Scritto da Giuseppe Melis • nov 2022
L’articolo esamina le principali problematiche fiscali degli immobili dei professionisti, in materia di imposte sui redditi, IVA e IMU, evidenziandone possibili soluzioni in vista della riforma tributaria in corso di discussione.
The article examines the main tax issues related to the real estate of self-employed persons, with regard to income tax, VAT and the real estate wealth tax (IMU), highlighting possible solutions in view of the tax reform currently under discussion.
1.
Ci dobbiamo occupare della disciplina fiscale degli immobili dei professionisti, con il preciso scopo di evidenziare le diverse contraddizioni dell’attuale normativa, cui la riforma fiscale in corso di discussione, che non contiene peraltro disposizioni relative ai redditi di lavoro autonomo, ma solo per il reddito di impresa, potrebbe rappresentare l’occasione per porre definitivamente rimedio.
Inizieremo dalle imposte sui redditi, ma sarà utile anche fare il punto sulle principali criticità del regime IVA ed IMU.
Per quanto riguarda le imposte sui redditi, giova ricordare che la disciplina prevista dal TUIR ha formato oggetto di un significativo ampliamento per effetto del D.L. n. 223/2006 e della L. n. 344/2006, che hanno avviato una discreta omologazione delle modalità di determinazione del reddito di lavoro autonomo rispetto a quelle concernenti il reddito di impresa.
Ebbene, tale omologazione, se certamente non può essere “completa” per via delle innegabili differenze sussistenti tra le due categorie, si dimostra particolarmente bisognosa di qualche passo in avanti proprio per quanto attiene al regime fiscale degli immobili utilizzati dai professionisti che qui andremo ad esaminare.
2.
Iniziando dalle spese di acquisizione dei beni immobili destinati allo svolgimento dell’attività professionale, si tratta di una disciplina che ha formato oggetto negli ultimi anni, di numerosi repentini cambiamenti di rotta, vuoi per gli immobili acquistati in proprietà, vuoi per quelli acquisiti mediante leasing.
Come noto, la disciplina attuale prevede che per i beni strumentali, trovano applicazione i coefficienti di ammortamento stabiliti con d.m. 31.12.1988. Tuttavia, secondo l’Amministrazione finanziaria,1 pur in mancanza di un espresso divieto, non sarebbe ammessa la deducibilità di quote di ammortamento per gli immobili strumentali acquistati a decorrere dal 1.1.2010. Ricordiamo che per beni “strumentali” si intendono gli immobili utilizzati esclusivamente per l’esercizio dell’arte o professione, quale che siano la natura e le caratteristiche dell’immobile o la relativa destinazione catastale (c.d. “strumentalità per destinazione”).
Diversamente, per i contratti di leasing stipulati dal 1° gennaio 2014 relativi agli beni immobili strumentali, è possibile la deduzione dei canoni per l’acquisto dei beni immobili, con l’unica condizione che il relativo periodo di ammortamento non sia inferiore a dodici anni, quale che sia la durata del contratto.
Prescindendo dalla correttezza dell’interpretazione prospettata dall’Amministrazione finanziaria in ordine all’indeducibilità delle quote di ammortamento,2 si tratta di una disciplina di difficile giustificabilità,3 in quanto l’acquisto in leasing è da sempre stato equiparato a quello “diretto”, affermandosi, da parte della stessa Amministrazione finanziaria, l’esistenza di un vero e proprio “principio di equivalenza tra l’acquisizione del bene in proprio e l’acquisizione attraverso un contratto di locazione finanziaria”,4 ovvero di una “necessaria neutralità fiscale della scelta aziendale tra acquisizione dei beni in proprietà e in leasing”,5 anche testimoniata dall’equiparazione della rappresentazione contabile delle operazioni di leasing aventi natura finanziaria all’acquisto diretto.6
Non è del resto un caso che, in passato, il legislatore abbia espressamente ammesso la deducibilità delle quote di ammortamento sugli immobili acquistati direttamente. Ciò è avvenuto, in particolare, per gli immobili acquistati o costruiti entro il 14.06.1990 e nel periodo 1.1.2007 - 31.12.2009 (sia pure nella misura di un terzo nel triennio 2007-2009, dunque nella misura dell’1%, per poi tornare alla quota ordinaria del 3%).
Si tratta, tra l’altro, di una delle prime cause dei ben noti schemi attraverso i quali i professionisti, pur di superare il divieto di deduzione, acquistano il bene attraverso una società partecipata dallo stesso professionista e/o da familiari, per poi concederlo in locazione ai professionisti e dedurre, così, le quote di ammortamento del bene. Si tratta di un comportamento, tra l’altro, che ha ricevuto in giurisprudenza valutazioni diverse, ora riconoscendosene la legittimità,7 ora – per la verità, più raramente – censurandolo poiché comportante un “aggiramento” dell’art. 54, TUIR.8 Sussiste, peraltro, un precedente di legittimità favorevole al Fisco – sia pure antecedente l’introduzione dell’art. 10-bis, L. n. 212/2000 – relativo all’acquisto in leasing da parte della società in un momento temporale in cui la relativa deducibilità era vietata per i professionisti.9
Altre sentenze sfavorevoli al contribuente riguardano, invece, profili diversi, soprattutto l’antieconomicità di corresponsioni anticipate di canoni dedotti per cassa10 oppure canoni manifestamente antieconomici (di regola nell’ambito di un più ampio corrispettivo comprensivo di servizi “accessori”).
A ciò si aggiunge che il periodo di ammortamento fiscale di un bene immobile è di 34 anni, dunque assai più esteso di quello relativo alla deduzione del bene in leasing, convenzionalmente fissato in dodici anni. Sicché neanche ragioni di gettito appaiono giustificare una simile opzione, se non riconoscere un favor alle società di leasing, i cui tassi di interesse sono di regola ben più elevati di quelli relativi al finanziamento bancario. In ultima analisi, si tratterebbe di un’irrazionale condizione – quella di sobbarcarsi le più onerose modalità di finanziamento dell’acquisto del bene – posta dal legislatore per riconoscere la deducibilità di un costo.
Infine, una scelta di questo tipo ripristinerebbe un interesse per il mercato degli immobili da destinare ad uso ufficio, rivitalizzando un settore attualmente in grave crisi.
In conclusione, si tratta di una disciplina del tutto irrazionale, verosimilmente suscettibile anche di censura per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., attesa l’assoluta irragionevolezza della distinzione posta in essere dal legislatore, una volta riconosciuta la naturale fungibilità, giuridica e contabile, tra acquisto in proprio ed acquisto in leasing.
Si tratta di un rilevante disallineamento che richiede di essere colmato proprio nell’ottica dell’avvicinamento da parte del legislatore della disciplina della determinazione del reddito di lavoro autonomo impresa a quella del reddito di impresa – anche tenuto conto che nel diritto UE, ove questa distinzione non esiste, né ai fini fiscali, né ai fini del diritto della concorrenza.
3.
Per quanto riguarda i costi di acquisizione degli immobili utilizzati ad uso promiscuo – questione peraltro divenuta di estrema attualità a seguito dei cambiamenti comportamentali delle modalità lavorative causati dalla pandemia – viene replicato lo schema sopra indicato, sicché l’acquisto dell’immobile gode del regime di deduzione, nella misura “a forfait” del 50%, solo se avvenuto in leasing, ma non anche se in proprietà, purché il contribuente non disponga nel medesimo Comune di altro immobile adibito in via esclusiva all’esercizio dell’arte o professione.
Anche qui, dunque, si tratta di una normativa non in linea con il descritto principio di equivalenza tra acquisto in proprio e acquisto in leasing, cui possono essere estese, mutatis mutandis, le considerazioni già svolte in relazione all’acquisto di beni immobili esclusivamente destinati all’attività professionali.
4.
Non meno caotica è la disciplina relativa ai costi di manutenzione.11
Infatti, per i beni esclusivamente destinati all’attività professionale, le spese di ammodernamento, ristrutturazione e manutenzione di immobili di natura “non incrementativa” – vale a dire non imputabili, per le loro caratteristiche, ad incremento del costo dell’immobile – sono deducibili nel periodo di imposta in cui sono state sostenute sino ad un massimo del 5% del valore complessivo di tutti i beni materiali risultanti dal registro dei cespiti ammortizzabili, mentre l’eccedenza è deducibile in quote costanti in cinque esercizi. Si tratta di una disciplina che intende rifarsi a quella propria del reddito di impresa, ma che manca del riferimento al costo complessivo di fine esercizio nel caso di avvio dell’attività, risultando pertanto particolarmente penalizzante per i professionisti che intraprendono una nuova attività.
Per le spese c.d. “incrementative”, imputabili per le loro caratteristiche ad incremento dei beni pur non espressamente menzionate, esse devono ritenersi deducibili unitamente al bene sotto forma di maggiori quote di ammortamento, ma ciò vale per i soli casi di acquisto diretto rientranti nelle finestre temporali in cui era ammessa la deduzione.
In assenza di un costo – ad es., beni acquisiti a titolo gratuito, beni di terzi – si è ritenuta applicabile la disciplina prevista per i costi “non incrementativi”12 con un principio che deve tuttavia trovare applicazione, per ragioni sistematiche, anche in relazione agli immobili strumentali acquisiti in proprietà a decorrere dal 1.1.2010,13 giungendosi, altrimenti, alla assurda conclusione della indeducibilità tout court di tali spese.
Per i beni immobili ad uso promiscuo, è deducibile il 50% (sempre forfetario) delle spese di ammodernamento, ristrutturazione e manutenzione, deducibilità che, nel silenzio del legislatore, dovrebbe avvenire secondo le medesime regole previste per gli immobili non utilizzati promiscuamente (plafond del 5% e deducibilità dell’eccedenza in cinque anni). Inoltre, pur essendo presente nella previsione normativa un riferimento letterale alle sole spese “non incrementative”, la deducibilità deve ritenersi estesa anche alle spese di “tipo incrementativo”, anche in questo caso con l’applicazione delle regole appena indicate.
Insomma, si tratta di una disciplina fortemente lacunosa, bisognosa anch’essa di un intervento normativo.
5.
Venendo alla disciplina IVA, anch’essa lascia alquanto a desiderare.
L’art. 19-bis 1), d.p.r. n. 633 del 1972, dispone infatti che “non è ammessa in detrazione l’imposta relativa all’acquisto di fabbricati, o di porzioni di fabbricato, a destinazione abitativa né quella relativa alla locazione o alla manutenzione, recupero o gestione degli stessi, salvo che per le imprese che hanno per oggetto esclusivo o principale dell’attività esercitata la costruzione o la rivendita dei predetti fabbricati o delle predette porzioni”.
Secondo l’Agenzia delle Entrate,14 la distinzione tra immobili “a destinazione abitativa” e “immobili strumentali” deve avere riguardo alla classificazione catastale dei fabbricati, a prescindere dal loro effettivo utilizzo, dovendo pertanto rientrare nella categoria degli immobili “abitativi” tutte le unità immobiliari catastalmente classificate o classificabili nelle categorie da A/1 ad A/11, escluse quelle classificate o classificabili in A/10.
Ciò ha portato l’Amministrazione finanziaria persino ad escludere la detrazione IVA per un immobile in corso di ristrutturazione, originariamente censito in catasto come abitazione, cui era attribuita la specifica categoria (F) relativa alle “unità immobiliari in corso di definizione”, ritenendo che tale categoria risponda esclusivamente all’esigenza transitoria di indicare che l’immobile si trova in una fase di trasformazione edilizia, e pertanto tale classificazione sarebbe inidonea a ritenere già intervenuto un cambio di destinazione d’uso rispetto alla destinazione abitativa.15 Tale posizione, con riferimento alle imprese di costruzioni, è stata ribadita con una recente risposta ad interpello,16 che, tra l’altro, ha ridimensionato quanto a suo tempo affermato dalla stessa Amministrazione finanziaria17 in ordine alla detraibilità dell’IVA su immobili a destinazione abitativa destinati a “casa vacanze”, considerandola una fattispecie eccezionale e ribadendo il principio generale della rilevanza della destinazione catastale “abitativa”.
Abbiamo, in questo caso, un doppio elemento di irrazionalità.
In primo luogo, mentre ai fini delle imposte sui redditi, rileva l’utilizzo “strumentale”, anche promiscuo, del bene, quale che sia la destinazione catastale, ai fini IVA rileva esclusivamente la categoria catastale del bene.
In secondo luogo e soprattutto, tale disposizione appare contraria al diritto unionale, in cui ciò che rileva è l’utilizzo “in concreto” di un bene al fine di realizzare operazioni imponibili.
A tale riguardo, non mancano segnali positivi dalla giurisprudenza.
Così, ad esempio, CTR Toscana 16 dicembre 2020, n. 993, che ha riconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva corrisposta per l’acquisto di un immobile avente catastalmente destinazione abitativa ma, in concreto, utilizzato come studio professionale, rinvenendo nell’assenza di una cucina e nel cablaggio delle stanze ad uso uffici una conferma dell’uso strumentale dell’immobile all’attività professionale.
Ma la stessa giurisprudenza di legittimità ha affermato che la detrazione comunque spetta laddove il bene sia destinato ad operazioni imponibili, come nel caso di un fabbricato abitativo destinato ad una “casa vacanze” compatibile con tale destinazione d’uso, o ad un albergo a seguito di cambio di destinazione d’uso.18 E anche in tale prospettiva, non essendovi alcuna preclusione giuridica all’utilizzo quale ufficio di un bene in categoria catastale diversa da A/10, tale detrazione deve senz’altro ammettersi.
Da ultimo, si segnala Cass., n. 7226/2020 che, dopo aver enunciato il criterio “oggettivo” previsto dall’art. 19-bis1, quasi fosse insuperabile, richiama immediatamente dopo la più recente giurisprudenza di legittimità relativa alla strumentalità “in concreto”, che sembrerebbe idonea, per i giudici di legittimità, a superare il criterio “oggettivo”.
6.
Infine, quanto all’IMU, appare del tutto incomprensibile la norma che esclude la deducibilità dell’IMU relativa agli immobili ad uso promiscuo, emergendo da tutto il “sistema” sopra esaminato la rilevanza, secondo un metodo di determinazione forfetario, dell’utilizzo del bene anche per finalità professionali. Sicché tale esclusione appare, anche alla luce dei principi enunciati nella nota sentenza della Corte costituzionale che han portato alla previsione della deducibilità dell’IMU, del tutto irrazionale.
1 Circ. 38/E/2010, par. 3.2.
2 Si vedano le considerazioni critiche contenute nel Documento di ricerca CNDCEC-FNC del 25 luglio 2019, a cura di B Rizzi e P. Saggese.
3 Cfr. G. FERRANTI, La disparità di trattamento tra gli immobili dei professionisti acquisiti in leasing o in proprietà, in Corr. trib., 2021, p. 734 ss.
4 Circ., Ag. Entrate, n. 19/E del 23.02.2004.
5 Circ., n. 69/E del 10.05.1994.
6 Circ., n. 27/E del 31.05.2005.
7 CTR Piemonte, n. 185/5/2019, CTR Veneto, n. 1141/12/2016, CTR Piemonte, n. 405/4/2018, CTR Marche n. 536/6/2017, che hanno escluso la sussistenza di un abuso del diritto.
8 CTP Como, n. 132/2/2016.
9 Cass., n. 6528/2013.
10 Cass., n. 22579/2012.
11 Sul tema, vedi N. FORTE, Criteri di deducibilità delle spese di manutenzione e ristrutturazione degli immobili dei professionisti, in Corr. trib., 2015, p. 2688 ss.
12 Ris. n. 99/E del 2009.
13 In questo senso, sembrerebbe indirizzarsi Cass., n. 7226/2020.
14 Circ. n. 27/E del 4.8.2006; Circ. n. 182/E del 1.7.1996; Ris. n. 119/E del 12.08.2005; Ris. n. 99/E del 8.4.2009.
15 Risp. n. 99/E del 8.4.2009.
16 Risp. n. 844/2021.
17 Risp., n. 18/2012.
18 Cass., n. 23994/2018; Cass., n. 8628/2015.
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