la cessione dei titoli cui esse afferiscono, da una società che decideva di trasferire la sede legale dall’Olanda al Regno Unito.

La particolarità di tale fattispecie, che la contraddistingue anche rispetto al caso apparentemente analogo della sentenza Lasteyrie du Saillant, consisteva nel fatto che la plusvalenza era integrata in parte anche dalla variazione del valore di cambio tra fiorino olandese e sterlina, poiché i titoli produttivi delle plusvalenze erano detenuti dalla società olandese nella valuta inglese.

Conseguentemente, lo spostamento della sede della società National Grid Indus in Inghilterra avrebbe comportato anche l’azzeramento della parte di plusvalenza collegata alla variazione di cambio, divenendo irrilevante nel Regno Unito la differenza speculativa tra le due valute. L’ordinamento britannico, tuttavia, non prendeva in considerazione ai fini fiscali la minusvalenza derivante dal predetto azzeramento.

Così la società National Grid Indus si sarebbe trovata a dover pagare l’imposta sulle plusvalenze in Olanda, senza poter fruire di deduzione alcuna successivamente nel Regno Unito per la parte di plusvalenza che, per effetto del trasferimento di sede, si sarebbe automaticamente, per così dire, “evaporata”. Tale asimmetria, che rendeva in sostanza non neutra dal punto di vista fiscale la scelta di operare un trasferimento di sede, veniva quindi additata quale disciplina irragionevolmente restrittiva dell’esercizio della libertà di stabilimento.

La Corte UE, come abbiamo visto, una volta riconosciuta la restrizione alla libertà di stabilimento, procedeva a indagare sulla conformità al principio di proporzionalità del suo atteggiarsi in concreto, che prevedeva la riscossione immediata della plusvalenza senza forme di dilazione o posticipazione del relativo pagamento, concludendo per l’illegittimità del meccanismo specificamente previsto nella Convenzione contro le doppie imposizioni.

L’aspetto però, forse, più significativo della pronuncia si pone in posizione preliminare all’esame di proporzionalità della misura fiscale operato dal giudice di Lussemburgo. Si tratta, in effetti, della parte della sentenza in cui viene effettuato il giudizio di bilanciamento, che sancisce l’esito della preminenza delle ragioni fiscali interne sull’art. 49 TFUE. Orbene, tale analisi si incentra proprio sulla causa di giustificazione costituita dal principio di equa ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati membri; in proposito, la National Grid Indus affermava come tale principio venisse configurato in senso eccessivamente rigoroso e non rispondente al carattere di equità che la ripartizione della potestà impositiva dovrebbe recare (e alla quale tale principio è del resto funzionale). Ciò, in quanto, come anticipato, la plusvalenza oggetto di immediata imposizione in Olanda ricomprendeva anche il margine di rivalutazione in fiorini olandesi del cambio intervenuto con la sterlina, valuta in cui il valore dei titoli (e quindi delle relative plusvalenze) era espresso; tuttavia, tale maggior valore, una volta operato il trasferimento nel Regno Unito, si sarebbe azzerato, per il fatto stesso di accedere a un ordinamento in valuta inglese. Con il risultato di conseguire una minusvalenza di cui lo Stato di destinazione (il Regno Unito) non avrebbe tenuto conto alcuno.

Tuttavia, la Corte di giustizia ritiene non rilevante tale disparità fiscale, sul presupposto che la libertà di stabilimento non avrebbe la funzione di rendere fiscalmente neutrale l’operazione di trasferimento della sede societaria, ma soltanto quella di evitare che le discipline nazionali agiscano in senso preordinatamente restrittivo al suo esercizio;31 in altri termini, la disparità fiscale in esame era il risultato naturale della diversità valutaria tra lo Stato di provenienza e quello ospitante, ma non l’obiettivo specifico della disciplina fiscale olandese. Di qui la pronuncia di illegittimità della Corte Ue, che si è concentrata esclusivamente sul carattere sproporzionato della riscossione immediata della plusvalenza latente, e non sull’ipotetica illegittimità dell’obliterazione della minusvalenza intrinseca ai valori oggetto di imposizione.

La pronuncia appena illustrata mostra quindi il peso specifico della causa di giustificazione della equa ripartizione della potestà impositiva, che si estende fino alla considerazione, in qualche modo, unilaterale delle plusvalenze realizzate, ma non ancora conseguite, sul territorio dello Stato di provenienza, in via unilaterale, ossia svincolata dalla parallela considerazione delle modalità impositive esercitate nello Stato di destinazione. Soprattutto, viene disvelato il ruolo fondamentale che le cause di giustificazione svolgono nell’ambito del “giudizio di restrizione”: si tratta, in effetti, di un vero e proprio contraltare del giudizio di bilanciamento, piuttosto che di una causa di giustificazione (o derogatoria in senso proprio).

In senso analogo, la deferenza alle prerogative legislative nazionali, e la speculare assenza di disciplina armonizzata a livello europeo, hanno consentito di limitare la portata della libertà di stabilimento nel “giudizio di restrizione” valutato dalla Corte di giustizia nel caso Daily Mail,32 in cui una società di diritto britannico si vedeva negare l’autorizzazione del Ministero del Tesoro a trasferire la sede operativa (e quindi, secondo la legislazione inglese, la residenza fiscale) nei Paesi Bassi, al fine di realizzare in questo Stato le plusvalenze derivanti dalla vendita di alcuni titoli e assoggettarle così a una imposizione più lieve. In effetti, tale divieto non risultava, a giudizio della Corte UE, comportare alcuna illegittima violazione dell’art. 52 CEE (oggi dell’art. 49 TFUE), in ragione della sostanziale autonomia delle legislazioni nazionali nel disciplinare la costituzione e le vicende soggettive delle società.33 In tal caso, più che di una causa di giustificazione, si può intravedere nella riserva di disciplina sulle società in capo agli Stati nazionali un vero e proprio elemento di risoluzione del conflitto del bilanciamento, che non richiede la contemporanea analisi dell’eventuale sproporzionalità della misura nazionale.34

Diversamente, nell’ambito del “giudizio di discriminazione” le cause di giustificazione costituiscono delle vere e proprie deroghe che rendono, nel caso di specie cui afferiscono, non illegittima la violazione della parità di trattamento, pure riconosciuta con riferimento a una libertà unionale.

Un esempio in tal senso è rinvenibile nella procedura di infrazione, di cui alla sentenza Avoir Fiscal,35 relativa alla normativa interna francese che non riconosceva l’applicazione del sistema del credito di imposta contro le doppie imposizioni dei dividendi societari alle succursali e agenzie costituite in Francia da società residenti all’estero. In questo caso, com’è usuale nel giudizio di discriminazione, la linea di demarcazione concettuale che consente di accertare la sussistenza di una violazione della libertà di stabilimento passava per il binomio soggettivo composto dalle società residenti e non residenti. Sicché, la Corte riscontrava che la finalità propria della normativa sul credito di imposta concesso ai destinatari dei dividendi corrispondente alla quota dell’imposta sulle società già scontata dagli utili poi confluiti nei dividendi distribuiti fosse estensibile anche alle succursali ed agenzie delle società di assicurazione non residenti.

Solo a quel punto, il ragionamento si sposta sulla sussistenza di una causa di giustificazione della violazione, la quale veniva ricercata, alternativamente, nel rinvenimento di eventuali vantaggi fiscali di tipo diverso previsti per le agenzie e succursali, che compenserebbero la disparità di trattamento in punto di crediti di imposta; ovvero nella particolare autonomia di cui godono le disposizioni in tema di società in ogni Stato membro e che, pertanto, investirebbero anche le relative disposizioni tributarie; o, ancora, nella possibilità che la parità di trattamento possa favorire pratiche di evasione fiscale, rendendo attrattive le operazioni di trasferimento delle partecipazioni detenute da società estere in società francesi alle succursali o agenzie delle prime, costituite ad hoc per tale genere di operazione.

Come si vede, le cause di giustificazione vengono in tal caso configurate non quali aspetti di prevalenza assiologica generale e astratta di esigenze imperative intrinseche allo Stato membro, o comunque discendenti dall’applicazione di un criterio di ragionevolezza ai principi del mercato unico; bensì come singole fattispecie, circostanze concrete che, nel caso specifico, possono rendere la violazione, che pure sussiste, in qualche modo giustificata.

Il “giudizio di discriminazione” quindi non tende a enucleare una regola generale, alla cui definizione potrebbero concorrere le cause di giustificazione, circa il bilanciamento tra poli valoriali opposti, ma a trovare la soluzione del caso specifico, in cui la particolare ricorrenza di certi elementi giustificativi potrebbe, in circostanze singole, rifluire sull’eventuale carattere di illegittimità della misura sospettata di violazione della libertà dell’Unione europea.

Dall’analisi finora condotta possiamo quindi trarre come anche con riferimento a principi nominalmente analoghi e rinvenibili in ambito nazionale, pensiamo ad esempio al principio di uguaglianza, il medesimo meccanismo valutativo giurisprudenziale “per ragionevolezza” cui fanno ricorso le Corti interne subisca invece declinazioni sensibilmente differenti in ambito europeo.

Mentre nei sistemi interni l’uguaglianza è sinonimo di equità, presupponendo l’idea di sostanziale di giustizia distributiva, a livello unionale, invece, l’uguaglianza è indicativa, essenzialmente, dei principi di parità di trattamento e di divieto di discriminazione formale tra contribuenti in ragione dell’accesso o della provenienza dal mercato europeo.36 Si tratta, a ben vedere, di un fattore dovuto alla mancanza nel sistema euro-unitario di un “dato” sociale (o solidale) dei diritti del contribuente, qual è nel contesto nazionale il principio di capacità contributiva e quello correlato/corollario della progressività.


5. Considerazioni conclusive

L’analisi ha inteso mettere in luce, da un lato, il carattere dinamico e progressivo dell’integrazione fiscale negativa, sollecitata in via giurisprudenziale all’interno del sistema europeo di tutela dei diritti fondamentali; ma, dall’altro, i suoi limiti strutturali, dovuti essenzialmente alla natura ricognitiva e incompleta delle libertà e dei principi enucleati dalla Corte di giustizia, che impedisce al tessuto normativo fiscale europeo di assorbire sia valori e regole innovative e inedite, sia principi propri di alcuni Stati membri, estranei ad altri sistemi giuridici, o comunque non inscritti nei documenti normativi extrastatali.

Tali anomalie dell’integrazione negativa concernono, in particolare, i principi fiscali di solidarietà e funzionalizzazione del gettito secondo logiche distributive, che però non trovano (si è visto, non possono trovare) riflesso nelle pronunce giurisdizionali, perché prive (perché privati, in forza dell’assenza di legislazione unionale) della necessaria base giuridica per stabilire moduli impositivi e garanzie attive della fiscalità europea, ancora appannaggio Stati.

L’integrazione fiscale europea resta ancora, pertanto, in attesa del formarsi di una posizione condivisa (da travasare nei Trattati) tra gli Stati membri circa la necessità di un effettivo potere impositivo unionale, giuridicamente e culturalmente ispirato al patrimonio tributario comune, di cui, peraltro, sono già avvertibili taluni segni grazie all’azione armonizzatrice della giurisprudenza di Lussemburgo.

1 Sul punto, si v. A. Fantozzi, Armonizzazione fiscale tra modelli comunitari e autonomia normativa degli Stati, in Atti del convegno di studio “Le ragioni del diritto tributario in Europa”, Bologna, 26-27 settembre 2003.

2 Sul punto, v. P. Pistone, Diritto tributario europeo, I Ed., Torino, 2018, pp. 54 e ss.

3 Trustees of the P Panayi, C-646/15, 14 settembre 2017, in Raccolta digitale, ECLI:EU:C:2017:682, in cui un trust di diritto britannico era considerato, ai sensi della legge inglese, “come un unico e permanente organismo di persone” e la relativa residenza fiscale era individuata sulla base della residenza della maggioranza dei trustee. In ragione di tali premesse, la Corte UE rilevava, nella sentenza de qua, la violazione del diritto di stabilimento da parte dell’assetto normativo di diritto inglese che assoggettava le plusvalenze relative alle attività detenute dal trust in occasione del trasferimento di residenza dei suoi trustee, senza consentire alcun differimento dell’imposta al momento di realizzazione di tali plusvalenze.

4 In ambito fiscale, particolare interesse suscitano i territori “non autonomi” ai sensi del diritto internazionale (art. 73 della Carta delle Nazioni Unite), individuati ai sensi del diritto UE come territori europei di cui uno Stato membro assume la rappresentanza verso l’esterno. In tali casi, pur riconoscendo che a detti territori si applicano in linea generale le libertà inscritte nei trattati, la Corte ha tuttavia affermato che la discriminazione, o l’illegittima restrizione, di queste libertà non rileverebbe con riferimento ai rapporti tra questi territori e gli Stati UE che ne assumono la rappresentanza con l’estero.

5 Così, P. Pistone, Diritto tributario europeo, cit., p. 159, in cui si osserva come tale conclusione parrebbe discendere dalla nuova dimensione non economica dei diritti dell’Unione, conferita, ad esempio, dall’art. 21 TFUE, per il quale “ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi”.

6 Per una disamina della giurisprudenza euro-unitaria in materia, v. M. Benedettelli, Il giudizio di eguaglianza nell’ordinamento giuridico delle Comunità europee, Padova, 1989, pp. 226 e ss.

7 Cfr., sul punto, P. Pistone, Diritto tributario europeo, I Ed., Torino, 2018, pp. 162-163. In quest’ottica, un’analisi della giurisprudenza sull’integrazione negativa operata dalla Corte UE sulla base dei giudizi di “comparabilità” e di “discriminazione” è svolta in C. Garbarino, Unione europea: libertà fondamentali e trasferimento delle basi imponibili nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Riv. dir. trib. int., 2017, pp. 113 e ss.

8 Sul punto, v. M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e di proporzionalità nella giurisprudenza italiana, Relazione predisposta per la Conferenza trilaterale della Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, Palazzo della Consulta 24-26 ottobre 2013, disponibile online nel sito telematico della Corte costituzionale italiana.

9 Imfeld and Garcet, C-303/12, 12 dicembre 2013, in Raccolta digitale, ECLI:EU:C:2013:822.

10 Cfr. il § 62 della pronuncia, in cui la Corte afferma che “la normativa fiscale di cui trattasi nel procedimento principale prevede un’agevolazione fiscale a favore delle coppie sotto forma, in particolare, di un supplemento di quota di reddito esente da imposta per figlio a carico, che è imputata ai redditi del membro della coppia che percepisce la parte più elevata di reddito, senza tener conto in alcun modo della circostanza che costui, per il fatto di avvalersi delle libertà garantite dal Trattato, può non percepire redditi in Belgio a titolo individuale, con la conseguenza immediata e automatica che la coppia perde così tutto il beneficio di detta agevolazione. È l’automaticità di detta perdita che, a prescindere dal trattamento fiscale riservato al sig. Imfeld in Germania, lede la libertà di stabilimento”.

11 § 65.

12 § 77.

13 § 78.

14 Marks & Spencer plc, C-446/03, 13 dicembre 2005, in Raccolta 2005 I-10837, ECLI:EU:C:2005:763, la cui pendenza aveva generato un ampio dibattito dottrinale, su cui si v. D. Gutmann, The Marks and Spencer case: proposal for an alternative way of reasoning, in EC Tax Rev., 2003, 154; P. Pistone, Treatment of foreign losses: an urgent issue for the European Court of Justice, in EC Tax Rev., 2003, 149; G. Meussen, The Marks and Spencer case: reaching the boundaries of the EC Treaty, in EC Tax Rev., 2003, 144; G. Bizioli – M. Grandinetti, Imposizione dei gruppi di società e riporto delle perdite: la legittimità della legislazione inglese con la libertà di stabilimento, in Dir.prat. trib.int., 2003, II, 980; I. Doerr, A Step Forward in the Field of European Corporate taxation and Cross-border Loss Rilief: Some Comments on the Marks and Spenser Case, in Intertax, 2004, 180.

15 § 43 - 51 della sentenza Marks & Spencer, in cui si specifica come, in prima battuta, “si deve rilevare che una normativa restrittiva come quella in esame nella causa principale, da un lato, persegue obiettivi legittimi compatibili con il Trattato e rientranti tra i motivi imperativi di interesse generale e, dall'altro, è idonea a garantire la realizzazione dei detti obiettivi”. Si richiama alla decisione de qua , ribadendone la ratio decidendi, anche la sentenza Bevola, C-650/16, 12 giugno 2018, ECLI:EU:C:2018:424, in cui si afferma l’incompatibilità con il principio della libertà di stabilimento della normativa interna (nella specie, danese) che esclude la deducibilità delle perdite di stabili organizzazione estere (non tassate nello Stato di residenza della capogruppo) in capo alla controllante residente, anche laddove si tratti di “perdite finali”, ossia non più recuperabili per cessata attività della stabile organizzazione: cfr., sul punto, A. Crazzolara, Lo stato della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul regime tributario delle “perdite finali” delle stabili organizzazioni estere: da Marks & Spencer a Bevola (nota a Corte di Giustizia, C-650/16 del 2019), in Riv. dir. trib., 4/2019, V, pp. 68 e ss.

16 Cfr. il § 59, in cui si riconosce come sia contrario a diritto di stabilimento escludere la deduzione della perdita dagli utili della controllante residente “in una situazione in cui, da un lato, la controllata non residente ha esaurito le possibilità di presa in considerazione delle perdite esistenti nel suo Stato di residenza per l'esercizio fiscale considerato nella domanda di sgravio, nonché degli esercizi fiscali precedenti ed in cui, dall'altro, tali perdite non possano essere prese in considerazione nel suo Stato di residenza per gli esercizi fiscali futuri né da essa stessa, né da un terzo, in particolare in caso di cessione della controllata a quest'ultimo”.

17 Lasteyrie du Saillant, C-9/02, 11 marzo 2004, in Raccolta 2004 I-02409, ECLI:EU:C:2004:138.

18 § 47. In ragione del suddetto effetto dissuasivo, la tassazione del tipo esposto nel caso Lasteyrie du Saillant prende il nome di “exit tax”, trovando condizione di applicabilità proprio nell’uscita del soggetto passivo dallo Stato di residenza fiscale. Si tratta, a livello sistematico, dell’applicazione del principio generale di imponibilità dei beni estromessi dal regime giuridico del reddito di impresa, come evidenziato in G. Falsitta, La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi, Padova, 1986, 59-61. Per la dottrina successiva, senza pretesa di completezza, M. Miccinesi, Le plusvalenze d’impresa, Milano, 1993, 160-163; A. Fantozzi – R. Lupi, La società per azioni nella disciplina tributaria, in G.E. Colombo – G.B. Portale (diretto da), Trattato delle società per azioni, vol. IX, tomo 2, Torino, 1993, 35; D. Stevanato, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, pp. 182-183.

In senso opposto, è possibile trovare la categoria delle “trailing tax”, le quali si applicano invece senza la condizionalità dell’uscita del contribuente dallo Stato UE, ma anche a prescindere da tale movimento: siamo infatti in presenza di imposizioni fiscali che “seguono” il contribuente ovunque si trasferisca, sino al momento di realizzazione del presupposto impositivo. La Corte UE non si è espressa spesso sulle fattispecie di trailing tax, ma possiamo ricordare, in proposito, la sentenza Eredi di M. E. A. van Hilten-van der Heijden (C-513/03, 23 febbraio 2006, in Raccolta 2006 I-01957, ECLI:EU:C:2006:131), in cui era considerata legittima alla libertà di movimento dei capitali la normativa olandese, introdotta per mezzo della Convenzione contro la doppia imposizione tra Svizzera e Paesi Bassi, per la quale era esigibile nei Paesi Bassi l’imposta di successione sui beni del cittadino olandese che si fosse trasferito all’estero da meno di dieci anni dal decesso, seppur decurtando dall’imposta quando già pagato negli Stati di destinazione a titolo successorio. La Corte di giustizia ha, in effetti, ritenuto che una disciplina siffatta non producesse alcun effetto dissuasivo rispetto alla possibilità di effettuare investimenti dal Paese di destinazione a qualsivoglia Stato membro, ovvero dai Paesi Bassi a un altro Stato membro, né sarebbe applicabile ai cittadini di altri Stati membri. Essa risponderebbe quindi alle logiche di concordata distribuzione della potestà impositiva tra Stati dell’Unione europea, derivando appunto da una Convenzione contro la doppia imposizione.

19 § 54.

20 Schumacker, C-279/93, 14 febbraio 1995, in Raccolta 1995 I-00225, ECLI:EU:C:1995:31, commentata da B. Accili, L'art. 48 del trattato di Roma e la fiscalità diretta: il caso Schumacker, in Riv. dir. trib., 1995, I, 939; P. Pistone, La non discriminazione anche nel settore dell’imposizione diretta: intervento della Corte di giustizia, in Dir. prat. trib., 1995, II, 1471; F. Amatucci, Divieto di discriminazione fiscale dei lavoratori subordinati nell’ambito dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., 1996, II, 227; J. Avery Jones, European Union: carry on discriminating, in Eur. Tax., 1996, 46.

21 Cfr. il § 33, per il quale “la situazione del residente è diversa, in quanto nello Stato di residenza è di regola concentrata la parte essenziale dei suoi redditi. Peraltro, questo Stato dispone in genere di tutte le informazioni necessarie per valutare la capacità contributiva globale del contribuente, tenuto conto della sua situazione personale e familiare”.

22 §45. Nel prosieguo della sentenza, le medesime conclusioni raggiunte in merito alla normativa sostanziale vengono estese anche al piano procedurale, non riconoscendo il sistema fiscale tedesco un sistema automatico di conguaglio delle ritenute alla fonte nel procedimento di liquidazione delle imposte sui redditi ai soli soggetti non residenti.

23 Saint Gobain, C-307/97, 21 settembre 1999, in Raccolta 1999 I-06161, ECLI:EU:C:1999:438; su cui, si v. C. Romano – R. Offermans Treaty benefits for permanent establishment: the Saint Gobain case, in Eur. Tax., 2000, 180; G. Bizioli, Potestà tributaria statuale, competenza tributaria della Comunità Europea e... competenza della Corte di giustizia: il caso Saint Gobain, in Riv. dir. trib., 2/2000, 192; P. Pistone, Precludere l'applicazione delle convenzioni bilaterali alle stabili organizzazioni di imprese residenti in un altro paese comunitario può essere incompatibile con la libertà di stabilimento, in Riv. dir. trib. int., 2000, 167.

24 Le tre agevolazioni negate alla società Saint Gobain erano il privilegio di partecipazione internazionale, consistente nell’esenzione da tassazione dei dividendi già tassati e distribuiti dalla società estera emittente; il privilegio di partecipazione internazionale riferito all’imposta sui patrimoni, individuato dall’esenzione delle partecipazioni detenute in società estere ai fini della quantificazione dell’imposta sul patrimonio; e l’imputazione diretta alla stabile organizzazione destinataria dei dividendi da società estere dell’imposta già pagata all’estero sugli utili riferiti all’esercizio di distribuzione dei dividendi.

25 § 53.

26 In tal modo, il principio di parità di trattamento è stato esteso anche alle norme tributarie di fonte convenzionale. Sul punto, M. Udina, Il diritto internazionale tributario, Padova, 1949, pp. 17 e ss.; M. Chrétien, à la recherche du droit international fiscal commun, Paris, 1955, pp. 1 e ss.; G.C. Croxatto, Le norme di diritto internazionale tributario, in Aa.Vv., Studi in onore di Enrico Allorio, Milano, 1989, pp. 2221 e ss.; A. Fantozzi - K. Vogel, Doppia imposizione internazionale, in Dig. Comm., vol. V, Torino, 1990, p. 181. In tema, si può ricordare come per P.J. Wattel, Corporate tax jurisdiction in the EU with respect to the branches and subsidiaries; dislocation distinguished from discrimination and disparity; a plea for territorialità, in EC Tax Rew., 2003, p. 194 (spec. 197), “the freedom of establishment therefore is a complex freedom: it contains two non-discriminations/non-restriction rules, and branches and subsidiaries come under both: neither the crossing of the border, nor the choice of the legal form in which the border is crossed, ma be restricted without mandatory reason of public interest”.

27 Cfr. il § 61, in cui la Corte UE osserva che “il legislatore tedesco non ha ritenuto che le disposizioni delle convenzioni sulla doppia imposizione stipulate con paesi terzi impedissero una rinuncia unilaterale della Repubblica federale di Germania a riscuotere un'imposta sui dividendi da partecipazioni in società straniere poiché, adottando lo Standortsicherungsgesetz del 13 settembre 1993, esso ha unilateralmente esteso ai centri di attività stabili di società non residenti le agevolazioni fiscali in materia di imposta sulle società, ponendo così termine alla differenza di trattamento fiscale tra le predette società e le società aventi la sede o la direzione commerciale in Germania”.

28 Cfr. M. Lehner, Limitation of national power of taxation by the fundamental freedoms, in EC Tax Rev., 2000, 5.

29 Sul tema, si v. B. Knobbe-Keuk, Restrictions on fundamental freedoms enshrined in EC Treaty by discriminatory tax provisions, in Intertax, 1994, 74.

30 National Grid Indus, C-371/10, 29 novembre 2011, in Raccolta 2011 I-12273, ECLI:EU:C:2011:785.

31 Cfr., sul punto, il § 62 della sentenza, per il quale “si deve rammentare che il Trattato non garantisce ad una società rientrante nella disciplina dell’art. 54 TFUE che il trasferimento in un altro Stato membro della propria sede amministrativa effettiva sia neutro sotto il profilo fiscale. Tenuto conto delle differenze tra le legislazioni degli Stati membri in tale materia, un simile trasferimento può, secondo i casi, essere più o meno favorevole o sfavorevole per una società sul piano fiscale (v., in tal senso, sentenze 15 luglio 2004, causa C‑365/02, Lindfors, Racc. pag. I‑7183, punto 34; 12 luglio 2005, causa C‑403/03, Schempp, Racc. pag. I‑6421, punto 45, nonché 20 maggio 2008, causa C‑194/06, Orange European Smallcap Fund, Racc. pag. I‑3747, punto 37). Infatti, la libertà di stabilimento non può essere intesa nel senso che uno Stato membro sia obbligato a determinare le proprie norme tributarie in funzione di quelle di un altro Stato membro, al fine di garantire, in ogni situazione, una tassazione che elimini qualsivoglia disparità derivante dalle normative tributarie nazionali”.

32 Daily Mail, C-81/87, 27 settembre 1988, in Raccolta 1988 -05483, ECLI:EU:C:1988:456.

33 Secondo le già ricordate teorie della sede, ovvero dell’incorporazione. Su queste basi, la Corte UE, al § 24, ha affermato che “dall'interpretazione degli artt. 52 e 58 del trattato non può evincersi l'attribuzione alle società di diritto nazionale di un diritto a trasferire la direzione e l'amministrazione centrale in altro Stato membro pur conservando la qualità di società dello Stato membro secondo la cui legislazione sono state costituite”.

34 In effetti, al Corte UE afferma che la disciplina sulle società, rebus sic stantibus, non è interessata dalla (e quindi neanche collide con la) libertà di stabilimento, sicché il bilanciamento non deve aver luogo, risolvendosi già sul piano applicativo a favore della misura di diritto interno.

35 Commissione c. Francia, C-270/83, 28 gennaio 1986, in Raccolta 1986 -00273, ECLI:EU:C:1986:37.

36 Per una rilevanza autonoma, anche a prescindere da un rapporto strumentale con le libertà europee, del principio di eguaglianza nel contesto UE, si v. G. Tesauro, Eguaglianza e legalità nel diritto comunitario, in Dir. Un. Eur., 1999; P. Costanzo - L. Mezzetti - A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, VI Ed., Torino, 2022, pp. 482 e ss.