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Presunta esterovestizione di una società di diritto lussemburghese (Nota a sentenza CTR per la Toscana, Quinta Sez., 13/01/2020)

Scritto da Leonardo Maria Galieni • dic 2020

Sintesi

Uno sguardo all’esterovestizione societaria: un fenomeno patologico agli occhi del Fisco. Dal confronto tra disciplina nazionale e convenzionale, sulla falsariga del modello OCSE e delle sue evoluzioni, alla sintesi interpretativa riscontrabile nella più recente giurisprudenza anche alla luce del principio inaugurato dalla Suprema Corte nel noto caso “Dolce & Gabbana” sul concetto del “wholly artificial arrangement”. Uno sguardo all’approccio giurisprudenziale estero in tema di dual residence: l’esperienza olandese. La valenza del certificato di residenza fiscale PAROLE CHIAVE: Esterovestizione – Requisiti – Modello OCSE – Sede di direzione effettiva – Prova realtà artificosa

Abstract

A vision on the phenomenon of the “foreign dressed companies”: a pathological phenomenon according to the Revenue. From the comparison bewteen italian and international tax discipline, along the lines of Model OCSE, to a synthesis due to a practice approach introduced by the Supreme Court in the famous case “Dolce&Gabbana”, focused on the principle of “wholly artificial arrangements”. A focus on dutch jurisprudence experience. Importance or irrelevance of tax residence certificate in order to contrast the tax claim. KEYWORDS: Foreign dressed companies – Requirements – Model OCSE – PoEM – Proof of wholly artificial arrangements.

Contenuto

1. L'esterovestizione societaria: evoluzione interpretativa di quello che appare come un fenomeno patologico agli occhi del Fisco

La fattispecie sottoposta al vaglio della Commissione Tributaria Regionale della Toscana involge una pretesa tributaria avanzata nei confronti di una holding lussemburghese, appartenente ad un gruppo societario facente capo ad un’unica persona fisica, azionista di controllo, residente in una città toscana.

I Giudici di prime cure, accogliendo l’impostazione erariale, hanno ritenuto che la suddetta società doveva ritenersi “esterovestita” non soltanto in virtù degli elementi riportati nell’avviso di accertamento, ma soprattutto sulla scorta delle dichiarazioni che l’asserito amministratore di fatto aveva reso alla G.di.F. in sede di verifica, sarebbe emerso come la stessa fosse un soggetto passivo fiscalmente residente in Italia e quindi ivi tenuto al pagamento delle imposte ed ai connessi adempimenti fiscali.

Avverso la pronuncia di primo grado, la contribuente spiegava appello rilevando che:

  • non era stata adeguatamente considerata la sentenza pronunciata nel giudizio parallelamente instauratosi sul versante penale con cui l’asserito rappresentante legale era stato accolto dal capo d’imputazione vertenze su rilievi sostanzialmente riconducibili a quelli oggetto della contestazione tributaria;

  • era stata violata la disciplina speciale di cui alla convenzione italo-lussemburghese, da ritenersi prevalente sull’art. 73 del TUIR ai fini dell’individuazione della residenza fiscale di una persona giuridica;

  • era stata distorta la percezione dell’effettiva attività di holding svolta dalla contribuente su cui, al più, veniva esercitata solo attività di coordinamento e di controllo e non di gestione principale come invece ipotizzato dall’Agenzia.

Ebbene, chiamati a pronunciarsi sulla vicenda, i Giudici toscani hanno accolto le doglianze sollevate dalla contribuente.

In particolare, appare opportuno enfatizzare taluni aspetti.

Anzitutto, non si può sottacere come la C.T.R., per forza di cose, sia partita dall’esito del procedimento penale (riguardante sostanzialmente le medesime contestazioni mosse dal lato fiscale) con cui il presunto rappresentante legale della holding era stato assolto poiché: “non risultava provata la cosiddetta esterovestizione e cioè, nel caso di specie, la costituzione di società formalmente lussemburghesi ma con sede effettiva in Italia, al fine di evadere le imposte”.

Tralasciando la tesi del doppio binario penale-tributario, il fatto che i Giudici toscani si siano soffermati su tale giudizio non deve lasciare basiti; non a caso anche la Suprema Corte ritiene doveroso un simile vaglio, seppur nel rispetto di taluni limiti ai fini del decisum1.

Resasi necessaria tale parentesi, torniamo alla fattispecie per cui è causa.

Bisogna difatti considerare come il rigetto dell’ipotesi accusatoria si impernii, in larga parte, sul principio forgiato dalla Suprema Corte nel noto caso Dolce e Gabbana2.

Invero, dopo essere stato affermato nel relativo giudizio penale, è stato poi recuperato nella vicenda tributaria parallelamente instauratosi, fino ad essere assunto a fondamento di successive decisioni tributarie tra cui, da ultimo, quella in commento3.

Il thema decidendum, dunque, consta nello stabilire se la collocazione della società all’estero potesse risultare una costruzione di puro artificio ovvero rispondesse a delle scelte strategiche ben precise.

In tale ottica, se non può disconoscersi in capo agli Uffici il compito di contrastare tutte quelle iniziative “fittizie” animate dalla sola ed unica finalità di conseguire indebitamente vantaggi fiscali, è altrettanto vero che ove ciò non si configuri, l’Amministrazione finanziaria non può arrogarsi la potestà di sindacare scelte strategiche-imprenditoriali altrettanto meritevoli.

Una simile lettura, a parere di chi scrive, andrebbe inevitabilmente a ledere quel legame che si viene ad instaurare tra il principio costituzionale della libertà d’iniziativa economica ex art. 41 Cost.4 e, in chiave europea, il diritto di stabilimento5.

Non a caso la C.G.U.E.6, facendo leva su tali libertà, in più occasioni ha sottolineato come gli Stati membri debbano riconoscere ai contribuenti la facoltà di collocare le proprie attività economiche in uno Stato differente da quello di origine, ancorché il primo contempli un regime fiscale più vantaggioso (c.d. tax haven).

Tale scelta, a ben vedere, è espressione di uno dei diritti inalienabili accordati dal lato della legislazione europea dall’art. 49 dell’attuale T.FU.E.7, vale a dire quello di stabilimento.

In sintesi, esso contempera:

  • da una parte la possibilità che ad una società e/o ente non residente sia riconosciuto il medesimo trattamento che lo Stato ospitante riserva agli enti residenti (principio di reciprocità8);

  • dall’altra la garanzia di vedersi rimuovere quelle limitazioni che potrebbero impedire la costituzione di filiali, sedi secondarie, agenzie, succursali in altri Stati U.E. al fine di promuovervi la propria attività d’impresa.

Seguendo tale linea direttrice la C.T.R., richiamando quell’orientamento che sempre è dato registrarsi nei giudici tributari, ha correttamente statuito come laddove la società con sede legale estera sia soggetta al controllo di cui all'art. 2359, co. 1, c.c., da parte di un soggetto residente in Italia, ai fini dell’individuazione della sede di direzione effettiva non può costituire criterio esclusivo di accertamento il luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative, quandanche si identifichi con la sede legale-amministrativa di quest’ultimo9.

Invero, ciò che invece assume primaria valenza, attiene alla necessità di appurare che la predetta società estera non configuri quel che viene definito un “wholly artificial arrangement” ovverosia una costruzione di puro artificio priva di un’effettiva realtà operativa e dimensionale sul mercato del Paese in cui risulta essersi insediata10.

Orbene, sulla scorta di tale ordine di considerazioni, non smentite dal fatto che fossero stati rinvenuti taluni documenti contabili delle holding lussemburghesi in capo al loro presunto amministratore di fatto talchè detta circostanza investe l’ordinaria funzione di coordinamento del gruppo societario, i Giudici di seconde cure hanno accolto la tesi difensiva.


2. La normativa di riferimento, lato domestico: l'art. 73 del D.P.R. n. 917/86 (T.U.I.R.)

Volendo cercare di tracciare una panoramica della fattispecie dell’esterovestizione (per gli anglosassoni “foreign dressed companies”), il primo approccio che si intende delineare è di stampo normativo.

Più precisamente, iniziando dalla disciplina domestica, per poi soffermarsi sulla regolamentazione accordata in sede “convenzionale”.

Ma andiamo per gradi.

Sul versante nazionale, le normative di riferimento sono, in buona parte, rappresentate: dall’art. 73 del TUIR sotto un punto di vista strettamente sostanziale e, sul versante applicativo, dall’art. 1 del D.P.R. n. 600/1973.

L’art. 73, co. 3, del TUIR recita testualmente che “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato” dove, per oggetto principale “si intende l'attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto”.

A tale previsione di carattere generale, al comma 5-bis si affianca un’altra con cui il legislatore ha voluto introdurre una vera e propria praesumptio iurs tantum, prevedendo che “Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell'amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell'articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:

a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell'articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;

b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato…”.

Per quanto emerge dal dettato letterale dunque, al comma 3 si rinviene la disciplina di carattere generale, mentre al comma 5-bis è inserita una presunzione legale relativa che, come noto, esonera chi la invoca dal dimostrarne l’esistenza dei presupposti applicativi.

Orbene, allorché si realizzi una delle condizioni previste dal citato art. 7311, viene dunque ad integrarsi uno dei presupposti indefettibili per l’assoggettamento delle persone giuridiche all’obbligazione tributaria: la c.d. soggettività passiva12.

Di rimando, scatta l’obbligo dichiarativo fissato dall’art. 1 del D.P.R. n. 600/1973 per cui “Ogni soggetto passivo deve dichiarare annualmente i redditi posseduti anche se non ne consegue alcun debito d'imposta. I soggetti obbligati alla tenuta di scritture contabili, di cui al successivo art. 13, devono presentare la dichiarazione anche in mancanza di redditi. La dichiarazione è unica agli effetti dell'imposta sul reddito delle persone fisiche o sul reddito delle persone giuridiche e dell'imposta locale sui redditi e deve contenere l'indicazione degli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione degli imponibili secondo le norme che disciplinano le imposte stesse. I redditi per i quali manca tale indicazione si considerano non dichiarati ai fini dell'accertamento e delle sanzioni”.

A tal proposito, prendendo le mosse dall’incipit normativo testé esposto, quel che è chiaro attiene al fatto che dapprima il legislatore ha indissolubilmente ancorato il fenomeno dell’esterovestizione al criterio della residenza fiscale; successivamente, su tale presupposto normativo, l’A.F. ha discrezionalmente ricamato una serie di elementi con cui poter corroborare le proprie contestazioni in subiecta materia.

In tal senso, è d’ausilio quanto rilevato in sede europea dalla C.G.U.E. che, con la celeberrima sentenza Centros, ha affermato il principio per cui gli Stati membri sono liberi di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato13.

Orbene, nell’ipotesi in cui si assuma che una società formalmente situata nel territorio di uno Stato estero, in realtà operi nel territorio italiano – ritenendola così esterovestita – non può presicndersi dal fatto che l’onus probandi grava in prima battuta sul Fisco.

Invero, ai fini dell’esterovestizione, costituisce condicio sine qua non che l’Amministrazione finanziaria dimostri inequivocabilmente, e non sulla base di mere suggestioni, come la società estera abbia in realtà la propria residenza fiscale in Italia.

E per far ciò, l’Amministrazione finanziaria deve “mostrare sul piatto” quello che può definirsi come un vero poker, vale a dire:

  • in primis, l'esistenza di un vantaggio fiscale scaturente dalla possibilità di godere nello Stato estero di un regime fiscale maggiormente favorevole rispetto a quello domestico14 e quindi appetibile per chi intende conseguire un risparmio d’imposta;

  • in secundis, l’effettivo e comprovato svolgimento in Italia del core business (PoEM15), risultando l’insediamento all'estero privo di valide ed apprezzabili ragioni economiche;

  • tertium, l’assenza di autonomia gestionale e finanziaria della sede estera16;

  • ultimo, grazie all’approccio innovativo cui è giunta la Suprema Corte con la nota vicenda Dolce & Gabbana, il carattere figurativo ed artificioso della sede estera in cui non sia apprezzabile lo svolgimento di alcuna attività economica da parte della business entity.

Orbene, se è vero che l’A.F. è tenuta ad assolvere il proprio onere probatorio in maniera rigorosa, altrettanto vera è la possibilità di avvalersi della praesumptio iuris di cui al comma 5-bis ove ricorrano due condizioni, tra loro alternative.

Di queste, la prima è legata al controllo civilistico disciplinato all’art. 2359 c.c.

A tal proposito, ricorrendo una di dette condizioni (ad esempio in virtù del rapporto di controllo che la holdig ita esercita nei confronti della propria controllata estera), è inevitabile che si crei una sorta di “frizione” con la disciplina parallela della c.d. C.F.C. (controlled foreign companies) di cui all’art. 167 del T.U.IR.; quest’ultima, difatti, è imperniata sui rapporti di controllo che le entities italiane esercitano sulle subsidiaries estere.

Dinanzi a tale situazione di impasse, era auspicabile oltre che necessario un chiarimento dell’Amministrazione finanziaria.

L’occasione si è presentata con la Circolare n. 28/E/2006 del 04.08.2006 in cui, precisato che dinanzi a questo conflitto apparente di norme – espressione che si mutua dal diritto penale – la disciplina delle C.F.C. si pone in un rapporto di sussidiarietà rispetto all’esterovestizione, la prima non può che risultare inoperante nei riguardi del contribuente17.

Giocoforza, laddove quest’ultima ipotesi venga meno, ad esempio perché sconfessata dall’esito del relativo contenzioso tributario, potrebbe tornare ad applicarsi la disciplina di cui all’art. 167 del T.U.I.R. purché nel caso di specie siano integrate le condizioni di legge.

Ebbene, quel che appare anomalo, anche per quanto riguarda le ipotesi di controllo civilistico, è che il Fisco contesti l’esterovestizione facendo inspiegabilmente leva sui rapporti di direzione-coordinamento che la holding italiana esercita naturalmente sulle proprie subsidiaries estere.

Rispetto a tale impostazione, doverosa è una precisazione.

È “nell’ordine delle cose” che la holding, quale soggetto controllante che presiede un gruppo societario, assuma un ruolo-chiave anche nella strategy del gruppo, anche in ottica di preservare l’esistenza economico-finanziaria dello stesso18.

Ma tale condizione, non può di certo legittimare un’acritica equiparazione tra l’attività di direzione e coordinamento, codificata all’art. 2359 c.c. e la c.d. etero-direzione19.

Quel che rileva, a sommesso avviso di chi scrive, è un approccio case to case, così come inaugurato nella nuova versione del Modello OCSE, e di cui a breve si tratterà.

In pratica, occorre verificare se l’attività di direzione e coordinamento – talvolta sostanziatasi in direttive impartite dalla società capogruppo – configuri o meno un’effettiva ingerenza gestionale ed amministrativa nell’attività delle società estere controllate tale da incidere significativamente sull’autonomia propria delle singole entitities estere e che quest’ultime sono deputate ad esercitare in funzione del gruppo stesso20.

Essenziale, dunque, è comprendere come nei rapporti tra holding-controllante e società partecipate estere, special modo se inserite all’interno di un gruppo societario articolato e conseguentemente complesso, è fisiologico che la controllante fissi delle scelte strategiche, funzionali anche allo sviluppo delle altre entities, senza con ciò assimilare tale “imperio” ad un vera etero-direzione21; semmai, tale coordinamento sarà riconducibile alle ordinarie funzioni di direzione unitaria che sovente si rintracciano nei rapporti tra controllante e le proprie controllate site in altri Paesi.

In tale casistica, quello che rileva ai fini della residenza fiscale di una società non è il luogo dove vengo assunte le decisioni di ordine generale – destinate a riflettersi sull’intero gruppo societario – e da dove promanano gli impulsi gestionali della controllante, sibbene quello del c.d. day to day management22.

Tale criterio, pare essere l’unico valido ed attendibile al contempo per individuare il luogo nel quale si realizza effettivamente l’attività principale e sostanziale dell’impresa23, tenendo debitamente conto della sottile linea di confine che intercorre tra l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento posto in essere dalla controllante e la c.d. etero-direzione.

E dunque, in presenza di un gruppo societario di stampo internazionale, questa sin qui delineata si atteggia come la linea d’indagine più accreditata ed al contempo accettata ai fini della corretta individuazione della residenza fiscale di una società controllata con sede in un altro Stato.


3. L'approccio "convenzionale" al concetto di residenza fiscale: dall'avvento del progetto BEPS con l'Action 6 alla nuova versione del modello OCSE; focus sulla disciplina convenzionale italo-lussemburghese

Se il percorso argomentativo sin qui delineato attiene, in larga parte, alla disciplina domestica (ex art. 73 del T.U.IR.), tale inquadramento non può affatto prescindere dalla disciplina parallelamente disegnata sul piano “convenzionale”.

Nella sostanza, talchè l’Italia, alla pari della maggioranza degli altri Paesi, ha siglato una mole di convenzionali fiscali contro le doppie imposizioni tra i diversi Stati, membri UE e non, è opportuno che per ogni singolo istituto trattato sul piano “pattizio” (vedasi a titolo esemplificativo: dividendi, interessi, stabile organizzazione etc…) si instauri un parallelismo con la disciplina parallelamente applicabile dal lato domestico (rectius di diritto interno).

Orbene, tra questi, il primo di richiamo è naturalmente quello della residenza fiscale poiché sulla base al requisito della territorialità che poi si articolano le potestà impositive dei singoli Stati.

Esemplificazione di quanto accennato è rinvenibile nel nostro impianto normativo.

Invero, i criteri stabiliti dall’art. 73, co. 3, del T.U.I.R. sono residuali e subordinati rispetto a quanto fissato dalle convenzioni internazionali per ben due ragioni:

1) la prima, risponde alla previsione di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 600/197324 e, in parte, all’art. 169 del T.U.I.R. ove risultino più favorevoli;

2) la seconda, al principio di specialità che, mutuato dal diritto penale ove è disciplinato all’art. 15 c.p., prevede per l’appunto che la natura “speciale” delle disposizioni pattizie prevalga rispetto a quelle di diritto interno25.

Volendo portare un esempio di stampo “internazionale”, se una holding spagnola ha delle subsidiaries con sede legale in Olanda, laddove il Fisco spagnolo contesti la presunta esterovestizione di quest’ultime, al fine di stabilire l’effettiva residenza fiscale e quindi il riparto impositivo tra i due Stati coinvolti occorrerà, quantomeno, richiamare la Convenzione ad hoc siglata tra Spagna ed Olanda.

Quest’ultima, verosimilmente, ricalcherà quanto stabilito in linea generale dal modello OCSE per quanto ci si accinge ad illustrare.

Innanzi al fenomeno, sempre più insidioso, legato alle c.d. A.T.P. (aggressive tax planning), si è avvertita sempre più l’esigenza di porvi rimedio, arginando il più possibile la possibilità che i contribuenti sfruttassero i diversi e più vantaggiosi regimi impositivi accordati dai diversi Stari per erodere materia imponibile.

Di tale necessità se n’è fatta carico l’OCSE, in particolare grazie all’ambizioso progetto che viene compendiato sotto l’acronimo di BEPS26, il quale comprende ben 15 Actions.

Dopo taluni progetti iniziali, che comunque hanno dato luogo ad una prima stesura ufficiale, la vera novità da segnalare è data dall’implementazione del nuovo Modello di Convenzione contro le Doppie Imposizioni nel 2017, introdotto proprio al fine di dar vita alle nuove soluzioni elaborate nell’ambito del Progetto BEPS, come accennato sostanziatesi nelle c.d. Actions.

Disquisendo in tema di esterovestizione, per ovvie ragioni si fa cenno soltanto a quella di riferimento, ovverosia l’Action 627.

Detta Action, si pone l’obiettivo di fornire agli Stati strumenti idonei a prevenire i fenomeni di “abuso dei trattati” (c.d. treaty shopping) realizzati mediante strumenti ed entità ibridi che, con l’escamotage della doppia residenza, sfruttano le opportunità offerte dai trattati per sottrare del tutto o in parte i propri redditi dall’imposizione fiscale.

Non deve sorprende come nell’Action 6 sia contemplata una vera e propria clausola anti-abuso, nota come P.P.T (principal purpose test rule) che risponde ad un obiettivo ben preciso: con essa si tende a verificare quale sia l’effettiva finalità di una struttura o di un’operazione al fine di ovviare alla possibilità, non remota, che tali structures “ibride” vengano di fatto strumentalizzate28.

Ed il modo più immediato per dribblare una tassazione più onerosa sta proprio nel porre formalmente la residenza fiscale in uno Stato con un regime impositivo più vantaggioso rispetto a quello in cui effettivamente tali società operano29.

Di lì, si è avvertita l’esigenza di intervenire, per quanto si dirà, sull’art. 4 del Modello OCSE che disciplina il profilo della residenza fiscale.

L’occasione si è presentata nel 2017 dove, seguendo la scia già tracciata con il progetto BEPS, nella nuova stesura del Modello OCSE di Convenzione contro le Doppie Imposizioni si stabiliscono nuovi criteri per individuare la residenza fiscale, anche dei soggetti diversi dalle persone fisiche.

Difatti, se la previgente versione dell’art. 4, par. 3, poneva come criterio unico di riferimento quello del “place of effective management”30, la nuova stesura adotta una chiave di lettura31 per certi versi speculare, ma per altri innovativa.

Ad oggi, essa prevede infatti che “Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica è residente in entrambi gli Stati Contraenti, le autorità competenti degli Stati Contraenti dovranno fare del loro meglio per determinare di comune accordo lo Stato Contraente in quale detta persona dovrà essere considerata residente ai fini della Convenzione, avendo riguardo al luogo di direzione effettiva, il luogo dove è incorporata o in altro modo costituita e ogni altro fattore rilevante.

In mancanza di tale accordo, tale persona non ha diritto a rivendicare alcuno sgravio o esenzione dalle imposte previsto dalla Convenzione salvo che nella misura e secondo le modalità concordate dalle autorità competenti degli Stati Contraenti”32.

In tal guisa, si viene a delineare un approccio tendenzialmente “case-by-case” per cui gli Stati membri dovranno collaborare nell’individuare la residenza fiscale di una determinata entity sulla base delle peculiarità di ogni singolo caso.

Trattandosi di un’analisi complessa e non di agevole portata, viene in ausilio il Commentario al Modello OCSE33 il quale, per risolvere le questioni che sorgono sulla c.d. dual residence companies, traccia dei criteri-guida per individuare lo Stato titolare della potestà impositiva.

In particolare, al paragrafo 24.1 del Commentario vengono riportati:

  • il luogo dove si riunisce il consiglio di amministrazione;

  • il luogo dove il C.E.O. ovvero senior management svolgono la loro attività;

  • il luogo dove il day-to-day management viene svolto;

  • il luogo dov’è collocalo l’headquarter della società;

  • la legge che governa la società;

  • il luogo dove vengono conservati i documenti contabili.

Ad ogni modo, non bisogna trascurare come l’Italia, formulando specifiche osservazioni all’art. 4 del Modello OCSE ha introdotto una particolare riserva per effetto della quale, nel determinare la residenza fiscale di una società, oltre alla “sede della direzione effettiva”, deve attribuirsi rilievo anche al luogo nel quale viene svolta l’attività principale dell’impresa34.

In aggiunta, nel Commentario si accenna alla possibilità di inserire nelle Convenzioni siglate la previgente impostazione dell’articolo 4 del Modello OCSE la quale fissava come unico criterio quello del “place of effective management”.

E dunque, talché occorreva trovare un punto di incontro tra regolamentazione interna affidata ai criteri di cui all’art. 73, co. 3, del TUIR e disciplina pattizia che, in buona sostanza, all’art. 4, par. 3, del modello OCSE rimanda, al criterio del “place of effective management”, sul versante domestico la Corte di Cassazione è intervenuta per offrire una soluzione interpretativa pressoché univoca.

In tale prospettiva, rilevando una sostanziale sovrapposizione tra il criterio della sede dell’amministrazione (disciplina domestica) e sede della direzione effettiva (regolamentazione pattizia) si è ritenuto, non dissimilmente da quanto già espresso dall’Amministrazione finanziaria35, che la sede amministrativa di una company, differenziandosi dalla sede legale, si identifica sia nel luogo in cui vengono assunte le determinazioni sociali più rilevanti per l’esistenza della società, sia in quello di direzione dell'ente oltre che, all’uopo, quello di convocazione delle assemblee.

Delineato l’approccio che l’OCSE ha inteso attualizzare con le ultime modifiche in tema di dual residence, appare interessante soffermarsi, seppure in brevitas, su un esempio concreto di come le Convenzioni siglate tra Stati abbiano inteso recepire detta impostazione ai fini del riparto della potestà impositiva.

Orbene, dal momento che la sentenza in commento attiene ad una fattispecie che coinvolgeva Italia-Lussemburgo e per cui il Fisco aveva ritenuto che il place of effective management della holding lussemburghese fosse collocabile in Italia, si vuole posare lo sguardo proprio sulla disciplina pattizia contemplata nella Convezione tra Italia e Lussemburgo36.

Non a caso i Giudici regionali hanno valorizzato l’impatto di tale regolamentazione pattizia sulla disciplina interna rimarcando come “Viene altresì in rilievo la Convenzione tra Italia e Lussemburgo intesa a evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio ed a prevenire la frode e l'evasione fiscali, firmata il 3 giugno 1981 e ratificata e resa esecutiva con la L. 14 agosto 1982, n. 747... Le due discipline, quella interna e quella pattizia, a ben vedere, sono sostanzialmente equivalenti .... La nozione di "sede dell'amministrazione"..., in quanto contrapposta alla "sede legale", si deve ritenere coincidente con quella di "sede effettiva" (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee…”.

Per quanto d’interesse, l’art. 4 della ridetta Convenzione, disciplina il tema della residenza.

Tralasciando la regolamentazione destinata alle persone fisiche e per cui la Convenzione si propone l’obiettivo di prevenire l’evasione fiscale ed al contempo evitando doppie imposizioni per cittadini italiani che hanno la loro residenza e/o domicilio in Lussemburgo37, ci si concentra sul trattamento riservato alle persone giuridiche.

L’art. 4, par. 3, prevede difatti che “Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, una persona diversa da una persona fisica, è considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, si ritiene che essa è residente dello Stato contraente in cui si trova la sede della sua direzione effettiva”.

Orbene, anche in base alla Convezione tra Italia e Lussemburgo, seguendo l’impostazione storicamente adottata dal Modello OCSE, la residenza fiscale delle persone giuridiche deve rintracciarsi nella sede di direzione effettiva come tra l’altro recentissimamente confermato anche dalla Corte di legittimità38.

Delineate le linee chiave dell’approccio adottato sul piano convenzionale in tema di dual residence, vediamo come viene trattata tale questione da parte dei Giudici degli altri Stati.

In tal senso, ci si vuole soffermare su un caso di respiro strettamente internazionale che è stato affrontato dalla giurisprudenza olandese.

Nella fattispecie, la Lower Court of Arnhem è stata chiamata a pronunciarsi sulla contestazione mossa dall’Amministrazione finanziaria olandese ad una società sita ad Hong Kong39.

Invero, dal momento che la società cinese era partecipata da due persone fisiche residenti in Olanda, di cui una peraltro ricopriva il ruolo di Amministratore Unico oltre ad impartire precise direttive, il Fisco olandese presumeva che la prima fosse esterovestita, recuperando così a tassazione le imposte sul reddito d’impresa non dichiarato.

Orbene, tale ricostruzione non ha trovato accoglimento nei Giudici olandesi.

È d’interesse evidenziare, anche al fine di sottolineare come l’onere probatorio gravante sul Fisco debba esser rigoso e non fermarsi a delle mere circostanze fattuali poste a base dell’accertamento, come ad avviso della Corte olandese il fatto che il socio-amministratore della società sita ad Hong Kong si fosse ivi recato solo sporadicamente e che avesse supervisionato la relativa attività dall’Olanda, non poteva considerarsi bastevole per sostenere l’esterovestizione.

Ciò che dunque rileva in tema di residenza delle persone giuridiche è dato in primis dalle circostanze che connotano il caso concreto40 per poi, eventualmente, dar rilievo ai profili formali afferenti la costituzione della società; tra queste, senz’altro, così come impresso dal modello OCSE, il primo criterio direttivo è dato dal place of effective management.

Sempre nell’ottica di sottolineare l’ineludibile onere probatorio gravante sul Fisco, nella storica casistica affrontata dalla giurisprudenza olandese, è imprescindibile tornare indietro negli anni fino a giungere ad una importante pronuncia della Hoge Raad der Nederlanden (Corte Suprema dei Paesi Bassi)41.

Quest’ultima, chiamata a valutare se la sede svizzera di una società fosse o meno fittizia, ha negato ingresso alla tesi erariale sottolineando, in particolare, come l’Amministrazione finanziaria non aveva fornito la prova che la sede della direzione effettiva della società svizzera fosse localizzata nei Paesi Passi nonostante i soggetti controllanti erano ivi residenti.

Anche questo rapido sguardo volto a comprendere quale sia, in linea generale, l’imprinting dato in altre giurisdizioni – in tal caso olandese – alle contestazioni mosse in tema di residenza fiscale delle persone giuridiche, conferma come sia essenziale che l’attività e la gestione della società incriminata possano rintracciarsi, quantomeno in maniera non irrilevante, nella sede estera42.


4. Il certificato di residenza fiscale rilasciato dall'Autorità estera: focus sulla relativa valenza probatoria in ipotesi di contestata esterovestizione

Illustrate le questioni sottese alla disciplina nazionale e, di rimando, di stampo convenzionale in tema di dual residence, vi è un altro interessante elemento da cui si ritiene non possa prescindersi laddove l’Amministrazione finanziaria contesti l’esterovestizione, vale a dire: il certificato di residenza fiscale.

Trattasi, infatti, di un documento ufficiale rilasciato dalle autorità fiscali di uno Stato estero con cui si attesta la residenza fiscale di un soggetto o di una società.

Compreso ciò, appare necessario inquadrare in che termini esso venga inquadrato dalla nostra disciplina domestica e, special modo, se vi sia una disciplina riservata con riguardo alla tematica di cui trattasi.

Orbene, partendo da un approccio normativo, il certificato estero viene richiamato nel nostro dettame normativo di stampo tributario in ben due occasioni:

  • una prima volta, dalla disciplina sull’esenzione da ritenuta per interessi e royalties “in uscita” di cui all’art. 26-quater del D.P.R. n. 600/1973;

  • una seconda, dalla disciplina sull’esenzione da tassazione per i dividendi incassati e pagati tra società italiane ed estere facenti parte del medesimo gruppo.

Come può chiaramente notarsi, non vi è alcun espresso riferimento all’impatto che il certificato di residenza fiscale possa assumere in tema di dual residence e, di converso, con riferimento al fenomeno “patologico” dell’esterovestizione.

Tuttavia, ciò non deve essere inteso come assenza di interesse da parte delle Autorità fiscali, tutt’altro.

Invero, proprio al fine di colmare questa sorta di “vulnus” normativo ed al contempo stimolarne un intervento, si è mossa l’AIDC43 partendo proprio dalla legittimità della presunzione di cui all’art. 73, co. 5-bis, del T.U.I.R..

Difatti, sostenendo che tale previsione normativa risultasse in contrasto con i principi comunitari di libertà di stabilimento, proporzionalità e non discriminazione, ha sollecitato l’intervento della Commissione Europea.

Quest’ultima, investita della questione, ha così richiesto all’Amministrazione Finanziaria di chiarire taluni aspetti; il tutto, implementando il c.d. procedimento EU Pilot/2010/777 TAXU44.

Più precisamente:

  1. In quale modo l’A.F. valuta i requisiti della residenza della maggioranza dei soci o degli amministratori ai fini della presunzione della residenza;

  2. Come il contribuente possa fornire la prova contraria ammessa dalla normativa;

  3. La predisposizione di una statistica in ordine la localizzazione in altri Stati della UE o dello Spazio Economico Europeo di società o di enti la cui residenza effettiva è stata considerata sistematicamente riconducibile in Italia;

  4. Le conseguenze pratiche derivanti dall’applicazione della normativa sulle esterovestizioni, ad esempio, in termini di sanzioni;

  5. L’efficacia probatoria del rilascio da parte delle autorità fiscali estere del certificato di residenza fiscale per contrastare e superare la presunzione di esterovestizione;

  6. La possibilità di avvalersi di strumenti di supporto allo scopo di accertare l’effettiva residenza di un soggetto estero che si taccia di essere esterovestito.

Con Note prot. n. 2010/39678 del 19.03.2010 e prot. 2010/157346 del 20.12.2010, l’Agenzia delle Entrate si è così espressa: “il certificato di residenza fiscale o altra certificazione (rilasciata dalle autorità dello Stato Membro) attestante l’assoggettabilità a imposizione nello Stato membro di stabilimento della società rilevano significativamente ai fini della prova dell’insussistenza di un attendibile collegamento con l’Italia. Tuttavia, si tratta di prova necessaria e valida, ma non sufficiente per rigettare la presunzione in questione. ... Ciò comporta che il certificato di residenza fiscale rilasciato dall’autorità fiscale dei predetti Stati certamente configura un elemento rilevante ai fini della prova della non-residenza in Italia del contribuente, ma necessita di ulteriori elementi di prova, di natura fattuale, che dimostrino che il soggetto è effettivamente amministrato al di fuori del territorio italiano”.

In sostanza, se da un lato il Fisco riconosce l’importanza probatoria di tale documentazione, al contempo esclude che sia da sé idonea per superare la citata presunzione di esterovestizione.

La dottrina, innanzi a tale presa di posizione, non è stata di certo inerme, tutt’altro45.

Ad ogni modo, preso atto delle risposte rese dall’A.F., la Commissione Europea ha ritenuto pienamente conforme al diritto comunitario la normativa italiana sulla esterovestizione.

Nello specifico, in considerazione del fatto che, come precisato dalla stessa A.F., i riscontri degli organi verificatori devono basarsi su un’analisi globale della situazione dell’impresa che non può esser condizionata, almeno in linea teorica, da una valutazione che si palesi acritica rispetto alle specificità del caso in esame, risultando così legata soltanto all’operatività di detta presunzione.

Rispetto a quanto detto, aggiungasi che la medesima A.F. si è prodigata nell’indicare quale documentazione assuma rilevanza ai fini probatori.

Nel dettaglio, si è ritenuto che per dimostrare l’effettiva residenza all’estero di una società è significativo e, perché no decisivo, valutare:

- il regolare e periodico svolgimento delle riunioni del C.D.A., di cui si potrebbe fornire la relativa documentazione a documentazione unitamente all’evidenza che le riunioni sono tenute all’estero presso la sede sociale con la partecipazione dei diversi consiglieri (ad esempio mediante delibere del C.D.A. assunte all’estero, biglietti dei viaggi, ricevute di alberghi che attestano gli spostamenti dei consiglieri dall’Italia);

- l’effettività della gestione sociale da parte dei membri del C.D.A., nel qual caso la predetta documentazione potrebbe essere rappresentata da progetti ed interventi diretti degli amministratori, volti a migliorare la performance della società estera.

Al contrario, risulterebbe alquanto penalizzante ai fini difensivi la domiciliazione della società estera – oggetto di verifica – presso società di servizi e studi legali (ad ex con sede in Inghilterra, Andorra) in quanto potrebbe costituire un indice di esterovestizione;

- l’effettivo svolgimento all’estero della gestione operativa della società, nel qual caso la documentazione probatoria, atta a dimostrare il grado di autonomia funzionale della società dal punto di vista organizzativo, amministrativo e contabile, potrebbe essere formata anche da:

  • direttive interne; contratti di natura commerciale o finanziaria;

  • corrispondenza ed altri documenti che integrano le trattative commerciali cui è orientata la strategia aziendale;

  • documentazione comprovante il corretto adempimento degli obblighi fiscali nello Stato estero;

  • qualsiasi altro documento che provi che gli atti di gestione e l’attività negoziale sono stati posti in essere a livello locale e che i dirigenti locali godono di autonomia nell’organizzazione del personale, nelle decisioni di spesa e nella stipula dei contratti.

A ben vedere, la documentazione esemplificativa stilata dall’A.F. può essere inquadrata come un vero e proprio vademecum46 che può essere letto in duplice prospettiva:

  • da un lato, una utile guida che le società estere sono invitate ad osservare per non incorrere nella presunzione di esterovestizione di cui al citato art. 73 del T.U.I.R. ma,

  • dall’altro, un ottimo strumento di difesa da poter impiegare ove l’A.F. contesti l’efficacia probatoria della documentazione prodotta dal contribuente in sede di accertamento.

E dunque, pur apprezzando lo sforzo di “orienteering” da parte dei più alti rappresentanti dell’Amministrazione finanziaria, ciò non toglie che privare il certificato di residenza rilasciato dall’Autorità di uno Stato UE la valenza intrinseca che gli è propria, non può lasciare indifferenti; tanto più in ragione dell’orientamento già proprio della C.G.U.E., sebbene concernente l’aspetto del rimborso IVA, per cui le attestazioni di residenza rilasciata da un'autorità fiscale comunitaria lasciano presumere che l'interessato vi risieda effettivamente47.

Ad ogni buon conto, che il certificato di residenza fiscale rilasciato dall’Autorità di uno Stato estero assuma senz’altro valore agli occhi del Fisco italiano, lo conferma anche una sua Prassi ufficiale, sebbene concernente il trattamento fiscale dei dividendi in uscita dall’Italia verso uno Stato UE48.

Per quanto sin qui illustrato, ciò che appare alquanto evidente attiene al fatto che la valenza probatoria del certificato di residenza fiscale estero, lungi dal rappresentare una tematica statica e ben definita, è invece una tema di forte discussione che non può che esser destinato a svilupparsi su un “terreno” ove per sua natura si staglia la contrapposizione tra visioni differenti, vale a dire quella giudiziale.

Orbene, come sovente accade per questioni che sono tutt’altro che assodate, è dato registrarsi una sostanziale dicotomia nelle decisioni assunte dai Giudici tributari.

Ma vediamo in quali termini.

La linea di confine sta propria nella vincolatività o meno della suddetta documentazione sul piano probatorio, vale a dire: se da un lato si rintracciano decisioni che attribuiscono un valore quasi pregnante al certificato di residenza fiscale estero, dall’altro ve ne sono altre che invece richiedono che sia fornita la prova dell’effettiva residenza fiscale in uno Stato estero, relegando il primo dato alle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni hanno valenza probatoria vincolante.

Di rincalzo, anche per la dottrina già interessatasi della questione, non poteva escludersi a priori la rilevanza probatoria di tale documentazione.

In contrapposizione a tale linea “garantista”, le posizioni assunte da altra parte della giurisprudenza di merito mirano verso tutt’altra direzione.

In sostanza, per il secondo orientamento giurisprudenziale, l’attestazione riportata nel certificato di residenza fiscale estera non esime comunque il contribuente dal dimostrare in maniera compiuta e convincente l’effettività di quanto formalmente rappresentato.

Un’esemplificazione di ciò, può rinvenirsi nelle più recenti pronunce assunte dalla giurisprudenza di seconde cure in cui si evince come tale attestazione non assurgerebbe altro che a dato formale e, come tale, inidoneo a dimostrare in maniera decisiva l’effettiva residenza fiscale nello Stato interessato.

Invero, il criterio oramai universalmente adottato dal Modello OCSE oltre che dalle convenzioni contro le doppie imposizioni, per individuare la residenza fiscale delle persone giuridiche è quello del place of effective management.


5. Considerazioni finali

E dunque, volendo dare una chiosa agli spunti normativi ed interpretativi sviluppati in tal sede, non si può prescindere da un punto cardine.

Ad oggi, è oramai manifesto come la tematica domestica dell’esterovestizione, ancor più di altre che parimenti risentono dell’influsso “internazionale”, non può non raffrontarsi con la regolamentazione predisposta in sede pattizia tra i vari Stati; di rimando, con riguardo alla disciplina approntata, da ultimo, con la nuova versione del Modello OCSE.

Quel che è chiaro, così come emerge dal percorso interpretativo tracciato, che il modello da privilegiare in ipotesi di dual residence è quello del c.d. case to case, così da appurare ove collocare la residenza fiscale di una persona giuridica.

Lo sforzo interpretativo, special modo offerto dalla giurisprudenza, sia interna (legittimità e di merito) oltre che unionale, è risultato senz’altro notevole.

A tal riguardo, quello che si ritiene di poter inquadrare come un vero e proprio “reviroment”, senz’altro di impatto innovativo con riguardo alla tematica dell’esterovestizione, è dato dal principio di diritto emanato nella nota vicenda Dolce&Gabbana sul concetto del “wholly artificiall arrangement”.

Affermato sotto l’egida della Suprema Corte, sino ad arrivare alle più recenti pronunce quivi richiamate, ad oggi assume una valenza importante sul versante tributario.

Unitamente a ciò, risentendo inevitabilmente del modello apportato dall’OCSE, il criterio principe assunto per dirimente le contestazioni in tema di dual residence non può che riposare su quello dettato dal place of effective management, vale a dire il luogo della direzione effettiva.

Invero, grazie al contributo offerto sul versante internazionale dal Commentario al Modello OCSE, mentre su quello prettamente nazionale dalla Prassi dell’A.F. e dalle più autorevoli decisioni assunte sul punto, la ricerca del c.d PoEM pare acquisire sempre più un denominatore comune, e cioè: concentrarsi nel luogo in cui vengono assunte le determinazioni sociali più rilevanti, in cui è posta la direzione dell'ente oltre che di convocazione delle assemblee e di accentramento dei propri organi anche in relazione ai rapporti instaurati con terzi.

Indubbiamente, se al pari di qualsivoglia altra contestazione in cui il ruolo di attore principale deve essere assolto dal Fisco, stesso dicasi, ma ad osare si potrebbe arguire anche a maggior ragione, in tema di esterovestizione ove, sul versante probatorio, è il Fisco che deve provare la sussistenza dei presupposti costitutivi della fattispecie contestata.

Cionondimeno, considerato l’approccio sostanziale che oramai viene assunto in sede giudiziale, e ferme restando le eccezioni che possono essere mosse dalla difesa in punto di diritto, non può ritenersi che il contribuente sia ex sé esentato dal sottoporre al vaglio dei Giudici tributari materiale documentale e probante atto a dimostrare l’effettività della società sita in un altro Stato e correlativamente l’infondatezza della tesi erariale.

Laddove invece si diquisisca di esterovestione a fronte di un controllo societario esercitato dalla holding italiana sulla propria controllata di diritto estero, l’onus probandi richiesto al Fisco non può essere meno rigoroso, tutt’altro.

Invero, è bene non lasciarsi trasportare dall’idea che la mera presenza di impulsi gestionali e/o direttive promananti da casa-madre, e ciò non potrebbe esser diversamente visto il ruolo e la responsabilità che la prima naturalmente va ad assumere, come previsto anche dall’art. 2497 c.c., postuli l’automatismo di ritenere che la seconda debba ritenersi senz’altro esterovestita; una siffatta equiparazione non può e non deve essere accolta tout court senza obiezioni, eventualmente spendibili nella sede ove è massima la difesa del contribuente, vale a dire innanzi ai Giudici tributari.

Meramente formale e come tale privo di forza vincolante ai fini del superamento dell’esterovestizione.

Prendendo le mosse dal primo dei due orientamenti giurisprudenziali cui si è poc’anzi accennato, è forse d’obbligo rammentare come la Suprema Corte, sebbene con una pronuncia risalente, ha attribuito valenza probatoria al certificato rilasciato dall’Aurorità estera in quanto si attestava la residenza fiscale della società in Olanda49.

Al di là di tale sentenza resa in sede di legittimità, a parere di chi scrive tale linea interpretativa ha preso maggiormente il largo sul piano della giurisprudenza di merito; non è un caso che anche la pronuncia in commento, sebbene tra le righe, abbia ribadito che sembra rintracciarsi tra i Giudici tributari un maggiroe convincimento circa la sufficienza probatoria del certificato di residenza fiscale estera.

Oltre alle varie decisioni rese in tal senso dalla più autorevole giurisprudenza di seconde cure50, riveste particolare interesse quella pronunciata da una Corte Provinciale Milanese che, sulla scorta di altre rese sempre in sede di merito, con sentenza del 27.11.2017 ha stabilito che in presenza di contestazioni sull’esterovestizione di una società, i certificati rilasciati dalle autorità fiscali estere in ragione dello scambio automatico di informazioni e delle convenzioni internazionali.


REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


COMM. TRIB. REG. PER LA TOSCANA

QUINTA SEZIONE/COLLEGIO


Svolgimento del processo

Con sentenza deliberata il 9.11.2015 e depositata il 1.2.2016, n. 89 (estensore: Francesco Terrusi), la Commissione tributaria provinciale di Lucca respinse il ricorso proposto dalla omissis, società con sede legale nel G. di L., avverso avvisi di accertamento per ires e irap 2007, 2008, 2009 e 2010.

A sostegno della decisione la Commissione di primo grado osservò, per quanto, ancora, interessa:

a) che la prima difesa della Società ricorrente, secondo la quale l'Ufficio non aveva provato il presupposto degli accertamenti impugnati (ovvero che la omissis, appartenente al gruppo di società delle quali era azionista di controllo la persona fisica di F. P., residente in V., fosse esterovestita, in quanto avente sede effettiva in V., ove, secondo l'Ufficio, F. P. svolgeva le funzioni di 'amministratore di fatto'), era infondata, "dal momento che la prova dell'essere il luogo di direzione e coordinamento della società... in V. (Via C.) si – desumeva – da quanto emergente alle pgg 4 e sg dell'avviso, giacché in quel luogo (Viareggio) sono stati rinvenuti i documenti sociali afferenti, i dati informatici e taluni significativi documenti contabili. La circostanza, d'altronde – era – confermata dalle dichiarazioni rese da F. P. alla Guardia di finanza (puntualmente menzionate nell'avviso di accertamento). E P. è pacificamente l'amministratore di fatto della società ricorrente, tanto da avere egli proposto l'opposizione giudiziale in tale qualità per conto della società accertata";

b) che la doglianza della società ricorrente, secondo la quale l'Ufficio non si era attenuto ai principi volti a impedire la doppia imposizione, era, poi, inammissibile, in quanto "del tutto generica, neppure essendo dedotto quali sarebbero, in concreto, i suddetti profili";

c) che era, inoltre, infondata l'affermazione della ricorrente secondo la quale le operazioni esaminate dall'Ufficio non avevano, in ogni caso, prodotto reddito imponibile: anche in tal caso, infatti, la censura della ricorrente non era, secondo il primo giudice, sufficientemente specifica e non superava, comunque, "i condivisibili rilievi dell'amministrazione, puntualmente spiegati alle pp. 9 e sgg. dell'avviso, oltre che nel verbale della guardia di finanza, dal momento che è pacifica l'esterovestizione della società (in base a quanto detto al superiore punto I), e dal momento che questa è stata contestata in relazione al regime fiscale più favorevole applicato all'estero. Donde l'applicazione delle imposte secondo il regime nazionale, cui la società intendeva sottrarsi a mezzo della fittizia localizzazione all'estero della residenza fiscale, è una conseguenza logica di quanto accertato in relazione alla sede effettiva. A tal riguardo risultano dimostrati, in base alle risultanze documentali di cui al verbale della guardia di finanza e al conseguente avviso di accertamento, l'esercizio di attività gestoria della contribuente, a mezzo di partecipazioni societarie, e la rilevanza di tale attività ai fini del prospetto dei redditi assoggettati a tassazione, con le relative variazioni... Ulteriore profilo di censura attiene al regime dei dividendi. La censura suppone che la rappresentazione contabile abbia avuto a base operazioni non determinative di dividendi imponibili, essendosi trattato di proventi non rivelatori di sostanza economica effettiva. La censura non merita seguito, essendo pacifico che il dato contabile è stato riscontrato in base alle movimentazioni finanziarie esposte dalla stessa società nelle scritture contabili. Dire che si trattava di "provento" non rivelatore di sostanza economica è del tutto assertorio, così come apodittica e priva di riscontro documentale è l'ulteriore affermazione della ricorrente secondo cui si sarebbe trattato di dividendo inserito in un complesso di operazioni concepite per lo specifico scopo di avere una holding italiana alla direzione del gruppo e, nel contempo, di far emergere all'esterno una certa solidità patrimoniale. Può difatti osservarsi che l'allegazione implicherebbe la prova mai data in verità di un disegno esaurito sul piano della sola apparenza contabile. Il che, anche a voler prescindere da tale considerazione (dalla considerazione cioè che niente è dato di apprezzare in merito), comunque non servirebbe, non essendo consentito vanificare la opposta rilevanza del dato contabile, che, com'è noto, fa piena prova contro l'imprenditore della cui contabilità si tratta (art. 2709 c.c.). Decisivo in senso contrario all'assunto della parte ricorrente è quindi l'univoco significato della rilevazione contabile così come riscontrata dagli organi accertatori...";

d) che era parimenti infondata, infine, la censura (subordinata) concernente l'applicazione delle sanzioni, posto che non si ravvisava alcuna, "oggettiva incertezza della normativa tributaria di diritto interno, attinente alla controversia".

Con atto depositato il 12 luglio 2016 la omissis, in persona dei suoi legali rappresentanti nonché, per quanto potesse occorrere, in persona di F. P., "quale amministratore di fatto asserito tale dell'Agenzia delle entrate ... negli avvisi di accertamento impugnati nonché dalla Guardia di Finanza ... nel processo verbale di costatazione del 25 settembre 2012", si dolse di tale pronunzia proponendo i seguenti motivi di appello:

1) erroneamente, il primo giudice aveva ritenuto esterovestita la società ricorrente: era, anzitutto, privo di ogni rilevanza probatoria, in proposito, il fatto che il ricorso fosse stato proposto anche da F. P. in persona: ciò, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non implicava di certo che F. P. ammettesse, con ciò, di essere amministratore di fatto della società ricorrente, in quanto era stato specificato, nello stesso ricorso, che F. P. rappresentava la società ricorrente "solo ai fini del presente atto e solo in quanto designato come presunto amministratore di fatto della stessa società dall'avviso di accertamento impugnato nonché nel processo verbale di costatazione del 25 settembre 2012 ..."; osservato poi che, sul merito della questione della individuazione della sede fiscale della società, doveva applicarsi la disciplina speciale recata dalla convenzione italo-lussemburghese del 3 giugno 1981, resa esecutiva con L. 14 agosto 1982, n. 747, in quanto prevalente su quella generale di cui all' articolo 75 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e che, dunque, occorreva verificare se realmente ricorressero le condizioni per l'individuazione della propria sede effettiva in Italia, l'appellante, esaminate le condizioni di fatto emergenti dagli atti, concluse per l'esclusione dell'esistenza di tali condizioni, anche alla luce della propria natura di semplice holding statica, in riferimento alla quale il dominus, F. P., si era limitato a un'attività di coordinamento e di controllo che non poteva essere confusa con quella di amministrazione e gestione: mentre, infatti, la figura dell'amministratore di fatto di una società corrispondeva, secondo l'appellante (che richiamò sul punto Cass. 11 marzo 2016, numero 4045), a quella di chi esercita sulla società stessa un'ingerenza che, 'lungi dall'esaurirsi nel compimento di atti eterogenei od occasionali, riveli carattere di sistematicità e completezza', F. P. si era limitato, in sostanza, ad esercitare, sulla Società ora appellante, così come sulle altre società del suo gruppo, la stessa attività di coordinamento e controllo che, conformemente all'espressa previsione dell'articolo 167 del Tuir, avrebbe esercitato, se fosse esistita, una ipotetica holding posta a capo del gruppo P.; “D'altro canto – osservò ancora l'appellante – non ci sarebbe stata alcuna ragione per esterovestire società nate, non con lo scopo di evadere il fisco italiano, ma, come è stato acclarato in sede penale, per ragioni familiari e con funzioni protettive del Gruppo (si veda sul punto quanto illustrato dal teste G., doc. 2). Anche in occasione della operazione straordinaria, che pure rispondeva ad interessi superiori del Gruppo, gli organi sociali hanno realmente esercitato le loro prerogative giungendo a deliberare in modo consapevole, dopo avere autonomamente disposto di munirsi di un adeguato supporto peritale, oltre a quelli già ottenuti dal Gruppo in Italia, a sostegno della congruità dei valori. In particolare, è puramente suggestiva la vicenda delle bozze predisposte in Italia per la verbalizzazione dei consigli relativi alle delibere sull'operazione straordinaria. Si trattava di verbali la cui forma espositiva e redazionale era particolarmente importante per la comunicazione in Italia alle banche; a queste, oltre che ai clienti del C., era infatti rivolto l'obbiettivo di rappresentare il reale valore della P.N., che doveva garantire praticamente da sola il pesantissimo indebitamento del gruppo. Niente di strano, pertanto, che delle bozze siano partite dall'Italia. Quel che rileva è invece che anche su questi aspetti gli amministratori delle società abbiano realmente svolto le loro funzioni, verbalizzando in termini aderenti alla determinazione assunta e quindi non coincidenti con le bozze, fatte proprie dagli organi amministrativi solo come traccia della verbalizzazione, non subite come espressione di una volontà già presa altrove e immodificabile. Per il resto, la documentazione citata dalla Guardia di Finanza dimostra solo che F. P. disponeva di informazioni sulla struttura del Gruppo e sul suo andamento economico e finanziario, cosa del tutto naturale, essendone il dominus e cosa affatto diversa dal compimento degli atti di gestione delle varie società dello stesso. Di atti gestori compiuti da F. P. non è stata trovata nessuna evidenza...";

2) erroneamente, il primo giudice aveva omesso di considerare che, anche ipotizzando, contro il vero, che la sede effettiva dell'appellante fosse in Italia, "l'evasione ugualmente non sussisterebbe: questo perché le plusvalenze e gli altri componenti positivi di reddito apparentemente prodotti dall'operazione di rivalutazione del C. non risulterebbero comunque tassabili, in quanto espressione di operazioni meramente cartolari, tutte interne al Gruppo e che non hanno comportato alcun effettivo spostamento di ricchezza al di fuori di esso né, tantomeno, sottrazione alla tassazione di ricchezza prodotta dalle società. Quanto, in particolare, alla pretesa di tassare le plusvalenze derivanti dalla rivalutazione conseguita con l'operazione ma non effettivamente realizzate, la stessa prassi dell'Amministrazione finanziaria è nel senso di contrastare le illegittime rivalutazioni fiscali, non tassando le plusvalenze nominali da rivalutazione ma disconoscendo la rilevanza della rivalutazione stessa e, quindi, il maggiore costo fiscale indebitamente ottenuto, per poi tassare pienamente le plusvalenze effettive, realizzate con la cessione finale a terzi (si vedano gli atti di adesione degli Uffici di Milano e di Prato, doc. 4). Soluzione, questa, che giova anzitutto agli interessi del Fisco, oltre a rispettare basilari principi di imposizione solo sulla ricchezza effettiva. Infatti, il Fisco è così in grado di colpire la plusvalenza che si intendeva sottrarre al prelievo quando e nella misura in cui viene realmente prodotta dalla vendita del bene, anche se l'Amministrazione non è intervenuta, e risulterebbe decaduta dal potere di accertamento, nel precedente periodo di imposta in cui si è consumata la illegittima rivalutazione .... Si aggiunga che nessun beneficio fiscale, derivante dalle incriminate operazioni, è stato in concreto goduto dalle società estere. Lo stesso Consulente tecnico della Procura riconosce che il beneficio fiscale conseguibile con la rivalutazione del C. era solo potenziale, essendo legato alla sua futura vendita che, peraltro, come è risultato nel dibattimento penale, in particolare, dalla deposizione di F. S. (doc. 5), da quella del Signor G. (pagina 31 del verbale di udienza del 16 gennaio 2016, doc. 2) e dalla email di un dirigente di U. in cui, testualmente, si legge che "M. ed altre banche di affari o fondi visitano in continuazione per fare offerte di rilevare o collocare la P. N., ma P. non ne vuole sapere" (doc. 6), non c'è mai stata perché era addirittura esclusa nella volontà di F. P.. Inoltre, in sede di controesame (doc. 7), il Consulente tecnico ha dato atto che:

a) le somme erogate dal sistema finanziario per consentire le operazioni straordinarie non erano rimaste, neppure in parte, nella disponibilità delle società, trattandosi di operazioni puramente circolari;

b) il maggior valore fiscale della partecipazione, derivante dalla rivalutazione, non ha generato costi deducibili; la duplicazione della cessione delle partecipazioni e delle plusvalenze che si assumano tassabili non risponde ad alcuna logica di risparmio fiscale;

c) gli imponibili prodotti all'estero da tutte le società del Gruppo, una volta depurati dei risultati dell'operazione straordinaria, ammontano a circa 500.000 Euro dal 2005 al 2010 e l'unico concreto beneficio fiscale si è avuto da parte della società italiana ed è generato dalla deduzione degli interessi passivi con un risparmio di imposta di Euro 2.300.163;

d) la molla dell'indagine penale fu l'ipotesi di corrispettivi non dichiarati derivanti dalla vendita delle imbarcazioni, ma dopo tutte le attività svolte non è emersa "alcuna traccia contabile di questo", né altro genere di prova né, tantomeno, di indizio.

Il solo marginale risvolto di favore dell'intera operazione è quindi consistito nella deduzione degli interessi passivi da parte della società italiana. Peraltro, benché ne avesse tutto il tempo e fosse perfettamente a conoscenza dei risultati delle indagini penali (che ha infatti impiegato per gli avvisi di accertamento notificati alle società estere), l'Amministrazione finanziaria non ha contestato questo aspetto. Sicché la deducibilità degli interessi passivi in capo alla società italiana risulta oggi definitivamente accertata come legittima .... Chiudiamo sintetizzando il quadro della realtà. La natura dei beni venduti dal C., gli importi delle transazioni commerciali e la presenza di società estere hanno destato nella Procura il terribile sospetto che all'estero si celassero prove e profitti di evasione, ma l'indagine penale ha accertato il contrario: non un Euro di evasione in decine e decine di operazioni per volumi di centinaia di milioni di Euro prodotti in quegli anni. Si è così ripiegato su una esterovestizione che sarebbe stata rivolta ad elidere i tributi sulla eventuale vendita del C. Ma F. P. aveva addirittura reso noto che non lo avrebbe ceduto, e così è stato. Il gruppo P., eccetto il C., produceva purtroppo rilevantissime perdite pari a circa 23 milioni nel periodo dal 2005 al 2010 e segnava un ingentissimo indebitamento con il nostro sistema bancario, che ha raggiunto il picco nel 2009 con una somma di oltre 230 milioni di Euro. Di qui la necessità di rivalutare il C. per sostenere le richieste di nuova finanza e di moratoria rivolte al sistema. Di qui l'ovvia constatazione che, se si fosse invece cercato una pur legittima pianificazione fiscale, la cosa più semplice da fare era rimpatriare le società estere – operazione che non avrebbe comportato oneri fiscali – per poi consolidarne le perdite con gli utili prodotti dal C. Si sarebbe così lecitamente azzerata la incidenza della tassazione in Italia e, invece, il C. in questi anni ha pagato imposte sui redditi per circa 14 milioni di Euro. dunque di assoluta evidenza che, in chiave con il suo esemplare profilo di imprenditore onesto, legato al bene delle aziende e non al tornaconto personale, F. P. non ha mai pensato al risparmio fiscale. Era piuttosto preoccupatissimo del complessivo andamento negativo del Gruppo e delle tensioni con il sistema bancario per via dei livelli altissimi raggiunti dal debito. Perciò, si è rivolto a professionisti che gli assicurassero, non di evadere imposte, né allora né nel futuro, ma di riuscire a rappresentare a clienti e banche il reale valore del C.

Si trattava: di non perdere acquirenti esposti con acconti milionari per la costruzione delle loro imbarcazioni ma garantiti solo dal nome di F. P. e dalla consistenza dell'azienda, la quale non poteva ottenere dalle banche fidejussioni da offrire ai clienti stante l'indebitamento del Gruppo; di rassicurare le banche, proprio in relazione a tale indebitamento. La rivalutazione del C., come ha illustrato il Consulente tecnico di F. P. in sede penale (doc. 8), era perseguibile senza tassazione anche con operazioni totalmente italiane, quali conferimenti e scissioni in neutralità di imposta. Dunque, la scelta per una operazione transnazionale non deriva dalla intenzione di evitare imposte domestiche ma, fondandosi sulla giusta convinzione della effettiva natura estera delle società coinvolte, risulta dettata da esigenze di rapidità e maggiore snellezza burocratica. In conclusione: non sussiste la esterovestizione ma, anche assumendo il contrario, tuttavia non vi sarebbe l'evasione contestata per la natura solo cartolare delle operazioni condotte al fine di far emergere in bilancio il valore reale del C. e per l'assenza, comunque, di alcun concreto beneficio fiscale goduto dalle società estere";

3) erroneamente (in subordine), il primo giudice aveva negato l'obiettiva incertezza della disciplina fiscale che veniva in campo in materia di esterovestizione.

Costituitasi in giudizio l'Agenzia delle entrate di Lucca contrastò l'appello avversario in fatto e in diritto, chiedendone il rigetto; a tal proposito l'Agenzia delle entrate rilevò, anzitutto, che i settori economici del Gruppo P., ovvero i settori navale, immobiliare, cartario, meccanico e biomedico, articolati, a loro volta, in diverse società operative, facevano capo, per lo più, a holding statiche aventi sede legale in L.; il settore navale, composto da società di diritto italiano dedite alla progettazione ed alla realizzazione di barche da riporto (P. N. Spa, P. N. G. Spa, C. B. Spa) faceva capo, in particolare, alle holding statiche di diritto lussemburghese M. F. SA, N. F. SA e omissis, aventi come oggetto sociale la gestione di partecipazioni (al settore immobiliare erano, poi, riconducibili sia società di diritto italiano, come la F. Spa, che di diritto lussemburghese come la S. SA e la P. SA; il settore cartario del Gruppo faceva capo a due società di diritto lussemburghese: la C. SA e la U. T. SA; il settore meccanico aveva al vertice la F. G. Spa e la L. SA, entrambe controllate dalla C. H. SA; le società del Gruppo P. riconducibili al settore biomedico erano, una, di diritto italiano, la C. Spa, e due di diritto lussemburghese, la C. I. SA e la sua controllante M. SA; vi erano, inoltre, la T. SA e la C. S. SA, entrambe società di diritto lussemburghese, non riconducibili ad un settore in particolare); l'Agenzia delle entrate osservò altresì che, ai vertici del gruppo, erano posti trust dei quali F. P. era, formalmente, il disponente (ma era stata rinvenuta una lettera inviata da F. P. all'amministratore di un trust con la quale il medesimo F. P. manifestava la volontà di essere preventivamente informato di qualunque decisione e comunicava altresì che, dopo la sua morte, le decisioni dovevano essere comunicate preventivamente al guardiano); in ogni caso, secondo l'Agenzia delle entrate, F. P., dalle sedi legali di V. della P. N. G. Spa e della F. G. Spa, poste in Via M. C., amministrava, di fatto, anche le holding lussemburghesi, tra le quali, appunto, per quanto qui interessa, la G. SA; a tale riguardo l'Agenzia delle entrate ricordò la gran mole di documenti societari, concernenti le holding lussemburghesi, rinvenute al predetto indirizzo (tra tali documenti: bilanci, contabilità, certificati, dossier contabili, piani finanziari "redatti per monitorare costantemente la situazione monetaria del Gruppo", appunti che, "in numero considerevole", attestavano "la gestione straordinaria (operazioni di riorganizzazione, fusione, scissione, incorporazione, cessazione, istituzione etc.) delle società lussemburghesi del gruppo P."; documenti extra-tributari, procure rilasciate dagli amministratori lussemburghesi a persone fisiche italiane per la partecipazione alle assemblee delle società di diritto italiano, documenti bancari che provavano il rilascio, da parte di F. P., di fidejussioni a favore delle società lussemburghesi del suo gruppo; "corrispondenza di vario genere predisposta in Italia, firmata dai soggetti formalmente amministratori delle società lussemburghesi, e così rispedita in Italia"; inoltre numerosi documenti informatici, tra i quali i "verbali del Cda delle società lussemburghesi, concernenti le operazioni di gestione straordinaria, palesemente redatti (predisposti e modificati) in Italia" nonché documenti dimostrativi di operazioni di finanziamento avvenute fra le diverse società del Gruppo P.; a sostegno della tesi che F. P. fosse, in realtà, l'amministratore di fatto della G. SA (così come delle altre holding lussemburghesi) l'Agenzia delle entrate ricordò inoltre quanto dichiarato alla Guardia di Finanza dai responsabili finanziari del gruppo, G. V. e G. M., le dichiarazioni rese da F. S., nonché quelle dello stesso F. P. ("... sicuramente il luogo di comando, ovvero le direzioni, il controllo e la gestione avviene da Viareggio ... io non sapevo chi amministrava le società lussemburghesi a me riconducibili e quali compiti svolgessero..."); l'Agenzia delle entrate eccepì, inoltre, nelle sue controdeduzioni, l'inammissibilità, per novità, degli argomenti dell'appellante, non formulati in primo grado, volti a distinguere tra coordinamento e controllo del gruppo, da una parte, e vera e propria gestione delle società, dall'altra; tali argomenti erano, comunque, anche infondati nel merito, considerata, tra l'altro, l'irrilevanza delle risultanze del processo penale, che la controparte aveva cercato di introdurre nel presente giudizio; erano poi infondate, secondo l'Agenzia delle entrate, le tesi dell'attuale appellante in base alle quali la plusvalenza derivante dalla rivalutazione del C. non sarebbe stata, comunque, tassabile, non avendo comportato alcun effettivo spostamento di ricchezza: l'Amministrazione sostenne, infatti, in proposito, che il reddito imponibile fosse stato determinato considerando i bilanci prodotti dalla società medesima e applicandovi le variazioni previste dalla normativa italiana; per quanto concerneva i dividendi era stata la stessa appellante ad averli inseriti nel proprio bilancio e dunque ad averli considerati come un elemento positivo; era vero che sarebbe stato possibile scegliere tra diverse modalità di effettuazione dell'operazione complessiva di cui si tratta ma solo la modalità effettivamente prescelta dalla attuale appellante aveva permesso alla stessa "di ottenere molteplici effetti sul piano contabile, finanziario e fiscale, ossia: evidenziare, nell'attivo patrimoniale della P. N. G. Spa, i plusvalori latenti relativi alle partecipazioni acquisite, mediante indebitamento (con il conseguente pagamento di interessi passivi), nonché rilevare una plusvalenza in capo alla società cedente (N. F.), in modo tale da generare un utile poi distribuibile sotto forma di dividendo (come effettivamente è avvenuto, a favore della società G.)"; negare l'effettività economica dell'operazione sarebbe equivalso, secondo l'Agenzia delle entrate, a considerare mendaci i bilanci che tali valutazioni avevano recepito: "anche la semplice rivalutazione di un cespite genera base imponibile, pur non dando vita a uno scambio con terze economie"; e, in ogni caso: "anche quando le operazioni effettuate generassero un impatto finanziario nullo sul conto corrente, non si possono considerare quali mai avvenute o avvenute soltanto dal punto di vista formale, in quanto, comunque, ognuno di essi ha comportato una variazione istantanea del saldo disponibile e ha pertanto inciso sulla determinazione del saldo finale del conto corrente"; infondato era infine, secondo l'Agenzia delle entrate, il motivo d'appello teso alla disapplicazione delle sanzioni, per la quale mancavano certamente le condizioni di legge.

Nel corso del presente giudizio d'appello entrambe le parti depositarono memorie illustrative nonché ulteriori documenti, fra i quali hanno particolare rilevanza la sentenza penale della Corte d'appello di Firenze 11 v 2018, n. XXX, con la quale, in riforma della sentenza impugnata del Tribunale di Lucca, F. P., con tutti i coimputati, era stato assolto, "perché i fatti non sussistono", da tutti i reati –pertinenti alla stessa materia fiscale che è oggetto del presente giudizio – che erano stati loro ascritti e la sentenza della Corte di cassazione, 6 v 2019, n. XXX, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto, contro la predetta sentenza d'appello, dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Firenze. Proc. n. 585/2018 Con sentenza deliberata il 20.6.2017 e depositata il 26.7.2017, n. 349 (estensore: Antonio Del Forno), la Commissione tributaria provinciale di Lucca respinse i ricorsi proposti dalla G. SA e da F. P. avverso gli avvisi di intimazione che l'Agenzia delle entrate di Lucca aveva emesso, in conseguenza della sentenza di rigetto della Commissione tributaria provinciale di Lucca 1.2.2016, n. 89 (oggetto di appello nel proc. n. 1814/2016), per ires e irap 2007, 2008, 2009 e 2010.

A sostegno della decisione il primo giudice osservò che l'eccezione sollevata dai ricorrenti, secondo la quale la notifica degli atti era avvenuta in un luogo (Via M. C., XX., V.) e a persona (F. P.) privi di attinenza con la società G., destinataria degli avvisi stessi, era infondata, in quanto la citata sentenza della Commissione tributaria di Lucca n. 89/2016 aveva riconosciuto che la Società G. aveva sede effettiva in V., alla Via C., XX, e che F. P. doveva considerarsi amministratore di fatto della società stessa; il concetto di inesistenza della notificazione, invocato dai ricorrenti, doveva, del resto, considerarsi superato alla luce della più recente giurisprudenza della suprema corte. Con atto depositato il 23 marzo 2018 la G. SA, in persona del legale rappresentante nonché, per quanto potesse occorrere, in persona di F. P., "quale amministratore di fatto asserito tale dell'Agenzia delle entrate ... nelle intimazioni di pagamento impugnate nonché dalla Guardia di Finanza ... nel processo verbale di costatazione del 25 settembre 2012", si dolse di tale pronunzia proponendo i seguenti motivi di appello:

1) erroneamente, il primo giudice aveva ritenuto di poter fondare il giudizio di regolarità delle notificazioni degli avvisi di intimazione dei quali si trattava su un presupposto ancora sub judice, in quanto risultante, non già da una sentenza passata in giudicato, bensì da una sentenza contro la quale era stato proposto appello: in tale situazione il primo giudice avrebbe dovuto, al più, sospendere il giudizio ai sensi dell'articolo 295 del codice di procedura civile in attesa del passaggio in giudicato della sentenza in questione;

2) né la G. era, in realtà, una società esterovestita né F. P. ne era il suo amministratore di fatto;

3) le notificazioni in discorso non potevano, comunque, ritenersi "ex lege eseguite", secondo la formula utilizzata dalla sentenza delle sezioni unite della suprema corte n. 14.917/2016, in quanto, in realtà, la società G. non aveva mai ricevuto la raccomandata informativa prevista dall'articolo 60, I comma, lettera b bis, del D.P.R. n. 600 del 1973 né quella prevista dalla L. n. 890 del 1982.

Costituitasi in giudizio l'Agenzia delle entrate di Lucca contrastò l'appello avversario in fatto e in diritto, chiedendone il rigetto.

I procedimenti riuniti.

All'udienza del 13.1.2020 la Commissione, riuniti i due procedimenti e udite le parti, ha deliberato la presente sentenza.

Motivi della decisione

1) I procedimenti riuniti dei quali si tratta vanno definiti alla luce delle seguenti considerazioni:

a) è opportuno, anzitutto, considerare la sentenza penale, già ricordata in narrativa, 11 v 2018, n. XXX, della Corte d'appello di Firenze, passata in giudicato, con la quale F. P. è stato assolto, "perché i fatti non sussistono", da accuse penali sostanzialmente coincidenti con i rilievi tributari dei quali si tratta nei presenti giudizi; la Corte d'appello, in particolare, è pervenuta alla decisione assolutoria sulla base delle seguenti motivazioni: "Gli appelli sono fondati, per un profilo oggettivo che appare assorbente rispetto ad ogni altra considerazione soggettiva: non risulta cioè provata la cosiddetta esterovestizione, cioè la costituzione di società formalmente lussemburghesi ma con sede effettiva in Italia, al fine di evadere le imposte. In effetti, la sentenza impugnata, pur se articolata e complessa, sembra non avere considerato adeguatamente tale fondamentale aspetto. In primo luogo, i principi interpretativi in materia sono ormai univoci, chiari e consolidati. Di primaria rilevanza, in tale prospettiva, è la sentenza della Corte di Cassazione n. 43809 del 2014 (cd sentenza Dolce e Gabbana), che, pur giudicando su una situazione di fatto non completamente sovrapponibile a quella in esame, ha definito alcuni princìpi che devono essere considerati anche in questa sede. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che deve essere accertato secondo le regole probatorie del processo penale (e non con le presunzioni applicabili solo nel procedimento tributario) se il domicilio fiscale estero sia una costruzione di puro artificio o, invece, corrisponda a una entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o statuto. In tale prospettiva, la circostanza che una società venga creata in uno stato Europeo per fruire di una legislazione fiscale più vantaggiosa non costituisce abuso della libertà di stabilimento, né può ritenersi sussistente, per ciò solo, una presunzione generale di frode fiscale. In effetti, la costituzione di società aventi sede all'estero, nell'ambito di un gruppo societario complesso e di notevole consistenza, può avere anche la finalità di adeguare la struttura societaria a nuove esigenze strategico-operative. Tale operazione, pur garantendo vantaggi fiscali ingenti, appare del tutto lecita. Inoltre, la strategia di mercato dei gruppi di imprese non può essere valutata in modo analogo a quella dell'imprenditore singolo, che finalizza l'attività al conseguimento di redditività in tempi brevi: dovrà invece svolgersi un'indagine analitica inerente l'esistenza di ragioni organizzative, strutturali e funzionali. Anche la Corte di Giustizia Europea ha più volte evidenziato che, "a un soggetto passivo che ha la scelta tra due operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica una maggiore imposta". Al contrario, il soggetto passivo ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale. E ancora: "il vantaggio fiscale non è un indebito solo perché l'imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale, diviene tale solo ove lo ottenga attraverso situazione di puro artificio" (Sent. B.G., C.F.I.). I criteri interpretativi sopra delineati diventano di ancora più delicata applicazione nel caso – come quello qui giudicato – delle cosiddette holding statiche, cioè di soggetti giuridici che non operano (a differenza delle holding miste) alcuna attività di direzione e coordinamento e non sono dotate di una significativa struttura organizzativa. A tale riguardo, la sentenza della Cass. civ., V sez., n. 27113 del 2016, ha ribadito con forza la necessità di considerare adeguatamente la peculiare natura di tali società, affermando che, di per sé stessa, una struttura quale la holding statica non può rappresentare un limite all'esercizio del diritto comunitario di stabilimento, e quindi al riconoscimento della qualifica dì beneficiario effettivo. Tale limite sembra tra l'altro superato dalla stessa prassi dell'amministrazione finanziaria, che, con la Circolare n. 40/E del 26 settembre 2016 (recante disposizioni in materia di nuovo consolidato fiscale), ha confermato la genuinità di strutture holding (residenti in Stati membri o in Paesi aderenti allo Spazio economico Europeo) che svolgono un'effettiva attività economica, rinnovando il precedente orientamento riportato dalla Circolare n. 32/E dell'8 luglio 2011, che definiva invece le holding statiche come "holding che si limitano a detenere partecipazioni e ad incassare i relativi frutti, senza svolgere attività alcuna ... ed il cui stabilimento nell'altro Stato membro potrà essere considerato come una costruzione di puro artificio". In definitiva, è fisiologico che una holding statica non presenti indicatori di operatività (in termini di struttura organizzativa, costi gestionali, crediti da attività operativa o fatturazione per servizi gestionali prestati a favore della controllata), mentre una corretta valutazione dovrebbe tenere in considerazione natura e funzioni proprie di una holding statica, con specifico riguardo alla padronanza e autonomia della stessa in relazione alla "adozione delle decisioni di governo e indirizzo delle partecipazioni detenute" ed al "trattamento e impiego dei dividendi percepiti". Nel caso esaminato dalla decisione sopra richiamata, i giudici tributari di prime cure avevano considerato la società estera una mera scatola vuota, priva di sostanza economica, costituita al solo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali, tenuto conto che la stessa non possedeva alcuna struttura materiale in termini di uomini, mezzi e attrezzature.

La Suprema Corte, cassando l'orientamento espresso da parte dei giudici di merito, non ha accolto tale ricostruzione in quanto, in caso di holding o sub-holding statiche, la carenza di una struttura materiale, normalmente presente in una società operativa, non appare significativa. Per le holding statiche, ciò che rileva è infatti l'attività tipica svolta dalle stesse normalmente riconducibile alle attività di mero indirizzo e direzione unitaria, alla partecipazione alle assemblee delle controllate e alla riscossione dei dividendi. Sotto il profilo della residenza fiscale, con riferimento al requisito della direzione effettiva (articolo 73, comma 3, del Tuir), secondo i supremi giudici non si può parlare di fittizietà della sede estera (in quel caso francese), in quanto la stessa società aveva sede legale e amministrativa in Francia, era assoggettata a imposizione in quel paese, gli amministratori persone fisiche risedevano in Francia e nello Stato francese venivano prese le fondamentali decisioni concernenti la società. In conclusione, ciò che è necessario verificare è il luogo di effettiva adozione delle decisioni e delle direttive amministrative e di coordinamento delle partecipazioni possedute dalla società madre percipiente, secondo l'attività tipica di holding da quest'ultima esercitata. La pronuncia della Cassazione si inserisce quindi in un ormai consolidato panorama giurisprudenziale che dà sempre maggiore risalto alla sufficienza probatoria del certificato fiscale di residenza fiscale esibito dalla holding estera che percepisce i flussi, nel pieno rispetto del principio comunitario della libertà di stabilimento. Applicando dunque tali principi interpretativi alla vicenda in esame, si impone con evidenza la circostanza che le società lussemburghesi erano state costituite già molti anni prima rispetto ai fatti contestati nelle imputazioni. quindi ben possibile, ed anzi verosimile, che tali società fossero state costituite, non al solo fine di evasione fiscale, ma nell'ambito di una scelta organizzativa riguardante il gruppo nel suo complesso: in tale prospettiva, il conseguimento (anche) di benefici fiscali non poteva integrare i reati contestati ...";

b) riguardo alla motivazione della sentenza penale che si è, in gran parte, trascritta sub a e riguardo, segnatamente, all'ultimo periodo di tale testo, ove si legge: "quindi ben possibile, ed anzi verosimile, che tali società fossero state costituite, non al solo fine di evasione fiscale...", è ovvio, a parere della Commissione, che, contrariamente a quanto si legge negli atti difensivi depositati dall'Agenzia delle entrate nel presente giudizio, la Corte non abbia affatto, con le parole in questione, inteso ammettere – o dare per scontato – che le holding lussemburghesi in questione fossero state costituite anche al fine di evasione fiscale ma abbia, solo e semplicemente, voluto escludere che la tesi erariale, riassunta, appunto, in quella formula (ovvero nell'affermazione che "tali società fossero state costituite... al solo fine di evasione fiscale"), fosse corretta, posto che, invece, secondo la Corte stessa, l'imputato F. P. era stato mosso a quella scelta da ragioni organizzative nel cui ambito "il conseguimento (anche) di benefici fiscali" (e non certo il conseguimento dell'evasione) non poteva ritenersi illecito;

c) la giurisprudenza fa, unanimemente, derivare dal combinato disposto degli articoli 654 del codice di procedura penale (a tenore del quale "la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo ... purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa") e 20 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (che pone la cd "regola del doppio binario"), l'impossibilità di far valere nei modi tipici e assoluti dell'articolo 2909 del codice civile il giudicato penale nel processo tributario avente ad oggetto gli stessi fatti; va rilevato, tuttavia, che, pur dovendosi, quindi, escludere, in tali frangenti, il riconoscimento di un'efficacia, per così dire, automatica, nel giudizio tributario, alla res judicata penale di assoluzione dal reato tributario, la giurisprudenza le riconosce però una non irrilevante valenza, costituita dall'obbligo, per il giudice tributario, di prendere in esame la sentenza penale passata in giudicato per vagliarne le affermazioni, discostandosene solo per motivate ragioni, ovvero, in sostanza, nei casi nei quali l'atto impositivo emesso nei confronti dell'imputato, poi assolto (anche con formula piena) in sede penale (ovvero emesso nei confronti del soggetto rappresentato dal predetto imputato), risulti fondato "su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario" (così leggesi, ad esempio, in Cassazione civile, sez. VI, 28/6/2017, n. 16262; cfr anche, da ultimo, Cassazione civile, sez. trib., 27/6/2019, n. 17258, con la quale la suprema corte accolse il corrispondente motivo di ricorso proposto dal contribuente (con conseguente cassazione della sentenza impugnata) semplicemente rilevando, sul punto, che "la CTR emiliana era ... tenuta a valutare specificamente, ancorché al fine della formazione del proprio "libero convincimento", la sentenza penale assolutoria degli amministratori delle società del "gruppo T.", mentre ne ha totalmente omesso l'esame"; v. anche Cass. 5/7/2018 n. 17619, ove leggesi tra l'altro: "... stante l'evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio... ");

d) è necessario, dunque, al fine di procedere correttamente alla definizione del presente giudizio tributario, individuare preliminarmente in concreto e con precisione il contenuto della res judicata penale – avente, nel giudizio tributario, la valenza sopradescritta – recata dalla sentenza della Corte d'appello di Firenze; a tale riguardo va, anzitutto, osservato, che la predetta sentenza è passata in giudicato a seguito della pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione – ritenuto affetto da vizio processuale intrinseco – proposto, contro di essa, dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Firenze; discende, da ciò, che le considerazioni critiche, che si leggono nella sentenza di cassazione, riferite alla motivazione della sentenza di cui trattasi, oggetto del ricorso per cassazione (considerazioni che, per la verità, sembrano frutto di un fraintendimento) costituiscono obiter dicta i quali, secondo i principi generali valevoli in subjecta materia, sono, come tali, del tutto irrilevanti ai fini della determinazione della res judicata stessa (che ciò costituisca un principio valevole anche nell'ambito penale è, in giurisprudenza, pacifico: vedi, per esempio, da ultimo, Cassazione penale sez. II, 11/4/2019, n. 26011, ove si legge tra l'altro: "... In altri termini, lungi dal costituire un obiter irrilevante, la frase con cui si conclude la scheda relativa ai MU. delimita con incontrovertibile chiarezza l'ambito delle condotte di detenzione e spaccio per cui, ad avviso del Gup, è stata ritenuta provata la responsabilità degli imputati ..."; quanto al principio generale, valevole in ogni ramo del diritto, dell'irrilevanza degli obiter dicta ai fini dell'individuazione della res judicata, cfr, ex plurimis, Cassazione civile, sez. II, 8/2/2012, n. 1815: "Il giudicato si forma, oltre che sull'affermazione o negazione del bene della vita controverso, sugli accertamenti logicamente preliminari e indispensabili ai fini del deciso, quelli cioè che si presentano come la premessa indefettibile della pronunzia, mentre non comprende le enunciazioni puramente incidentali e in genere le considerazioni estranee alla controversie e prive di relazione causale col deciso. L'autorità del giudicato è circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione della pronunzia giudiziale, diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande proposte, sicché ogni affermazione eccedente la necessità logico-giuridica della decisione deve considerarsi un obiter dictum, come tale non vincolante");

e) in riferimento alla pronuncia penale di cui si tratta, della Corte d'appello di Firenze, la Commissione rileva, preliminarmente, che essa risulta, in concreto, fondata su elementi probatori i quali hanno senz'altro, per loro natura, piena cittadinanza anche nei giudizi tributari; di converso non risulta che, in concreto, la vicenda in esame presenti spunti di presunzioni semplici non potute utilizzare dal giudice penale ma utilizzabili, invece, in sede di giudizio tributario;

f) la Commissione condivide, in concreto, le considerazioni svolte e le conclusioni tratte dalla citata sentenza penale della Corte d'appello di Firenze, passata in giudicato: a tal proposito va subito rilevato che non possono essere condivise le osservazioni della difesa erariale secondo le quali i principi affermati nella sentenza penale "Dolce e Gabbana", richiamata dalla Corte d'appello a sostegno della propria decisione, (Cass. pen., sez. III, 24 x 2014, n. 43809), non sarebbero invocabili nel presente giudizio data la diversità delle fattispecie: è vero che nel caso "Dolce e Gabbana" le questioni avevano ad oggetto una holding capo-gruppo avente sede all'estero, mentre qui si tratta di un gruppo, organizzato in holding statiche di settore, facente capo a una persona fisica residente in Italia: la diversità della situazione di fatto non consente, però, a parere della Commissione, di considerare concettualmente estranei alla presente fattispecie i principi generali affermati in quella occasione dal supremo collegio; fra tali principi rileva qui, tra l'altro, quello per il quale "la sede amministrativa dei soggetti diversi dalle persone fisiche rilevante ai fini della individuazione del "domicilio fiscale" ai sensi dell'art. 59, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973, si identifica nel centro effettivo di direzione e di svolgimento della sua attività, ove cioè risiedono gli amministratori, sia convocata e riunita l'assemblea sociale, si trovino coloro che hanno il potere di rappresentare la società, il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l'accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività dell'ente e nel quale, dunque hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti"; la stessa sentenza ha, inoltre, condivisibilmente affermato che, "in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell'art. 2359, comma 1, c.c., non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l'individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative ove esso si identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana. In tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia una costruzione di puro artificio, ma corrisponda ad un'entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto": il fatto che, nel presente caso, il soggetto controllante non sia costituito da una società, come nelle ipotesi (richiamate nella massima) di cui all'articolo 2359 del codice civile, ma si identifichi in una persona fisica, non fa venir meno, secondo la Commissione, il valore del principio di diritto riguardante le caratteristiche che le società estere controllate da un soggetto italiano debbono avere per poter essere definite esterovestite;

g) le regulae juris sopra ricordate sono state confermate, in sede dei giudizi tributari aventi ad oggetto gli stessi fatti, da Cassazione, sez. trib., 21 dicembre 2018, n. 33234 ("Per determinare il luogo della sede dell'attività economica di una società occorre prendere in considerazione un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell'amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società; possono essere presi in considerazione, tuttavia, anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie. Nel caso, poi, di società con sede legale estera controllata da società con sede nel territorio nazionale, non è criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l'individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative qualora esso di identifichi con la sede della società controllante italiana, atteso che è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costituzione di puro artifizio, ma corrisponda ad una entità reale che svolga effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo ed al proprio statuto" e da Cassazione civile, sez. trib., 21/12/2018, n. 33235 ("... una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa soltanto se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato ...; perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale...; quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l'operazione sia meramente artificiosa ( wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica .... Viene altresì in rilievo la Convenzione tra Italia e Lussemburgo intesa a evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio ed a prevenire la frode e l'evasione fiscali, firmata il 3 giugno 1981 e ratificata e resa esecutiva con la L. 14 agosto 1982, n. 747 .... Le due discipline, quella interna e quella pattizia, a ben vedere, sono sostanzialmente equivalenti... La nozione di "sede dell'amministrazione"..., in quanto contrapposta alla "sede legale", si deve ritenere coincidente con quella di "sede effettiva" (di matrice civilistica), intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente; laddove il criterio calibrato sull'oggetto principale identifica il luogo in cui si concretizzano gli atti produttivi e negoziali dell'ente nonché i rapporti economici che esso intrattiene con i terzi... In applicazione di questi principi, con riferimento al versante penale della medesima vicenda in esame, la terza sezione penale di questa Corte (con sentenza 24 ottobre 2014, n. 43809) ha stabilito, in generale, che, in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell'art. 2359 c.c., comma 1, non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l'individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative qualora esso s'identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un'entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto...");

h) l'applicazione alla fattispecie oggetto del presente giudizio dei principi affermati dalla SC nella sentenza penale e nelle sentenze tributarie sopra richiamate, condivisi in toto dalla Commissione, porta, de plano, ad escludere che la G. SA possa considerarsi società esterovestita: infatti:

I) gli organi statutari della Società in questione hanno, sempre, regolarmente provveduto a svolgere, nella sede deputata, le attività amministrative e di gestione della Società stessa, come risulta dai numerosi verbali depositati dalla attuale appellante: è escluso, quindi, che la G. SA sia una "costruzione di puro artificio";

II) l'eccezione, proposta dalla Agenzia delle entrate nelle sue controdeduzioni, di inammissibilità, per novità, degli argomenti dell'appellante, non formulati in primo grado, volti a distinguere tra coordinamento e controllo del gruppo, da una parte, e vera e propria gestione delle società, dall'altra, è manifestamente infondata, posto che le difese in questione fanno leva su qualificazioni giuridiche che il giudice può sempre, anche d'ufficio, attribuire (e la parte, quindi, sollecitare), e non poggiano per nulla su fatti nuovi (ciò che, solo, ne avrebbe determinato l'inammissibilità); ugualmente infondato è poi l'argomento della difesa erariale secondo il quale la proposizione dell'originario ricorso, e poi dell'appello, da parte di F. P. "in qualità di amministratore di fatto" della G. implicava il riconoscimento di tale qualità da parte del medesimo F. P.: basti dire, sul punto, che F. P. ha specificato, in entrambi gli atti de quibus, che la qualifica in questione era, semplicemente, asserita dalla Agenzia delle entrate (oltre che dalla Guardia di Finanza): dunque non vi è mai stata alcuna ammissione in tal senso (fermo restando che F. P. avrebbe avuto legittimazione a impugnare gli atti dei quali si tratta anche personalmente, essendo pacifico, in giurisprudenza, "l'interesse di colui che nell'atto impositivo sia stato indicato come rappresentante della società a far valere l'illegittimità dell'atto, in quanto tale indicazione può risultare a lui pregiudizievole": così, da ultimo, Cassazione civile, sez. VI, 9/7/2014, n. 15742);

III) la predisposizione in V. di alcune deliberazioni non costituisce, in concreto, valido argomento a favore della tesi della esterovestizione, posto che quelle deliberazioni erano, di fatto, volte alla realizzazione di una finalità (dare ossigeno finanziario all'intero Gruppo P. attraverso la valorizzazione del C.) che trascendeva la vita ordinaria delle singole società del Gruppo; esse dovevano, quindi, necessariamente coordinarsi tra loro nell'ambito di una strategia complessiva riguardante l'intero Gruppo; tale strategia, in mancanza di una holding di gruppo, era ovvio che dovesse far capo, personalmente, a F. P., quale socio di maggioranza delle società del Gruppo stesso;

IV) di là delle parole usate da F. P. nella dichiarazione da lui resa alla Guardia di Finanza (parole che non possono costituire una – giuridicamente impossibile –confessione in jure), non risulta, obiettivamente, che il medesimo abbia mai posto in essere, riguardo alla G. SA, attività giuridicamente inquadrabili nelle categorie della amministrazione o della gestione, avendo, invece, svolto attività certamente pertinenti al coordinamento e al controllo dell'intero Gruppo, inquadrabili, in astratto, non nella categoria delle attività tipiche dell'amministratore di una società bensì, in ipotesi, nell'attività tipica di una holding di gruppo (figura, in concreto, inesistente nel Gruppo P.); il fatto che F. P. sia stato colto nel possesso di una "gran mole" di documenti societari concernenti le holding lussemburghesi (tra tali documenti: bilanci, contabilità, certificati, dossier contabili, piani finanziari "redatti per monitorare costantemente la situazione monetaria del Gruppo" e altri documenti riguardanti "la gestione straordinaria (operazioni di riorganizzazione, fusione, scissione, incorporazione, cessazione, istituzione etc.) delle società lussemburghesi del gruppo P."), dimostra solo che F. P. esercitava effettivamente il coordinamento e il controllo delle sue società, ma non che le amministrasse; né è indicativo di un'attività propriamente amministrativa il possesso, da parte di F. P., di procure rilasciate dagli amministratori lussemburghesi a persone fisiche italiane per la partecipazione alle assemblee delle società di diritto italiano e, men che meno, il possesso dei documenti relativi al rilascio, da parte sua, di fidejussioni a favore delle società lussemburghesi del suo gruppo; attiene, ancora, alla funzione di coordinamento del gruppo, e non a quella di amministrazione delle singole società, il possesso della documentazione relativa a una serie di operazioni eccedenti la sfera di ogni singola società e manifestamente riconducibili alla strategia complessiva del gruppo stesso;

V) lo svolgimento, da parte di F. P., delle funzioni di amministratore di fatto in riferimento a tutte le sue società lussemburghesi, tra le quali la G. SA, non solo difetta di qualunque, specifica prova, ma è anche, già sul piano astratto, un'attribuzione impossibile, non essendo predicabile che una sola persona abbia la capacità di amministrare, da sola, così tante società;

VI) il fatto, richiamato dall'Agenzia delle entrate nelle sue controdeduzioni, che, in relazione ai trust istituiti da F. P. e dal medesimo posti ai vertici del Gruppo, F. P., formalmente solo disponente, esercitasse di fatto poteri eccedenti la sua veste formale appare del tutto irrilevante ai fini probatori perseguiti dall'Amministrazione;

i) adunque, esclusa l'esterovestizione della G., il primo motivo dell'appello proposto nel proc. n. 1814/2016 risulta, conseguentemente, fondato: assorbiti, di conseguenza, gli ulteriori motivi d'appello, l'appello stesso deve, quindi, essere accolto, con conseguente accoglimento del ricorso e conseguente annullamento degli avvisi di accertamento impugnati;

l) poiché l'emissione della cartella relativa al pagamento delle somme dovute ex art. 68, I co., del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non presuppone la definizione irrevocabile della controversia di merito ma solo l'emissione della sentenza di I grado che abbia, in tutto o in parte, respinto il ricorso del contribuente, è escluso che il giudizio di cui al proc. n. 1814/2016 possa essere definito pregiudiziale rispetto al proc. n. 585/2018 (cfr, in termini, ex multis, Cassazione civile, sez. trib., 29/11/2017, n. 28595); tuttavia è anche vero che l'accoglimento del ricorso proposto, nel merito del rapporto tributario, dalla parte contribuente determina, ai sensi del II comma del citato art. 68 (norma pacificamente applicabile, per l'eadem ratio, anche alle sentenze di accoglimento delle Commissioni regionali: v., sul punto, inter alia, la circolare dell'Agenzia delle entrate n. 49/E, del 1 ottobre 2010), l'obbligo restitutorio dell'Amministrazione e, a fortiori, in caso di non ancora avvenuto pagamento, la paralisi del credito tributario dell'Amministrazione; dunque, a seguito dell'accoglimento dell'appello riguardante il merito del rapporto, viene meno il credito recato dalle cartelle de quibus dovendo, il rapporto inter partes, essere regolato, per facta superventa, sulla base dell'apposita norma di legge sopra richiamata, che inabilita l'Amministrazione ad ulteriori riscossioni e, anzi, la obbliga alle eventuali, conseguenti restituzioni;

m) è necessario, tuttavia, ai fini delle spese riguardanti il proc. n. 585/2018, esaminare il punto della soccombenza virtuale: essa va, certamente, attribuita all'Amministrazione, considerato che la cartella in questione era stata notificata a F. P. quale amministratore di fatto della G., mentre, in realtà, non solo F. P., come sopra accertato, non possedeva tale qualità, ma, inoltre, la notificazione in questione sarebbe stata nulla perfino nell'ipotesi in cui F. P. fosse stato realmente amministratore di fatto della predetta società, non comportando, tale qualità, alcuna rappresentanza sociale, in presenza di amministratori della G. SA individuabili secondo la legge civile (cfr, sul punto, fra le ultime, Cassazione civile, sez. VI, 9/7/2014, n. 15742: "In materia societaria, l'art. 145 c.p.c. e l'art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, prevedono che la notifica alle persone giuridiche avvenga mediante consegna alla persona che rappresenta l'ente (ovvero ad altri soggetti legittimati indicati dalle norme), per cui l'avviso di accertamento nei confronti di una società di capitali non può essere notificato all'amministratore di fatto, che non rappresenta la società, ancorché (eventualmente) la gestisca, trovando tale soluzione conferma nell'art. 62 del citato D.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui solo ove la rappresentanza dei soggetti diversi dalle persone fisiche non sia determinabile secondo la legge civile essa è attribuita, ai fini tributari, alle persone che ne hanno l'amministrazione anche di fatto").

2) In definitiva, dunque, entrambi gli appelli riuniti vanno accolti, con conseguente annullamento degli avvisi di accertamento e delle intimazioni di pagamento impugnati.

3) Le spese dei due gradi di giudizio relative a entrambi i procedimenti riuniti, spese che si liquidano come in dispositivo, seguono la soccombenza dell'Amministrazione.

P.Q.M.

la Commissione tributaria regionale di Firenze, V Sezione, accoglie gli appelli riuniti e, per l'effetto, annulla gli avvisi di accertamento e le intimazioni di pagamento; condanna l'Ufficio al rimborso delle spese di entrambi i gradi di giudizio, liquidate in complessivi Euro 7000, oltre iva e accessori.

Così deciso in Firenze, il 13 gennaio 2020.

1 Ne promana un monito in tal senso da parte della più recente giurisprudenza di legittimità che, occupandosi di un caso di fatture per operazioni inesistenti, ritiene che cfr. Cass., Sez. V, Sent. n. 20579 del 29.09.2020:Pertanto, in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti, se, da un lato, non è consentita la deducibilità dei costi sostenuti, d’altro lato, può assumere rilevanza l’intervenuta pronuncia, in sede penale, che esclude la sussistenza dei fatti di reato dai quali è derivata la prospettazione della non deducibilità dei costi. Si tratta, pertanto, di una questione che incide sulla stessa non deducibilità dei costi, profilo che sta a monte dell’eventuale diritto al rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione. È, dunque, necessario che il giudice del merito accerti se la condotta oggetto di esame in sede di giudizio penale sia riferibile a quella oggetto di contestazione nel presente giudizio”.

2 Cfr. Cass., sez. III, n. 43809 del 30.10.2015 con cui si statuisce che “Il punto, infatti, non è questo, ma verificare se a tale "ufficio" corrisponda una "costruzione di puro artificio" volta a lucrare benefici fiscali oppure no. "Costruzione artificiosa" e "indebito vantaggio fiscale" vanno di pari passo: il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l'imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più conveniente legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se è ottenuto attraverso situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio che rendono conseguentemente "indebito" il vantaggio fiscale”.

3 In tal senso, sul versante tributario della contestazione mossa a Dolce&Gabbana cfr. Cass., Sez. V, Sent., n. 33234 del 21.12.2018, ove “in applicazione di questi principi, con riferimento al versante penale della medesima vicenda in esame, la terza sezione penale di questa Corte (con sentenza 24 ottobre 2014/30 ottobre 2015, n. 43809) ha stabilito, in generale, che in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359 c.c. comma 1, non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l'individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative qualora esso s'identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un'entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto.

6.1. - In particolare, la Corte ha svalutato la rilevanza della mancanza di autonomia gestionale e finanziaria delle dipendenti addette in successione alla sede della GADO, che agivano in base a direttive provenienti da Milano e veicolate dalle e-mail sulle quali punta anche la Commissione tributaria regionale della Lombardia.

E ciò sia alla luce della necessità d'interpretare le informazioni ricavabili dalle e-mail in base al complesso intreccio organizzativo e funzionale che intercorre tra una controllata e la sua controllante capo-gruppo, che fisiologicamente si risolve in un rapporto tra uffici e personale dell'una e dell'altra, sia perchè "resta difficile comprendere quale autonomia gestionale e finanziaria dovessero avere due semplici dipendenti per poter qualificare l'insediamento lussemburghese in termini di effettiva realtà. Una valutazione di tale natura avrebbe avuto un significato coerente se oggetto ne fosse stata l'attività del legale rappresentante (eventualmente "eterodiretto"... Si comprende, in realtà, che dietro quel ripetuto richiamo alla mancanza di autonomia gestionale e finanziaria si cela l'ispirazione di fondo dell'intera decisione: la predisposizione degli aspetti gestionali ed organizzativi dell'attività di GADO s.a.r.l." interamente in Italia, lasciando alla sede lussemburghese i soli compiti esecutivi. Con il che, però, si ammette che qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva, sì da giustificare una sede amministrativa collocata in una struttura diversa da quella legale e i costi del personale dapprima distaccato, quindi direttamente assunto, che vi operava";

Sul versante della giurisprudenza di seconde cure più risalente cfr. C.T.R, Campania Napoli, Sez. XLVII, Sent., n. 10249 del 18.11.2015.

4 Per un contributo in tal senso v. avv. Monti Angela, L'internazionalizzazione delle imprese: tra libertà di iniziativa economica e rischio esterovestizione. Novità fiscali, 2018, pp. 376-380.

5 Per una sintesi giurisprudenziale di tali concetti cfr. Cass., Sez. V, Sent., n. 2869 del 07.02.2013, a mente della quale “L'obiettivo della libertà di stabilimento è quello di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le sue attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio. La nozione di stabilimento implica, quindi, l'esercizio effettivo di un'attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercè l'insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro: presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l'esercizio quivi di un'attività economica reale. Ne consegue che, perchè sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. In definitiva, deve ritenersi che quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l'operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.

6 A sostegno della libertà di stabilimento cfr. C.G.U.E., causa C-255/02, Halifax; C.G.U.E., causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas.

7 L’art. 49 del T.F.U.E (ex art. 43 del T.C.E.) prevede espressamente che: “Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.

La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali.”

8 Per una chiara affermazione di tale principio in sede accademica v. P. Selicato, Il Modello di convenzione OCSE del 2002 in materia di scambio di informazioni: alla ricerca della reciprocità nei trattati in materia di cooperazione fiscale, in Rivista di Diritto Tributario Internazionale, International Tax law Review, 2004, Roma, per cui “Il principio di reciprocità, riconosciuto come principio generale del diritto internazionale, è considerato dalla dottrina «il denominatore comune che mantiene l’equilibrio tra gli Stati mediante una correlazione tra diritti e obbligazioni di origine consuetudinaria o convenzionale”.

9 In punto di legittimità, prendendo le mosse dal rammentato precedente inaugurato in sede penale, si è statuito che: cfr. Cass., Sez. V, Sent., n. 33235 del 21.12.2018, “in applicazione di questi principi, con riferimento al versante penale della medesima vicenda in esame, la terza sezione penale di questa Corte (con sentenza 24 ottobre 2014/30 ottobre 2015, n. 43809) ha stabilito, in generale, che in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359, comma 1, non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l'individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative qualora esso s'identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un'entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto.

Anche la giurisprudenza di seconde cure ha condiviso tale impostazione, tra le più salienti cfr. C.T.R., Piemonte Torino, Sez. IV, Sent., n. 563 del 16.09.2020, che rievoca l’orientamento assunto in sede di legittimità laddove “La Corte di Cassazione nelle sentenze appena sopra indicate ha chiarito che "per poter definire una società estera esterovestita, l'Amministrazione Finanziaria non può limitarsi alla sola individuazione del luogo ove partono gli impulsi gestionali ma è necessario accertare che la società estera non sia una. costruzione di puro artificio, ovvero una semplice casella o uno schermo”; cfr. C.T.R., Lombardia Milano, Sez. IX, Sent., n. 3712 del 01.10.2019 per cui “in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359, co. 1, c.c., non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l'individuazione del luogo dal quale partono gli  impulsi gestionali  o le direttive amministrative qualora esso s'identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un'entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto.

10 cfr. C.T.R. Lombardia Milano, Sez. IX, Sent., n. 4458 del 12.11.2019 che, pronunciatasi sul tema, ha rammentato che “…perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale. In definitiva, deve ritenersi che quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l'operazione sia meramente artificiosa “wholly artificial arrangement” consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica.".

11 Per un distinguo chiaro dei 3 criteri delineati dall’art. 73 del TUIR, in dottrina v. Pasquale Formica e Caterina Guarnaccia, Esterovestizione: day to day management e corretta interpretazione delle dinamiche aziendali multinazionali, in Il Fisco, n. 39, 2016, pp. 1-3740., in cui si afferma correttamente che in ordine alla:

- “sede legale, quale requisito di carattere formale che, facendo implicito riferimento all’art. 2328 c.c., prevede che la sede sociale debba essere indicata nell’atto costitutivo o nello statuto;

- sede dell’amministrazione, quale requisito di carattere sostanziale, inteso come luogo ove, genericamente, viene svolta l’attività di gestione (cfr., infra);

- oggetto esclusivo o principale sociale, quale requisito di carattere sostanziale, inteso quale attività essenziale posta in essere per realizzare gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”.

12 Specularmente, per le persone fisiche, opera la disciplina ex art 2, co. 2 del T.U.I.R, per cui “Soggetti passivi dell'imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato. 2 Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. Ed anche in tale caso è prevista una presunzione legale relativa al comma 2-bis per cui “Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.

13 cfr. C.G.U.E., C-212/97, Centros Ldt e Erhvervs- og Selskabsstyrelsen, del 09.03.1999, che ha sancito il principio per cui “Ne consegue che queste società hanno il diritto di svolgere la loro attività in un altro Stato membro, mediante una agenzia, succursale o filiale. La localizzazione della loro sede sociale, della loro amministrazione centrale o del loro centro di attività principale serve a determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento all'ordinamento giuridico di uno Stato (v., in questo senso, sentenze Segers, citata, punto 13; 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/ Francia, Race. pag. 273, punto 18; 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank, Race. pag. I-4017, punto 13, e 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, Racc. pag. 1-4695, punto 20)”.

14 In tale ottica, la più autorevole giurisprudenza, partendo dal presupposto che “Affinchè sussistano gli estremi della esterovestizione è necessario che ricorrano due presupposti: uno soggettivo, ovvero la volontà di sottrarsi al più gravoso regime nazionale, e l'altro oggettivo, ovvero lo stabilimento della sede in un Paese con trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale… “ ha correttamente escluso l’esterovestizione atteso che la società aveva la sede in Francia, che non è un Paese con regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello italiano” (cfr. ex multis C.T.P. Lombardia Milano, Sez. I, Sent. n. 2853 del 25.03.2015; C.T.P. Lombardia Brescia, Sez. V, Sent. n. 441 del 28.06.2017; per quanto attiene la giurisprudenza di legittimità cfr. Cass., Sez. V, Sent. n. 2869 del 07.02.2013).

15 Acronimo per “Place of Effective Management”.

In ordine ad una disamina più approfondita sulla sua applicazione in sede internazionale, come apprezzabile contributo dottrinale v. P. Valente - D. Cardone, Esterovestizione. Profili probatori e metodologie di difesa nelle verifiche, IPSOA, 2015, pp. 155 e sgg.

16 Nella Prassi dell’A.F. si v. in tal senso la Circ. n. 28/E/2006.

In tema di elementi di prova di tipo sostanziale a carico dell’A.F., d’interesse il contributo dato in dottrina da P. Valente e S. Mattia, Esterovestizione e residenza: i gruppi italiani operanti nel settore dell’autotrasporto, in Il Fisco n. 8/2012, pp. 1157, per cui “Sotto il profilo sostanziale e traendo spunto da quanto chiarito dalla Direzione Regionale del Piemonte nella Procedura pubblicata in data 12 dicembre 2002, contenente indicazioni operative per la gestione della documentazione da parte dei contribuenti italiani che intrattengono rapporti commerciali con soggetti localizzati in Paesi a fiscalità privilegiata, per valutare l’effettiva residenza di una persona giuridica si deve tener conto, inter alia, dei seguenti elementi:

  1. certificato di domicilio fiscale e di assoggettamento alle imposte locali;

  2. statuto;

  3. certificato di iscrizione nel locale registro delle imprese;

  4. bilanci pubblicati (secondo la normativa locale);

  5. numero dei dipendenti effettivamente impiegati;

  6. disponibilità di locali inudstrilae/commerciali, idonei allo svolgimento dell’attività d’impresa in loco;

  7. contratti e utenze.

17 In tal senso cfr. Circolare n. 28/E del 04.08.2006 per cui:

8.5 Collegamento con l'art. 167 del TUIR. Merita, infine, precisare in quali termini la disposizione del nuovo comma 5 bis dell'art. 73 del TUIR può interferire sulla applicabilità del successivo articolo 167, nell'ipotesi in cui un soggetto residente controlli una società o un ente residente o localizzato in Stati o territori a fiscalità privilegiata che, a sua volta, detenga partecipazioni di controllo in società di capitali o enti commerciali residenti in Italia. È evidente che la presunzione di residenza nel territorio dello Stato dell'entità estera rende – in punto di principio – inoperante la disposizione dell'art. 167. Non sarà imputabile al soggetto controllante il reddito che la controllata stessa, in quanto residente, è tenuta a dichiarare in Italia. Qualora, tuttavia, sia fornita la prova contraria, atta a vincere la presunzione di residenza in Italia, la controllata non residente rimane attratta – ricorrendone le condizioni – alla disciplina dell'art. 167. In altri termini, il reddito della controllata estera non assoggettato a tassazione in Italia in dipendenza del suo, comprovato, status di società non residente resta imputabile per trasparenza al soggetto controllante ai sensi del citato art. 167. L'effettiva localizzazione della sede della amministrazione della controllata estera fuori del territorio dello Stato, e quindi la sua autonomia decisionale e di gestione, non escludono, infatti, che il suo reddito sia da considerare nella disponibilità economica del controllante residente”.

18 A tal riguardo, ad esempio assumendo decisioni che riguardano momenti significativi della vita della società, quali: le scelte imprenditoriali, il reperimento dei mezzi finanziari, le politiche di bilancio, la conclusione di contratti importanti ed altro ancora.

19 Sul punto, si è espressa autorevole dottrina ed, in particolare, v. Piergiorgio Valente, in Esterovestizione e eterodirezione: equilibri(smi) tra sede di direzione e coordinamento, direzione unitaria e sede di direzione effettiva (nota a Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia n. 197/2009), in Rivista di Diritto Tributario, vol. XX, 2010, p. 248, in cui si afferma che “Il coordinamento delle imprese del gruppo può essere concepito come una modalità della direzione unitaria, consistente nella riconduzione ad unità della direzione di tutte le imprese del gruppo, in modo tale da omogeneizzarne i fini, standardizzarne i processi e uniformarne le singole operazioni… È importante sottolineare che l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento non può fondare alcun assunto di residenza fiscale delle controllate nel Paese in cui è localizzata la società controllante…”.

20 Un’emblematica dissertazione sulla direzione societaria in relazione al fenomeno dell’esterovestizione viene trattata da autorevole dottrina per cui v. F. Capriglione, Poteri della controllante e organizzazione interna del gruppo, in Impresa, 1990, p. 2083, dove nella determinazione della politica di gruppo, la holding può” comprimere l’interesse di una società a favore dell’altra, beninteso ove ciò interagisca positivamente sul risultato finale della gestione complessiva”.

21 Ed ancora, nell’ottica di valorizzare correttamente quelle che sono le fisiologiche dinamiche all’interno di un gruppo societario tra società controllante e partecipate estere, senza così dar luogo all’esterovestizione, v. Piergiorgio Valente, cit., in Rivista di Diritto Tributario, vol. XX, 2010, p. 253, secondo cui “L’attività di direzione, per converso, rilevante ai fini dell’individuazione della sede dell’amministrazione e, dunque, della residenza fiscale della società partecipata, si estrinseca nella identificazione delle modalità imprenditoriali che consentono alle singole entities partecipate il conseguimento degli obiettivi strategici di più alto livello ad esse assegnati dalla società controllante e la realizzazione, in tal modo, del più ampio disegno imprenditoriale del gruppo di appartenenza.

In sostanza, i flussi strategici – espressione della gerarchia societaria e del coordinamento funzionale – discendenti dalla capogruppo alle controllate (processo top-down), pur coinvolgendo ogni profilo della vita aziendale delle partecipate stesse, permeandone organizzazione e processi, non individuano, di per sé, alcuna sostituzione nell’esercizio dell’impresa sul territorio, ma esprimono unicamente il potere di direzione unitaria ed attestano l’esistenza di un rapporto di sovraordinazione (della controllante) e di subordinazione (della controllata)”.

22 Un interessante contributo in tema di residenza fiscale, nell’ottica di inquadrare un criterio corretto in presenza di gruppo societario, v. Pasquale Formica e Caterina Guarnaccia, Esterovestizione: day to day management e corretta interpretazione delle dinamiche aziendali multinazionali, in Il Fisco, n. 39, 2016, pp. 1-3740, per cui:

L’indagine circa la residenza fiscale di una società deve tener conto, quindi, del confine che sussiste tra l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento posto in essere dalla controllante e la c.d. etero-direzione.

Detto confine risulta di non sempre agevole individuazione nei gruppi che operano a livello internazionale. In effetti, a parere di chi scrive, si ricade nell’ambito della etero-direzione solo se si verifica l’integrale ingerenza dei poteri degli organi della controllata e non la (normale) compressione dei poteri degli stessi.

Per tale ragione, con riferimento al fine che, in questa sede interessa, si ritiene che la residenza fiscale delle società non può che collocarsi nel luogo in cui gli executive officers realizzano, con stabilità e continuità, la gestione aziendale ordinaria. In effetti, occorre scongiurare un’interpretazione che conduca a risultati aberranti, quale quello di confondere l’attività che rileva ai fini dell’individuazione della residenza con la fisiologica attività di “direzione e coordinamento” che la società controllante esercita (in modo legittimo) verso la propria controllata.

In questa prospettiva, la residenza (fiscale) deve necessariamente coincidere, non con il luogo di assunzione delle decisioni generali (di interesse del gruppo), ma con il luogo del c.d. day to day management e ciò soprattutto con riferimento a gruppi di società multinazionali.

Esso, infatti, appare l’unico criterio di collegamento idoneo a individuare il luogo nel quale si realizza effettivamente l’attività principale e sostanziale dell’impresa”.

23 v. in dottrina l’interessante approfondimento di M. Fanni, “L’esercizio delle prerogative del socio non determina l’esterovestizione della controllata se il day to daymanagement è nello Stato Estero”, in Riv. giur. trib., n. 10/2015, p. 812.

24v. art. 75 del D.P.R. n. 600/1973 per cui “Nell'applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”.

25 In tal senso, da parte dell’autorevole dottrina v. Alberto Pozzo, L’Interpretazione delle Convenzioni Internazionali Contro le Doppie Imposizioni - Capitolo VI, p. 153, per cui “Tuttavia, alla prevalenza delle norme convenzionali rispetto alle successive norme interne, e salvo che queste ultime non abbiano espressamente posto una deroga al diritto convenzionale, si perviene mediante l’affermazione della specialità delle norme di adattamento alla convenzione nonché mediante la presunzione della conformità della legge interna al trattato.

Quindi, le norme contenute nelle convenzioni, una volta avvenuto il recepimento all’interno del nostro ordinamento, si pongono come norme di carattere speciale idonee in quanto tali a prevalere sulla legge ordinaria”.

Precursori di codesta lettura v. Galli G.B. - Miraulo A., Italian National Report, cit., p. 387, nonché La Pergola A.- Del Duca P., Community Law, International Law and the Italian Constitution, in The An. Rew of International Law, 1985, p. 598.

Ancora autorevole dottrina sulla relazione che si instaura tra norme tributarie interne e disposizioni convenzionali v. Micheli G.A., Problemi attuali di diritto tributario nei rapporti internazionali, in Dir. Prat. Trib., 1965, I, p. 216.

Dal lato della più autorevole giurisprudenza di legittimità più recente cfr. Cass., Sez. V, n. 30140 del 20.11.2019,Le Convenzioni, stante il carattere di specialità del loro ambito di formazione, cosi come le altre norme internazionali pattizie, prevalgono sulle corrispondenti norme nazionali, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nei vincoli derivanti, tra l'altro, dagli obblighi internazionali. Altresì, in ordine alle imposte sul reddito, le norme pattizie derivanti da accordi tra gli Stati prevalgono, attesane la specialità e la ratio di evitare fenomeni di doppia imposizione, su quelle interne“.

26 Sigla per “OECD Base Erosion and Profit Shifting Project”.

27 v. in OECD BEPS: “Action 6 Prevention of tax treaty abuse minimum standard”. BEPS Action 6 addresses treaty shopping through new treaty provisions whose adoption forms part of a minimum standard that members of the BEPS Inclusive Framework have agreed to implement. It also includes specific rules and recommendations to address other forms of treaty abuse. Action 6 identifies tax policy considerations jurisdictions should address before deciding to enter into a tax agreement.”

28 Per autorevole dottrina internazionale v. Carlos Palao Taboada, OECD Base Erosion and Profit Shifting Action 6: The General Anti-Abuse Rule, in: Bulletin for International Taxation, October 2015, pp. 602- 608.

29 Per completezza, si rammenta tali clausole sono contemplate dal diritto interno del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e del Canada.

30 La condensed version OECD del 2014 stabiliva che: “Where by reason of the provisions of paragraph 1 a person other than an individual is a resident of both Contracting States, then it shall be deemed to be a resident only of the State in which its place of effective management is situated”.

31. L’ultima versione del Modello Convenzionale è stata varata lo scorso 21 novembre 2017 dall’OCSE, e successivamente pubblicata in data 18.12. 2017; il testo precedente risale al 2014.

32 V. update Model Tax Convention- 2017, art. 4, par. 3: “Where by reason of the provisions of paragraph 1 a person other than an individual is a resident of both Contracting States, then it shall be deemed to be a resident only of the State in which its place of effective management is situated. the competent authorities of the Contracting States shall endeavour to determine by mutual agreement the Contracting State of which such person shall be deemed to be a resident for the purposes of the Convention, having regard to its place of effective management, the place where it is incorporated or otherwise constituted and any other relevant factors. In the absence of such agreement, such person shall not be entitled to any relief or exemption from tax provided by this Convention except to the extent and in such manner as may be agreed upon by the competent authorities of the Contracting States”.

33 As regard the Commentary tells that: “This paragraph concerns companies and other bodies of persons, irrespective of whether they are or not legal persons. It may be rare in practice for a company, etc. to be subject to tax as a resident in more than one State, but it is, of course, possible if, for instance, one State attaches importance to the registration and the other State to the place of effective management. So, in the case of companies, etc., also, special rules as to the preference must be established. 22. It would not be an adequate solution to attach importance to a purely formal criterion like registration. Therefore paragraph 3 attaches importance to the place where the company, etc. is actually managed. 23. The formulation of the preference criterion in the case of persons other than individuals was considered in particular in connection with the taxation of income from shipping, inland waterways transport and air transport. A number of conventions for the avoidance of double taxation on such income accord the taxing power to the State in which the “place of management” of the enterprise is situated; other conventions attach importance to its “place of effective management”, others again to the “fiscal domicile of the operator”. 24. As a result of these considerations, the “place of effective management” has been adopted as the preference criterion for persons other than individuals. The place of effective management is the place where key management and commercial decisions that are necessary for the conduct of the entity’s business as a whole are in substance.

Observations on the Commentary.

As regards paragraphs 24 and 24.1, Italy holds the view that the place where the main and substantial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management of a person other than an individual”.

34 A tal riguardo v. par. 25 delle osservazioni all’art. 4 del Modello OCSE per cui: “As regards paragraphs 24 and 24.1, Italy holds the view that the place where the main and substantial activity of the entity is carried on is also to be taken into account when determining the place of effective management of a person other than an individual”.

35 v. in tal senso nota dell’A.F. del 19.03.2010 la quale, nel replicare alla richiesta di chiarimenti inoltrata dalla Commissione Europea in tema di presunzione di esterovestizione, tra l’altro, ha puntualizzato che la prova della collocazione fittizia all’estero della sede amministrativa di una società può anche “attenere, ad esempio, al regolare, periodico svolgimento delle riunioni del consiglio di amministrazione di cui può essere agevolmente fornita documentazione unitamente all’evidenza che le riunioni sono tenute presso la sede sociale con la partecipazione dei diversi consiglieri (p. es delibere del consiglio di amministrazione formalmente prese all’estero, biglietti aerei/ricevute di alberghi che attestano gli spostamenti dei consiglieri residenti in Italia)”.

36 Come ribadito da autorevole dottrina v. Prof. Avv. G. Maisto, in Convenzioni Internazionali per evitare le doppie imposizioni, 2015, p. 794 per cui trattasi di uno strumento inteso “ad evitare le doppie imposiizoni in materia d’imposte sul reddito e sul patrimonio ed a prevenire la frode e l’evasione fiscale conclusa a Lussemburgo il 3 giugno 1981 e ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 14 agosto 1982 n. 747 (pubblicata nel S.O. alla G.U. n. 284 del 14 ottobre 1982). Lo scambio degli strumenti di ratifica è avvenuto il 4 febbraio 1983 (comunicato del Ministero degli Affari Esteri pubblicato nella G.U. N. 77, Serie Generale del 19 marzo 1983) e la convenzione è entrata in vigore il 4 febbraio 1983”.

37 In tema si richiama la risp. n. 25 del 04.10.2018 in cui l’A.F., nel fornire talune delucidazioni in merito ad una fattispecie che vedeva un contribuente che evidenziava un problema di doppia imposizione tra Italia e Lussemburgo, ha ritenuto necessario il rimando alla Convenzione tra Italia e Lussemburgo per risolvere il conflitto, in particolare rilevando che “Per individuare la nozione di residenza fiscale valida ai fini dell’applicazione delle disposizioni delle Convenzioni contro le doppie imposizioni e, in particolare, della Convenzione tra Italia e Lussemburgo per 3 evitare le doppie imposizioni ratificata dalla legge 14 agosto 1982, n. 747 (di seguito la Convenzione o il Trattato internazionale), è necessario fare riferimento alla legislazione interna degli Stati contraenti. Si osserva, in particolare, come la Convenzione stabilisca, all’articolo 4, paragrafo 1, che l’espressione “residente di uno Stato designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato, a motivo del suo domicilio, della sua residenza (…) o di ogni altro criterio di natura analoga”. A tal riguardo l’articolo 2, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito TUIR) considera residenti in Italia “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”. Le tre condizioni sopra citate sono tra loro alternative, essendo sufficiente che sia verificato, per la maggior parte del periodo d’imposta, uno solo dei predetti requisiti affinché una persona fisica venga considerata fiscalmente residente in Italia e, viceversa, solo quando i tre presupposti della residenza sono contestualmente assenti nel periodo d’imposta di riferimento tale persona può essere ritenuta non residente nel nostro Paese.

38 In ordine ad una contestazione di presunta esterovestizione riguardante una società con sede nello Stato di San Marino la Corte di Cassazione, con una recentissima pronuncia, ha rigettato i motivi promossi dall’A.F. stabilendo che “La questione oggetto ‘iena presente controversia non è nuova: al riguardo si registra una ormai consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, alla quale si è uniformata la sentenza impugnata ed alla quale il collegio ritiene di dovere assicurare continuità nella presente sede; secondo tale orientamento, ai fini della individuazione della residenza fiscale delle società ed enti, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 3, (secondo la numerazione vigente ratione temporis, corrispondente all'odierno art. 73, comma 3, a seguito del D.Lgs. n. 344 del 2003), la nozione di "sede  dell'amministrazione", in quanto contrapposta alla "sede legale", è assimilabile alla “sede” di matrice civilistica, intesa come il luogo di concreto svolgimento delle attività amministrative, di direzione dell'ente e di convocazione delle assemblee e, quindi, come luogo stabilmente utilizzato per l'accentramento, nei rapporti interni e coi terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell'impulso dell'attività dell'ente (cass. n. 2869 del 7.2.2013 e, più di recente, n. 15184 del 4.6.2019).

Nella fattispecie la CTR – nel confermare la sentenza di primo grado – ha affermato che, alla luce della documentazione probatoria versata in atti, "non sussistono i presupposti per dichiarare che la Junior Glass spa e la Arte Vetro abbiano "entrambe sede  nel territorio italiano" e che, in particolare, deve escludersi che quest'ultima potesse classificarsi come soggetto fiscale nel nostro Paese, in assenza di "prova concreta che possa far ritenere plausibile la tesi dell'ufficio secondo cui l'effettiva attività di amministrazione e gestione di Arte Vetro si svolgesse al di fuori del territorio sanmarinese”. Le risultanze di causa che hanno evidenziato i secondi giudici testimoniano che "nel periodo oggetto di verifica la documentazione contabile ed i libri sociali erano tenuti a (OMISSIS) e le riunioni del collegio sindacale e dell'assemblea si tenevano tutte nello stesso territorio così come gli obblighi civilistici e fiscali erano adempiuti nel proprio Stato di appartenenza e i dipendenti erano quasi tutti ivi residenti". Gli argomenti dedotti nella presente sede dalla ricorrente sono stati valutati dalla CTR, contrariamente all'assunto dell'Ufficio.

- Quanto al rinvenimento presso la  sede della Junior Glass spa di una situazione patrimoniale di Arte Vetro, la CTR ha escluso che tale circostanza potesse scalfire il convincimento espresso nella sentenza, a ragione del ritenuto carattere "convincente" delle giustificazioni rese sul punto dalla contribuente, la quale ha fatto presente come detto documento costituisse l'unico prospetto contabile all'interno della verifica fiscale concernente gli anni dai 2003 al 2007 e come lo stesso si riferisse al solo anno 2006 e perseguisse il solo fine di valutare la consistenza e la garanzia offerta da uno dei maggiori fornitori di Junior Glass spa; quanto esposto porta ad escludere che questa società fosse in possesso di informazioni patrimoniali strategiche della società odierna controricorrente (cfr. Cass., Sez. V, Ord. n. 24872 del 06.11.2020).

Sempre nell’ottica di valorizzare la sede di direzione effettiva la Suprema Corte, quasi in tempi non sospetti, esaminando un caso in cui veniva contestata l’asserita localizzazione fittizia di una società in Lussemburgo ha rigetto le doglianze erariali, che peraltro ritenevano inapplicabili ratione temporis la disciplina pattizia, affermando invece che “L'ampia disamina, compiuta dal giudice a quo, della normativa fiscale – civilistica e pattizia – in tema di residenza fiscale delle società e della relativa interpretazione dottrinale e giurisprudenziale appare, infatti, corretta, là dove, in sintesi, egli giunge alla conclusione della assimilazione del concetto (fiscale) di “sede dell'amministrazione” (qualificato come uno dei criteri "alternativi" indicati nell'art. 87, comma 3, del TUIR) a quello (civilistico) di "sede effettiva" della società ed intende quest'ultima, in sostanziale conformità ai principi sopra enunciati, come il luogo in cui si svolge in concreto la direzione e la gestione dell'attività d'impresa e dal quale promanano le relative decisioni.

Ne deriva che anche la parte finale della motivazione, dove si afferma che "secondo il criterio generale, la sede legale-amministrativa della CIN non è in Italia e, pertanto, decade ogni criterio sussidiario", non può che essere interpretata – come in definitiva ammette anche la stessa Agenzia ricorrente – alla luce dei principi esposti immediatamente prima, cioè nel senso che, ad avviso della CTR, la sede effettiva ("amministrativa") della società coincide con quella legale lussemburghese (oltre che con il luogo dell'oggetto principale dell'attività, che l'Ufficio non ha mai contestato che sia in Lussemburgo), con ciò escludendosi la configurabilità in concreto della residenza fiscale in Italia in base alla norma interna citata – e quindi l'ipotesi della esterovestizione – con assorbimento di ogni altra indagine”. (cfr. Cass., Sez. V, Sent. n. 2869 del 07.02.2013).

39 Per una disamina approfondita del caso v. Lower Court Arnhem, 07.03.2007.

40 Volgendo uno sguardo alla disciplina tributaria adottata in Olanda, ai sensi dell’art. 4 del General Taxes Act “la residenza delle persone giuridiche si determina in base alle circostanze”.

41 Al riguardo v. Hoge Road, BNP, 1989/52, decisione del 27.04.1988.

42 Per un importante contributo della più autorevole dottrina in tal senso v. P. valente, in la sede di direzione effettiva nel diritto comparato, in Il fisco, 28/2009, pp. 4604 segg., in cui afferma che “… si può concludere che, nell’ottica di far valere con successo la residenza fiscale della società sul territorio olandese, è in generale opportuno che i membri del Cda si riuniscano, per deliberare in merito alle più importanti questioni riguardanti la gestione e l’attività di impresa della società, presso la sede della stessa. E’, altresì, importante che vi sia autonomia e indipendenza decisionale effettiva della casa-madre situata all’estero.”

43 Le principali argomentazioni dell’AIDC sono compendiabili nei seguenti termini, così come evidenziato da autorevole dottrina v. Sacchetto, L’esterovestizione societaria, Torino, 2013, secondo cui:

  1. l’art. 73, co. 5-bis, del T.U.I.R., impedirebbe, a parità di condizioni, la scelta del management maggiormente adatto per amministrare la società, introducendo una penalizzazione per i prestatori d’opera residenti in Italia;

  2. la norma in questione non ammetterebbe la verifica, in via preventiva, della idoneità della prova contraria, conseguendone inevitabilmente la lesione del principio di certezza del diritto e, specularmente, attribuendosi eccessivo potere discrezionale a favore del Fisco;

  3. il contribuente sarebbe obbligato ad adempiere all’onere di fornire mezzi di prova diversi ed ulteriori rispetto al certificato rilasciato dall’Autorità estera attestante l’effettiva residenza fiscale nello Stato in cui quest’ultima è stata posta e l’assoggettabilità all’imposta sui redditi locale.

44 Per un’approfondita disamina del tema v. Il Commercialista Veneto, Inserto: La residenza fiscale delle società, n. 236, marzo/aprile 2017, in cui si riporta che: “A seguito di formale denuncia presentata dall’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (Aidc), concernente i profili di illegittimità comunitaria della presunzione legale di residenza fiscale prevista dall’articolo 73, comma 5 bis, Tuir, per presunta violazione dei generali principi comunitari di proporzionalità, libero stabilimento e non discriminazione, la Commissione Europea ha avviato il procedimento EU Pilot/2010/777.TAXU. Nell’ambito di tale procedimento, l’Agenzia delle Entrate ha fornito opportuni chiarimenti e linee guida di comportamento da adottare in caso di accertamento in materia di estero-vestizione, soffermandosi, in particolar modo, sulla “prova contraria” finalizzata a dimostrare l’effettiva residenza all’estero di una società e fornendo talune precisazioni anche sulla valenza probatoria dei certificati fiscali esteri”.

45 In particolare, una critica significativa a tale interpretazione è stata mossa da M. Piazza, D. Del Frate, Quando il Fisco presume che una società estera risieda fiscalmente in uno Stato terzo, in Fiscalità & Commercio Internazionale, n.1/2013.

46 Sul tema, per autorevole dottrina v. M. Furlan, Esterovestizione. Il vademecum dell’Agenzia, in Fiscalità Int., 2012, 30.

47 Al riguardo cfr. C.G.U.R., Causa C-73/06, Planzer Luxembourg Sàrl contro Bundeszentralamt für Steuern, del 28.06.2007, per cui “Gli artt. 3, lett. b), e 9, secondo comma, dell’ottava direttiva del Consiglio 6 dicembre 1979, 79/1072/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Modalità per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti all’interno del paese, vanno interpretati nel senso che l’attestazione conforme al modello di cui all’allegato B della direttiva stessa permette, in via di principio, di presumere che l’interessato sia non soltanto soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto nello Stato membro cui fa capo l’amministrazione tributaria che gliel’ha rilasciata, ma anche che esso sia residente in tale Stato membro.

Questo principio è anche sancito nella relazione governativa al D.Lgs. n. 136/1993, in base alla quale “l’'individuazione della residenza fiscale della società può essere risolta in via procedimentale sulla base di un certificato delle competenti autorità dello Stato comunitario che attesti il possesso del requisito in parola”.

48 Sulla rilevanza probatoria del certificato di residenza estero, incombente sul contribuente, v. Circ. n. 32/E del giorno 08.07.2011 per cui “2.2.3 Onere della prova e meccanismi di imputazione.

In base alle regole generali del diritto interno, l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti per ottenere un rimborso di imposta grava sul contribuente che lo richiede. Tale regola trova necessariamente applicazione anche per le istanze di rimborso in esame. Analogamente a quanto prescritto dall’art. 27-bis, comma 2, del DPR n. 600 del 1973 per i rimborsi a favore di società “madri”, anche i rimborsi in questione saranno subordinati alla dimostrazione da parte delle società interessate, tramite certificazione del proprio Stato di residenza, di essere soggetti passivi nel proprio Stato di residenza di una imposta sul reddito delle società analoga all’IRES tale che l’applicazione della ritenuta italiana in misura piena darebbe luogo ad un’imposizione discriminatoria rispetto all’analoga situazione interna all’ordinamento italiano. La verifica delle certificazioni che le società interessate produrranno potrà avvenire, come già ricordato, avvalendosi delle regole di collaborazione fiscale transfrontaliera previste dalla Direttiva 77/799/CEE, o di analoghe regole previste da convenzioni bilaterali”.

49 Per tale decisione cfr. Cass., Sez. V, Sent. n. 1553 del 03/02/2012, a mente della quale “Alla luce della chiara lettera di tale normativa, il giudice d'appello ha rilevato che era provata la residenza olandese con la dichiarazione rilasciata dall'Autorità (Balastingdlenst/Grote ordernemingen Rotterdam) di quel Paese, nella quale "si attesta che Mill Hill Investments è residente in Olanda ai sensi dell'art. 4 della convenzione bilaterale sulle doppie imposizioni tra l'Italia e i Paesi Bassi"; ha rilevato cane l'assoggettamento ad imposte era documentato con una unofficial translation attestante la corresponsione in Olanda, per il 2000, corrispondente al periodo d'imposta in relazione al quale si controverte, della vennoctschapsabelastin, che è l'imposta sulle società; ha quindi richiamato, segnatamente, il D.Lgs. n. 544 del 1992, art. 1, ("soggetti... residenti in Stati diversi della Comunità") e l'art. 3, lettera b), della stessa direttiva 90/434/CEE (la quale "chiarisce che le società interessate alla delibera sono quelle che, secondo la legislazione fiscale di uno Stato membro, sono considerate cane aventi il domicilio fiscale in tale Stato"), rilevando come nella specie era "provato che l'Autorità olandese considerò Mill Hill Investments fiscalmente domiciliata a Rotterdam;

Il giudice d'appello, facendo corretta applicazione delle regole dettate dal D.Lgs. n. 544 del 1992, artt. 1 e 2, di attuazione della direttiva del Consiglio 90/434/CEE, letta alla luce dei criteri fissati dall'art. 3 della direttiva stessa, ha individuato i criteri applicabili, ed alla loro stregua ha qualificato la Mill Hill Investments BV cane soggetto residente in altro stato membro della Genuinità, vale a dire nei Paesi Bassi, sulla base degli elementi acquisiti, con valutazione esaustiva e priva di vizi logici”.

50 Tra le varie sentenze che hanno accordato forza vincolante al certificato estero ai fini del superamento della contestazione di esterovestizione, cfr. C.T.R. Campania Napoli, Sez. XLVII, Sent., n. 10249 del 18.11.2015 per cui “Ancora il Collegio rileva che la T. è stata costituita nel 1949 ed stato ampiamente dimostrato dalla stessa, anche producendo diverse e recenti certificazioni dell'autorità fiscale inglese a cui occorre dare necessariamente valore inconfutabile di prova, di aver sempre mantenuto invariata la sede legale, la sede amministrativa intesa come sede in cui vengono assunte le decisioni strategiche di gestione dell'impresa (c.d. Place Effective Management), il proprio oggetto sociale nel Regno Unito, come tra l'altro richiesto dalle disposizioni normative di cui agli artt. 73, terzo comma del Tuir in tema di residenza fiscale in Italia dei soggetti con personalità giuridica ed art. 4 della Convenzione contro la doppia imposizione tra l'Italia e la Gran Bretagna”.