Scritto da Giuseppe Vitaletti • set 2020
La storia della finanza pubblica in Italia è piuttosto complessa. In primo luogo c’è l’esistenza di una teoria specifica, il beneficio collettivo, che è unica al mondo. In secondo luogo questa teoria era molto conosciuta a livello internazionale. In terzo luogo la teoria, secondo la quale la base imponibile è strutturalmente interna ad una nazione, è molto interessante ora che i redditi di una nazione sono tassati anche al di fuori dei suoi confini. Fiscalità nazionale, invece, significa assenza di progressività formale. Tuttavia la progressività può essere ricercata attraverso aliquote differenziate su diverse tipologie di reddito, e attraverso la progressività formale dei contribute sociali, che costituiscono un’importante fonte nazionale in tutti i paesi. Le basi nazionali possono essere affiancate da una base effettivamente internazionale, cioè sugli interessi e sugli extraprofitti. Il discorso sulla storia della finanza pubblica diventa così più avvincente. Oltre a questa Scuola, in Italia c’erano le Scuole Cosciani e Forte, che hanno approfondito l'attività finanziaria, in quest'ultimo caso anche su standard internazionali. Poi viene la Scuola vera e propria, che non è affatto originale, non essendo diversa dal resto del mondo. Si sostiene che una tale Scuola non è nemmeno una Scuola, poiché dipende dall'Economia, che è diventata del tutto insignificante. Si basa infatti sulla teoria neoclassica dei rendimenti decrescenti, che non è rappresentativa, e ha abbandonato le teorie keynesiane, quando la necessità di queste ultime è drammaticamente evidente. PAROLE CHIAVE: la scuola collettiva; la base nazionale; la base internazionale; la fiscalità indiretta; le scuole reali
The history of public finance in Italy is rather complex. In the first place there is the existence of a specific theory, the collective benefit, which is unique in the world. In the second place this theory was internationally very well known. In the third place the theory, in which the imposable basis is structurally internal to a nation, is very interesting now, when the incomes of a nation are also taxed outside its borders. National taxation, however, means the absence of formal progressivity. Nevertheless progressivity may be searched for through different rates on different kinds of income, and by the formal progressivity of social contributions, which are an important national source in all countries. The national bases may be coupled with an effectively international basis, i.e., on interests and on extra-profits. The discussion of the history of public finance thus becomes more compelling. In addition to this School, in Italy there were the Cosciani and Forte Schools, which discussed financial activity in depth, in the latter case also on international standards. Then comes the actual School, which is in no way original, being no different from the rest of world. It is argued that such a School is not even a School, since it depends on Economics, which has become totally insignificant. It is based in fact on the neoclassical theory of decreasing returns, which is not representative, and has abandoned Keynesian theories, when the need for the latter is dramatically evident. . KEYWORDS: the collective benefit school; the national base; the international basis; indirect taxation; actual Schools. .
1.
Assai appropriatamente, Ilde Rizzo ha deciso di riempire la casella di Storia della Scienza delle finanze in Italia. Essa compariva nel sito della Siep, ma era rimasta vuota, salvo l’indicazione di alcuni nomi, indicati alla fine di questo lavoro. È stato dato un incarico formale, dal Consiglio Direttivo Siep, a Diego Piacentino, perché proceda in questo intricato compito.
Ho curato, assieme a Gorini e Longobardi, il volume Economia, politica e cultura nell’Italia del XX Secolo. Attualità del pensiero critico di Sergio Steve, 2018. Ho partecipato alla commemorazione di Cosciani, autore del volume Istituzioni di Scienza delle finanze, 1970. Ho seguito sia l’evoluzione teorica che l’esperienza pratica di Francesco Forte, condensata la prima nel volume Manuale di Scienza delle finanze, 2007.
Ho appena svolto un incontro di presentazione del volume su Steve (Roma “Sapienza”, 16 Ottobre 2019), in cui Silvia Fedeli ha accennato a tre scuole della Scienza delle finanze italiana. Ho svolto il mio intervento al Convegno su questo tema, prendendo De Viti, Cosciani e Forte come i tre capostipiti. Trascrivo qui quanto ho detto, ampliandolo di molto. Chiamerò la prima come la Scuola italiana di Scienza delle finanze, trattata nel paragrafo 2; denominerò la seconda come la Scuola intermedia, trattata nel paragrafo 3; la terza come Scuola essenzialmente americana, trattata nel paragrafo 4. Alcuni cenni fortemente critici alla Scienza delle finanze attuale sono contenuti nel paragrafo 5.
2.
Nel suddetto convegno del 16-10-2019, Longobardi ha illustrato il profilo biografico di Steve; Pedone ne ha messo in rilievo la sua caratteristica essenziale, in sintesi: “Attenzione ai fatti ed evitare complicazioni inutili” (frase in grassetto a p. 503 del volume su Steve, con successiva citazione, da parte di Gorini, il moderatore del convegno, del passo del volume in cui Pedone fa un’affermazione simile); Marè ha parlato della “scuola” di Steve, e del suo carattere difficile, ma formante; io ho detto in sintesi quanto vado ad esporre.
La scuola Italiana di Scienza di Scienza delle finanze parte nella prima metà del secolo scorso da De Viti de Marco (1933); prosegue con Einaudi (1940); nella seconda metà del secolo, il principale esponente si può considerare Steve (1976a). È una prima caratteristica essenziale di questa Scuola una fortissima interazione con i fatti, provata dagli elevati incarichi istituzionali ricoperti da quasi tutti gli autori; ed un minimo di complicazioni formali, anche quando queste erano possibili (mi riferisco agli scienziati delle finanze della seconda metà del secolo).
La seconda caratteristica essenziale è, sul terreno specificamente tributario, nell’aver fatto riferimento all’impostazione reale del prelievo diretto, che allora esisteva in Italia (è esistita fino al 1973), ma soprattutto nell’averla strenuamente difesa (come testimoniano, in maniera evidente, le dimissioni di Steve da tutti gli incarichi di predisposizione della riforma tributaria, accompagnandole con critiche particolari e generali).
La configurazione specifica delle imposte dirette, in maniera cosiddetta reale, era che il fisco colpiva i redditi prima della loro distribuzione: cioè interessi, profitti, redditi professionali e salari erano colpiti prima della loro attribuzione ai titolari. Una prima conseguenza di ciò è che le basi imponibili erano nazionali: si colpivano cioè le varie componenti del Pil al netto degli ammortamenti, a livello aggregato, con differenti aliquote. Una seconda conseguenza è la facilità di individuare nel principio del beneficio, inteso in maniera collettiva e non individuale, il fondamento del sistema tributario. Le imposte venivano cioè correlate alle spese che finanziavano, e ciò era facile in quanto si colpivano le masse dei redditi. Una terza conseguenza, anch’essa correlata al fatto che i redditi venivano considerati dal lato della produzione, in maniera disgiunta (e non quando percepiti, e riaggregati sulla persona), è che, sul piano dell’evasione, non c’era in pratica alcuna lotta. L’evasione era infatti assente per definizione, venendo la maggior parte delle imprese e dei lavoratori autonomi contattata individualmente dall’amministrazione fiscale, che proponeva un concordato sulle imposte da pagare. C’erano sì dei dibattiti sulla congruità di quanto richiesto, ma l’evasione come tale (cioè come comportamento continuativo del contribuente) era esclusa alla radice. Sul fronte delle imposte indirette, dominava l’imposta generale sull’entrata, che colpiva in tendenza tutto il fatturato, e non i soli consumi. L’estensione della base imponibile contribuiva a tenere basse le aliquote, e ciò in qualche modo conteneva l’evasione, comunque molto alta.
Parleremo ulteriormente, nel prossimo paragrafo, delle enormi differenze del sistema allora vigente con il sistema post-riforma. Per il momento mettiamo in evidenza le differenze tra i vari sostenitori della stessa impostazione. Si è detto che l’iniziatore della tradizione italiana è De Viti de Marco, con il libro del 1933 citato, tradotto nelle principali lingue europee (tedesco compreso). Per le imposte dirette, quelle sui redditi, si fa riferimento al principio del beneficio collettivo, in quanto si può ritenere che i benefici dei servizi pubblici collettivi, allora dominanti (le spese sociali, a carattere individuale, cresceranno moltissimo a partire dagli anni sessanta del secolo scorso), vadano a favore di tutta la collettività, per cui il reddito nazionale netto nasce, per così dire, già gravato da imposta. Qui c’è un primo grande discorso. De Viti, pur preferendo la proporzionalità dell’imposta, ritiene legittima anche l’imposta progressiva, non rendendosi conto che la progressività implica la personalità dell’imposta, e ciò implica a sua volta la globalità dell’obbligazione fiscale (base worldwide). Ma egli poteva essere giustificato, visto che allora tra redditi come componente del valore aggiunto netto e redditi individuali complessivi non c’erano grandi differenze, né di confine (i redditi individuali erano quasi tutti interni), né di sovrapposizione (i redditi misti, oggi diffusissimi, erano una rarità).
Per le imposte indirette si nota che esse sono reali per definizione, non riguardando le persone. È di particolare interesse che allora le imposte indirette erano nettamente superiori alle imposte dirette (oggi è vero il contrario), e che le imposte indirette riguardavano il fatturato complessivo, e non i soli consumi. De Viti su questo non dice una parola, accettando di fatto l’imposizione duplicata n volte implicata dall’imposta sul fatturato. Probabilmente vedeva i vantaggi della bassa aliquota, oppure che alcune spese pubbliche (quelle per la giustizia civile, quelle per i trasporti, e altre) si commisurano specificamene al fatturato, più che ai consumi.
In Einaudi lo schema di fondo resta lo stesso, pur privilegiando egli i consumi come base imponibile. Resta il fatto che egli lavorava nell’ottica della produzione, e per questo cerca di colpire i consumi dal lato dell’offerta. Per esempio era favorevole al fatto che l’esenzione del risparmio avvenisse a favore delle classi che sono costrette maggiormente al risparmio per accantonare un capitale da consumare come pensione. Ciò favoriva un’aliquota ancora più bassa per i salari. Non c’è nessun accenno, nell’opera di Einaudi, ai consumi stabiliti come differenza tra redditi e risparmi, che comportano di fatto il reddito mondiale come rifermento, e dunque la personalità dell’imposta (reddito mondiale che comprende per giunta le plusvalenze).
Steve discute a lungo, nelle sue Lezioni (e nei suoi ricordi, 1994, 1980, 1976b, 1974), sia di De Viti che di Einaudi, accettandone l’impostazione. Egli continua a parlare, ancora nell’ultima edizione del volume, nel 1976 (pubblicata cioè dopo l’entrata in vigore della riforma tributaria) del sistema delle imposte pre-vigente, illustrandone le aliquote (in ordine decrescente: quelle sugli interessi, quelle sui profitti, distinte tra grandi imprese e piccole, quelle sui redditi professionali, quelle sui salari). Critica l’Iva, orientandosi a favore dell’imposta generale sull’entrata (in pratica, sul fatturato). Sembra sfuggire anche a lui, tuttavia, come a De Viti, l’enorme differenza che c’è tra il sistema post-riforma e pre-riforma, in particolare per le imposte dirette. Che la personalità è diversa dalla realità, egli lo conosce perfettamente. Tuttavia quasi non nota, o non dà molta importanza, al fatto che le differenze stiano diventando enormi, perché redditi prodotti e redditi distribuiti riguardano gli uni una nazione e gli altri diverse nazioni, e tra i redditi distribuiti entrano le plusvalenze, che sono assolutamente renitenti alla base dell’Irpef, vista la loro pluriennalità e volatilità.
Occorre ora vedere se questa scuola può avere un futuro, applicativo. È questa anzi la questione decisiva che si può opporre ai teorici dell’Irpef (e dell’Ires, delle plusvalenze, delle ritenute da interessi, degli enormi redditi degli affitti). Altrimenti le loro considerazioni, pure profondamente contradditorie, tenderanno a prevalere per sempre.
Su questa fondamentale questione la risposta è nettamente positiva. La spesa pubblica è profondamente diversa rispetto alla prima metà del secolo scorso, essendo divenute fondamentali le prestazioni a carattere individuale (pensioni, sanità, spese scolastiche e altre). Il problema è che queste prestazioni riguardano per lo più solo la classe lavoratrice, e sono differenziate a seconda del tipo di lavoratori (autonomi e dipendenti su tutti). Qui la contribuzione sociale, lievemente progressiva, può avere un ruolo fondamentale, differenziando con deduzioni percentuali dal reddito le posizioni più sfavorite. Naturalmente le aliquote ora a carico dei datori di lavoro dovranno passare a carico dei lavoratori, previo aumento corrispondente dei salari. La contribuzione sociale ha il vantaggio di essere naturalmente nazionale. La progressività dei contributi, unita all’indipendenza dal reddito di una piccola parte delle prestazioni individuali, fa sì che per i redditi più bassi si venga a configurare una situazione di vantaggio (considerando prestazioni e contribuzioni) nei rapporti con lo Stato. L’imposizione diretta (Irpef, Ires e altre misure sostitutive), va abolita, trasformandola in piccoli prelievi, proporzionali, nazionali e differenziati per redditi (cfr. su questo più avanti il discorso su un’Irap modificata).
L’imposizione indiretta va d’altro canto potenziata. L’Iva va mantenuta, trasformandola in modo da evidenziare i consumi. È singolare che nessuno si è mai preoccupato di questo fatto fondamentale (ovvero che l’Iva, pur essendo un’imposta sui consumi, non li evidenzia in alcun modo), che ha contribuito non poco al suo affossamento. Lo strumento normativo è stato già introdotto, perlomeno in Italia: si tratta del quadro VT dell’Iva. Vanno aumentate le imposte sulla produzione, con la creazione di un prelievo aggiuntivo a bassa aliquota sulle transazioni B to B e sugli ammortamenti, e con l’aggiunta di un prelievo sull’energia elettrica. L’evasione fiscale può essere facilmente sconfitta. Contro di essa opera la convenienza sopra considerata per i bassi redditi nei rapporti con lo Stato. Tramite l’Iva sui consumi, decentrabile in base al quadro VT, si può inoltre giungere ad un confronto, per regione e per settore, con le analoghe grandezze di contabilità nazionale, operato dai professionisti e dalle associazioni di categoria, sotto la supervisione dello Stato. Si renderebbe così operativa la superiorità dell’Iva come imposta principe del sistema, come reclamato ai tempi della riforma tributaria degli anni settanta, e si tornerebbe a concordati individuali, sulle vendite al consumo e sui redditi, con il mondo delle piccole imprese. Si tratterebbe semplicemente di una riforma degli studi di settore, da concentrare su tutti i consumi, anziché disperderli, com’è ora, in tutto il mondo della piccola impresa. Il controllo dei consumi è fondamentale perché da lì si origina l’evasione.
Il sistema è coerente con il principio del beneficio: la contribuzione sociale è a fronte delle prestazioni in maggioranza individuali riservate ai redditi da lavoro; l’imposizione indiretta sostituisce il prelievo diretto di De Viti nell’attuare il beneficio collettivo ed è particolarmente efficiente in questo scopo, data la configurazione dell’imposta per strati; gli altri prelievi, in particolare quelli derivati dall’Irap modificata, finanziano le spese redistributive. È nazionale nella radice e nell’impatto, nel senso che colpisce imponibili esclusivamente nazionali e finanzia spese che sono naturalmente nazionali. Sul modello dell’Irap, le plusvalenze devono essere tassate presso le imprese emittenti, che hanno la possibilità di calcolarle facilmente in maniera annuale. Si evita in particolare l’enorme svantaggio delle imposte personali e progressive, destinate a cercare un punto assai elevato di afflusso del gettito, e da qui ad essere ridistribuite a livelli inferiori di governo, che svolgono le prestazioni. È questo uno dei grandi pericoli dell’evoluzione della UE.
Di più. Questa trasformazione rende possibile un reale sistema di afflusso del gettito ai livelli di governo superiori agli Stati (G20, Unione Europea), che rappresenta una necessità impellente. Favorisce infatti, a livello internazionale, un’imposizione su tutti gli interessi con un’aliquota vicina al 100% (perlomeno nei paesi avanzati), rendendo possibile una ripresa dei deficit pubblici. Inoltre facilita un’imposizione molto maggiore dell’attuale sui redditi oligopolistici, che oggi dominano nel sistema economico e riescono a farla fiscalmente franca senza un sistema di controllo centralizzato. I proventi sarebbero ridistribuiti (in tutto od in parte) nei paesi che accettano gli accordi di tassazione. Dunque, così riformulata, anziché essere riguardata come il passato che non può tornare, la Scuola di scienza delle finanze italiana può risorgere, e divenire la base di un intervento pubblico appropriato per i vari livelli di governo. Sul complesso di questa impostazione, si vedano: Convenevole (2011), che, per evitare l’evasione dell’Iva a livello internazionale, propone il passaggio al regime definitivo dell'IVA basato sull’adozione nazionale del quadro VT, con un meccanismo di clearing pure relativo al quadro VT; Vitaletti 2017, 2015, 2014a, 2014b, 2013, 2010, 2006 (con Marè), 2001 (con Tremonti), 1989.
3.
Innanzitutto un chiarimento. È vero che si fa affidamento sulla capacità contributiva. Ma questo non significa assolutamente che ci si ispiri all’articolo 53 della Costituzione. Questo è infatti composto di due commi: il primo fa riferimento alla capacità contributiva; il secondo prescrive che il sistema debba essere, per il complesso delle imposte, ispirato alla progressività. Ora è chiaro che i due commi non possono dare la stessa indicazione. Perciò il primo indica, con la capacità contributiva, non la progressività delle imposte (come è comunemente preteso), ma che la base della tassazione debba essere economica, escludendo così che gli oggetti non economici (razziali, caratteriali, etc.) possano essere presi come riferimento.
Ciò premesso, la capacità contributiva, nell’interpretazione di essa errata, ha finito per giustificare un prelievo personale, progressivo, e mondiale riguardo alle imposte dirette, e ha altresì avallato il passaggio dall’entrata al consumo nelle imposte indirette, escludendo la produzione. Tassare personalmente i redditi è divenuta la base della giustizia tributaria, per cui la loro tassazione deve essere centrale.
Vediamo come la cosa si è svolta, chiarendo fin da subito che il fallimento dell’impostazione non è apparso fin dall’inizio, ma quando: a) sono divenuti rilevanti i fenomeni della globalizzazione (ovvero i redditi dei percepienti il prodotto interno sono in buona parte internazionali), che ha sconvolto il modo di funzionamento delle ritenute, che ovviamente non si possono applicare sui redditi esteri, e ha travolto la stessa applicazione dell’imposta; b) sono venute in rilievo le plusvalenze, che sono assolutamente irriducibili al livello di tassazione personale, riguardando redditi non annuali, ma pluriennali, ed essendo assai volatili; c) soprattutto per effetto del federalismo fiscale interno, i redditi degli immobili, divenuti assai rilevanti, hanno cominciato ad uscire dalla progressività; d) si è progressivamente persa la fiducia sull’Iva, cui si erano messianicamente affidati compiti di controllo dell’evasione fiscale. Infatti l’imposta non solo ha fallito il suo compito nel caso del consumo, ma ha fatto sì che l’evasione si incuneasse pesantemente sul lato della produzione.
All’inizio, dopo la riforma, c’è stata solo una grossa delusione, quando si è constatato che l’Irpef non solo non comprendeva tutti i redditi, ma escludeva proprio quelli che era più necessario includere per giustizia (i profitti e gli interessi), ed inoltre che creava forti stimoli alla moltiplicazione delle esenzioni (tax expenditures, trattate in un importante libro di Pedone, 1979, che distingueva un sistema fiscale ideale, uno legale, un sistema reale, ed uno percepito, mettendo in evidenza lo scarto tra il sistema reale e quello ideale).
Il favore dei Sindacati del lavoro e della Confindustria per il nuovo sistema fiscale, accompagnato da quello delle categorie che evadevano (oggi raccolte in Rete Imprese Italia), lo rendeva di fatto inattaccabile. Sindacati e Confindustria anzi partecipavano attivamente alla gestione del sistema, gli uni sull’Irpef attaccando gli autonomi sull’evasione, e gli altri sull’Ires (allora chiamata Irpeg). Nei primi anni di applicazione della riforma, sotto la regia dei Sindacati e della Confindustria, c’è stato il grande balzo in avanti dell’Irpef, ottenuto semplicemente con il fiscal drag dell’inflazione combinata con la progressività (in una fase in cui il reddito netto dei lavoratori era crescente nonostante il fiscal drag).
Il peso degli intellettuali è pesantemente caduto, ed essi, anziché in posizioni primarie della politica come è accaduto agli esponenti della Scuola Italiana trattata nella prima sezione, è finito in secondo piano, fino all’attuale quasi scomparsa. Scomparsa che è del tutto legittima, perché le organizzazioni si sono dotate progressivamente di strutture pensanti che colgono i problemi reali della categoria, pure se in maniera unilaterale, mentre gli intellettuali si sono chiusi in sterili dibattiti, del tutto vuoti di contenuto (vedi in particolare il paragrafo 5).
A questa regola fa eccezione Visco, divenuto Ministro delle finanze e poi dell’Economia nel quinquennio 1996-2001 e Viceministro delle finanze nel biennio 2006-2008. Egli comunque alla fine è stato cacciato dalla propria parte politica, ed opera ora in qualità di consigliere occulto. È proprio Visco a varare (dopo l’Ici dei primi anni novanta varata da Amato - ora IMU: si tratta di un’imposta reale) il più importante provvedimento di politica tributaria dopo la riforma, l’Irap, nella seconda metà degli anni novanta. L’Irap è sbagliata sotto due aspetti fondamentali: è un’imposta centralistica, destinata invece al compito di finanziare le regioni; colpisce tutti i redditi prodotti presso l’impresa, senza possibilità di rivalsa verso i redditi colpiti. Ma senza questi due errori essa sarebbe un’ottima imposta, soddisfacendo appieno le caratteristiche di imposta reale, e colpendo pure parte delle plusvalenze presso le imprese su cui si formano. Essa, con l’ulteriore introduzione di differenze nelle aliquote, possibile se c’è la rivalsa, potrebbe ben candidarsi al ruolo di imposta proporzionale e reale, cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente.
Spieghiamo brevemente i quattro punti di ulteriore crisi del sistema, elencati in precedenza con le lettere a), b), c), d). Il punto sulla globalizzazione è effettivamente fondamentale. Di essa si è presa piena coscienza alla fine del secolo scorso, con l’ammissione della Cina nel WTO e le sue conseguenze. La globalizzazione implica in particolare, dal punto di vista fiscale, che i titolari dei redditi prodotti all’interno della nazione possano essere residenti esteri. In questo caso si perde la possibilità di effettuare ritenute di acconto (ciò tende ad avvenire strutturalmente, in base ai trattati sulle doppie imposizioni), ed in gran parte si perde la possibilità stessa di controllo, essendo i controlli limitati in gran parte entro i confini nazionali. Nonostante le ulteriori complicazioni, nessuno vuole ritornare al sistema reale, che riguarda solo i redditi interni che entrano nel Pil.
Il secondo punto di crisi è il venire in essere della tassazione delle plusvalenze, come secondo elemento di prelievo sui redditi in primo luogo colpiti dall’Ires. L’Ires (allora Irpeg) è rimasta un’imposta proporzionale sulla produzione nazionale, addizionata semplicemente da un’aliquota sui redditi guadagnati all’estero, nel caso di loro rimpatrio. Ma il manifestarsi di plusvalenze enormi in mano alle persone, che talora le realizzano senza pagare imposta (famosa la vendita di La Repubblica a De Benedetti, in cui Scalfari incassò un’enorme plusvalenza senza dover pagare alcuna imposta), costringe a introdurre questo secondo prelievo, personale ma non progressivo, perché il reddito è a formazione pluriennale. Di quest’imposta (ripeto, si tratta di un doppione) nessuno capisce niente, e, a rafforzamento di ciò, ci sono i grandi commercialisti a farla sistematicamente sparire. Nessuno si impegna a capire inoltre come avviene la tassazione dei brevetti, divenuti una componente assai importante del reddito delle grandi imprese, o come avviene la tassazione degli interessi, che le grandi imprese manovrano internazionalmente come vogliono.
Il terzo punto di crisi è che, soprattutto per effetto del federalismo fiscale interno alle nazioni, tendono a uscire dalla progressività anche i redditi degli immobili, divenuti enormi, per esempio gli affitti-rendite pagati dalle imprese di servizi che creano gran parte del Pil (commercianti, albergatori, bar, etc.). L’ulteriore permanere di parti degli affitti nell’ambito dell’imponibile personale è del resto destinato a trasformare in esteri i redditi percepiti, con la scomparsa dalla progressività e del gettito dalle nazioni di origine del reddito. Quando il processo di trasformazione della tassazione degli immobili sarà completato, tra pochi anni cioè, si vedrà appieno l’esito della personalità dell’imponibile. Resteranno infatti nella personalità solo i redditi da lavoro, con aliquote elevatissime. I lavoratori dipendenti hanno il mezzo di eluderle mediante la traslazione in avanti (non sui profitti, i quali a loro volta scaricano le imposte traslate generando inflazione, e quindi alla fine gli oneri sono sugli interessi e/o sui lavoratori autonomi in concorrenza), quando ciò è possibile. Ai lavoratori autonomi, sui redditi incrementali dei quali gravano aliquote estremamente alte, pari ad oltre il 60%, resta la via dell’evasione. In questo momento storico le due categorie sono peraltro in grave stallo. Ai lavoratori dipendenti è preclusa la traslazione, data la disoccupazione attorno al 10%. I lavoratori autonomi, se passa la via del passaggio obbligatorio alla moneta elettronica, perderanno progressivamente la via dell’evasione. Le imposte ridiventano un fenomeno assai serio. Coloro che le eludono massicciamente, le grandi imprese, sono in Italia pressoché assenti.
Il quarto punto di crisi riguarda l’Iva. All’imposta erano stati affidati compiti messianici di controllo automatico dell’evasione, per il meccanismo del carico dell’Iva e del suo successivo scarico. Si è visto abbastanza presto che, dove si produce il gettito reale dell’Iva, cioè nella fase del consumo, tale meccanismo non funziona e dunque l’evasione è assai grande. Si sta capendo ora che l’evasione si estende massicciamente dal consumo alla produzione a monte, inquinando profondamente tutto il sistema economico. A ciò si è aggiunta negli ultimi trenta anni (in particolare dal 1993, anno di introduzione del regime provvisorio dell’Iva), l’evasione generata dal fatto che non ci sono più le dogane, che facilita enormemente le frodi carosello.
Questi fenomeni sono avvertiti peraltro in profondità nei luoghi in cui avvengono. La professione accademica, anziché “sporcarsi le mani” nell’approfondirne le cause, si è ritirata in uno splendido isolamento, in cui continua a occuparsi di fenomeni totalmente inventati (confronta il paragrafo 5).
4.
Sono caratteristiche di quella che chiameremo la Scuola americana di Scienza delle finanze, o Scuola della public choice, sostenuta in Italia da Francesco Forte (2007): a) un sostanziale disinteresse per le formalizzazioni (eccetto che per i grafici); b) un interesse globale alla materia fiscale e della spesa pubblica; c) una attenzione importante ai tributi, con tentativi di interpretazioni abbastanza originali. Forte è divenuto anche Ministro delle finanze, sia pure per un breve periodo, nei primi anni ottanta.
La struttura del libro di Forte riguarda: le scelte collettive e le funzioni del benessere sociale; i fallimenti del mercato; le burocrazie ed i gruppi di interesse; il bilancio pubblico e le regole di costituzione fiscale; le pubbliche entrate, con particolare attenzione al sistema tributario italiano; le teorie sul debito pubblico; la molteplicità dei sistemi di governo.
Sia pure in parte ripresa dalle tematiche americane di public choice, l’attenzione sulle burocrazie e sui gruppi di interesse riflette l’originalità del volume. Mentre sia Steve che Cosciani si confrontavano con la struttura fiscale pre-riforma, nel caso di Steve sostenendola appieno, la riforma tributaria dei primi anni settanta viene di fatto accettata da Forte, al di là di talune discussioni. Sul piano teorico, si accetta il marginalismo e le discussioni sull’imposta ottima, di cui parleremo in particolare nel prossimo paragrafo. Si tende a contestare il Keynesismo, visto come focolaio del debito pubblico.
La discussione prescinde da ogni riferimento ad ipotesi di riforma globale con il ritorno alla realità e all’impostazione devitiana. Gli sono pertanto estranee le tematiche sollevate da Vitaletti (2019a, 2019b, 2019c). Il problema è che questa impostazione, pur con alcune differenze, tende ad invischiarsi sui problemi che andremo a discutere immediatamente. In definitiva, dunque, anche l’impostazione di Forte tende ad assomigliare nei suoi destini alla Scuola intermedia, vista nel precedente paragrafo.
5.
Iniziamo a capire dove è la svolta che porta alla situazione attuale, descritta più avanti nel paragrafo. Essa si può sintetizzare in una frase, gridata alla Siep da Marrelli alla fine degli anni novanta, ed applaudita: “Se i fatti non collimano con la teoria, dobbiamo abbandonare i fatti e tenere la teoria” (cfr. Vitaletti, 2018, p.188. Aggiungo ora il nome della persona). Marrelli è divenuto Presidente della Siep nel 2000, al termine di una lotta strenua, ma esplicita, con Fossati. Si nega con quella frase la radice l’impostazione steviana (quella che la teoria debba interpretare i fatti), in un’epoca in cui pure la matematica diviene obbligatoria (smentendo con ciò, in sostanza, un altro assunto steviano). Non commento l’espressione, che per me è un autentico insulto alla verità. Noto solo che essa caratterizza non solo la Presidenza di Marrelli, ma tutte le successive, con l’eccezione di Muraro e di Rizzo.
Vado alle radici della questione, indicando i due “fatti” che la “teoria” ha preso ad ignorare: il classicismo e Keynes. Il classicismo ha molte facce, di cui una particolarmente importante: la questione dei rendimenti. Per i classici i rendimenti sono costanti, ovvero se aumenta il prodotto, i costi debbono aumentare nella stessa proporzione (cfr. Sraffa, 1925, paragrafo IV). A questo si può aggiungere che in realtà i rendimenti per le grandi imprese sono crescenti (cioè i costi crescono in maniera meno che proporzionale rispetto al prodotto): altrimenti non vi sarebbe differenza tra grandi imprese e piccole imprese, e tutte le imprese sarebbero più o meno piccole. Dunque ciò che domina nei rendimenti sono o la costanza, o la crescita (cfr. Vitaletti, 2019c). Invece la teoria marginalista, sostenuta da quasi tutti gli attuali economisti e scienziati delle finanze, sostiene che i costi siano crescenti, e i rendimenti per conseguenza decrescenti, sulla base del fatto che il capitale è dato. L’assoluta infondatezza di questa ipotesi, che il capitale possa essere cioè un dato, non scalfisce i sostenitori, che dicono trattarsi di un’ipotesi, legittima come qualsiasi altra ipotesi. Si tratta di un’applicazione della frase: “Se i fatti non collimano con la teoria, dobbiamo abbandonare i fatti e tenere la teoria”. Le ipotesi non si possono cioè distinguere tra fondate ed infondate. Ammessa l’ipotesi, ne segue che la concorrenza perfetta si situa nell’incontro tra costo marginale e prezzo, in un tratto in cui i costi medi crescono. Resta un mistero come si fa a stabilire che i prezzi possano formarsi in corrispondenza di un costo che non è quello minimo (salvo il caso che il costo minimo decresca sempre, come in taluni oligopoli: in tal caso il prezzo di equilibrio si forma però sul tratto decrescente della curva del costo medio).
La questione Keynesiana. Qui il mistero è come si fa, come gli autori attuali fanno, ad ignorare la possibilità di disavanzi permanenti, e crescenti, nella gestione del bilancio pubblico. Un tempo Steve, ma anche Cosciani e Forte, consideravano attentamente questa possibilità, pur limitandosi (senza dirlo) alle oscillazioni attorno ad un trend ritenuto costante e parallelo all’asse delle ascisse. Ora, la scoperta che il deficit genera il debito pubblico, e che questo cresce in permanenza, sconvolgendo i mercati finanziari con interessi sempre maggiori, ha portato gli economisti a negare tale teoria. Gli Scienzati delle finanze si sono limitati ad ignorarla (salvo Forte, che tuttavia la considera alla base del debito pubblico, e dunque in sostanza la rigetta). Eppure Keynes stesso aveva dato indicazioni su cosa fare in tale caso, attribuito al futuro: ridurre al minimo gli interessi, e gli extra-profitti. Io ho ripreso queste tesi, ad esempio in Vitaletti (2019b), limitandomi a prescrivere strumenti fiscali per attuare le operazioni. In questo momento storico la questione è di grande attualità, perché la Cina e la Germania hanno affiancato i paesi petroliferi negli alti avanzi della bilancia dei pagamenti, e gli Stati Uniti stanno cercando di porre rimedio al proprio deficit commerciale (originato dagli altrui avanzi), con dazi. Gli economisti ignorano il problema, partecipando invece assieme ai media alla guerra contro Trump, che reagisce al deficit della bilancia dei pagamenti semplicemente cercando una via alternativa alla svalutazione del dollaro.
Questi due principali “fatti” (abbiamo posto la parola fatti tra virgolette, in quanto si tratta di teorie), sono al centro della spiegazione dei fatti veri e propri. Tendenzialmente, a parte i libri di testo, che sono illeggibili nelle forme matematiche, ma che si concentrano nella negazione dei due fatti-teorie, si tende a frazionare la materia, e ad econometrizzare tutto.
Accademicamente, dopo l’elezione di Marrelli già raccontata, cui segue Muraro, avviene l’elezione d Petretto, che inaugura effettivamente la nuova stagione. Segue Brosio, che la classe professorale preferisce a Longobardi, l’autore del libro Economia Tributaria, nel 2005, che si attiene ai canoni sopra visti rispetto alla matematica ed all’economia (cioè infarcisce il libro di matematica ed ignora i classici e Keynes), ma che tratta i problemi fiscali, giungendo ad interpretazioni assai interessanti. La scelta di Brosio va giudicata in maniera assai negativa, ma risponde appieno al canone: “Se i fatti non collimano con la teoria, dobbiamo abbandonare i fatti e tenere la teoria” (Longobardi in tema fiscale si attiene pienamente ai fatti). Segue Bordignon, che pure caratterialmente è al di sopra della media, ma che impone lo stacco dal passato, impostando la separazione definitiva della Scienza delle finanze da Pavia. Infine c’è il predecessore dell’attuale Presidente Rizzo, cioè Bernasconi, che rende definitivo il rapporto di dipendenza della Siep dalla Bocconi. Egli ottiene, assieme ad altri, l’importante successo di promuovere Paola Profeta, della Bocconi, a Presidente della European Public Choice Society. Al congresso dell’Aprile 2020 di Losanna di tale Società, accanto alla Profeta medesima, come Keynote Lecture appare Francesco Giavazzi (comunicazione Siep ai soci del 09-09-2019), professore della Bocconi, nonché editorialista del Corriere della Sera. In tale giornale egli è l’esponente di punta dell’industrialismo, quando l’industria riguarda una percentuale del Pil minore e decrescente; è pieno sostenitore dei parametri di Maastricht, che sono invece da rivedere; è altresì sostenitore della tesi, contestata in questo lavoro, che occorra un Ministro dell’economia e delle finanze europeo. Egli ha intuito cioè che con l’attuale sistema fiscale l’accentramento del gettito è inevitabile, e che quindi è necessario preoccuparsi perché un Ministro dell’Economia gestisca gli enormi problemi dei trasferimenti dalla UE agli Stati.
6. Implicazioni
Diego Piacentino è una personalità ottima per tracciare i profili di una storia delle Scienza delle finanze in Italia. Infatti egli ha fatto parte della Scuola di Steve; ha seguito da vicino Pedone; provenendo dal Piemonte, ha una buona relazione con Forte; ha infine ottimi rapporti con Rizzo. Può dunque impegnarsi a fondo nel seguire un percorso in cui si traccino le differenze tra una Scuola di Scienza delle finanze originaria, con caratteristiche distintive che oggi sono tornate importanti, e le Scuole successive, mettendo in evidenza da un lato le Scuole di Cosciani e di Forte, e dall’altro lato la Scuola attuale, che si uniforma al modernismo.
Oppure può fare un percorso storico limitato nel tempo, fermandosi a Einaudi, in cui si inframezzino figure di secondo piano e protagonisti, e si perda la specificità della Scuola italiana di Scienza delle finanze. I nominativi indicati sulla casella di Storia della Siep sono in proposito indicativi: Pareto, Pantaleoni, De Viti, Barone, Mazzola, Montemartini, Einaudi. Si vuole cioè accreditare che la Storia ha uno sviluppo lineare, che parte da Pareto ed arriva alle attuali teorie, che si reggono su Pareto. La scelta spetta ovviamente a Piacentino. Va messo tuttavia in conto che su tale scelta può attivarsi una forte discussione.
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