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Legge e contratto nel pubblico impiego. La ‘vicenda’ della “distinta disciplina” per i professionisti e i funzionari ‘tecnico-scientifici’ (L. n. 59/1997)

Scritto da Ferruccio Ferruzzi • lug 2023

Contenuto

1. I funzionari ‘tecnico-scientifici'. Il caso dei Beni culturali

Quando nel 1975 fu, con il D.P.R. delegato n. 805/1975, organizzato il neoistituito ‘Ministero per i beni culturali e ambientali’, vi confluirono le diverse professionalità tecnico-scientifiche delle amministrazioni in esso riunite (architetti, archeologi, storici dell’arte, bibliotecari statali e archivisti di Stato)1 che, all’art. 4, erano denominate nel loro complesso, in base alle loro funzioni di studio ed elaborazione scientifica e alle specializzazioni post-laurea, “personale scientifico” nelle sue varie “qualificazioni tecnico-scientifiche”. Tale personale svolgeva anche una precipua funzione di ricerca scientifica, quale premessa indispensabile per la tutela dei beni culturali, e perciò era stato tutto incluso ai sensi della L. n. 283/1963 di riordinamento della ricerca scientifica in Italia fra i “ricercatori statali” aventi elettorato attivo e passivo nei Comitati nazionali di consulenza del C.N.R. fino alla loro soppressione con la riforma del D.Lgs. n. 204/1998.

Nei secondi anni ’50 e primi ’60, di fronte al persistere di numerose e diffuse situazioni di degrado del patrimonio storico e artistico conseguenti non solo alle distruzioni del periodo bellico, ma anche spesso a un più risalente abbandono, e di fronte al tumultuoso sviluppo urbanistico e industriale che aveva deturpato periferie cittadine ed aree naturali, era cresciuta nel mondo della cultura e nella società una maggiore sensibilità per i problemi della tutela dei beni culturali e del paesaggio – sorse nel 1956 a tal fine l’associazione Italia Nostra – che fece sentire anche l’esigenza di un ammodernamento della sua organizzazione ereditata dallo stato fascista.

Fu così istituita nel 1964 la Commissione parlamentare d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio ‘Franceschini’, che condusse un ampio e articolato studio conoscitivo per la riforma del settore, consultando numerosi accademici ed esperti, acquisendo documenti e proposte, molte delle quali fece proprie. Nell’ampia relazione finale2 – alla quale si ispirarono in vario modo tutte le successive riforme, a partire dalla nozione innovativa di ‘bene culturale’ – la Commissione propose l’istituzione di un’amministrazione statale autonoma della tutela del patrimonio storico e un riordinamento del personale scientifico che avrebbe dovuto avere speciale attenzione alla sua alta qualificazione e alle connesse attribuzioni di autonomia e responsabilità equiparando, anche economicamente, i gradi delle sue carriere “alle situazioni dei professori universitari, attesa la qualificazione al massimo livello che esse richiedono”.3 L’intento era anche quello di evitare l’esodo, allora endemico, dei soprintendenti e dei funzionari più esperti (inquadrati, se pur qualificati come ‘tecnici’, negli stessi gradi economici della ‘carriera direttiva’ comune ai funzionati amministrativi), verso l’Università, prevedendo carriere scientifiche analoghe con prove selettive per titoli ed esami la “possibilità di dedicarsi per alcuni periodi agli studi e alle ricerche”, alla stregua dei docenti universitari.

L’istituzione del nuovo dicastero aveva destato grandi speranze in tutti gli operatori per le dichiarazioni del titolare designato Giovanni Spadolini, secondo cui avrebbe dovuto essere un ministero ‘atipico’, precipuamente ‘tecnico’, che sarebbe stato impostato su criteri culturali anche sotto il profilo organizzativo. Invece, il quadro organizzativo del nuovo dicastero emerso col D.P.R. n. 805/1975, risultò una mera aggregazione delle tradizionali direzioni generali preesistenti con tutti i loro organi periferici, ribattezzate significativamente solo ‘Uffici centrali’, alle quali era sovraordinata un’unica ‘Direzione generale’ amministrativa (‘degli affari generali e del personale’).4 Tale esito conforme al tipico modello burocratico ministeriale e il permanere dell’inquadramento dei funzionari tecnici nel personale amministrativo dei ministeri deluse le speranze di quanti contavano sulla realizzazione delle indicazioni della commissione Franceschini.

Quando si seppe che il disegno della successiva Legge n. 254/1988 di primo inquadramento nella neo-istituita IX qualifica funzionale, in discussione al Senato5 prevedeva all’art. 1, comma 2, il primo inquadramento nella IX qualifica funzionale con soli 5 anni di anzianità pregressa per i funzionari che svolgevano “attività tecnico-professionali per le quali è richiesto il possesso di apposito diploma di laurea e relativo titolo di abilitazione professionale”, mentre ai funzionari amministrativi era richiesta l’anzianità di 17 anni e 6 mesi.6 Le associazioni professionali dei funzionari tecnici del ministero si mossero per sollecitare un’equiparazione delle loro figure professionali ai ‘professionisti’, fra i quali erano gli architetti del Ministero con cui collaboravano nelle Soprintendenze, in ragione della qualificazione delle loro specializzazioni e funzioni. Così il Disegno di legge fu integrato con un nuovo comma 3 dell’art. 1 che, ai fini dell’inquadramento nella IX qualifica, equiparava ai professionisti abilitati gli archeologi e gli storici dell’arte del Ministero e con un nuovo art. 2 che inquadrava con la medesima anzianità di 5 anni anche gli archivisti di Stato, i bibliotecari e gli ‘esperti’ (non ‘professionisti’ abilitati) che “svolgono attività “tecnico-scientifiche e di ricerca in base ai rispettivi profili professionali”.7 Ma, a prescindere dalla speciale agevolazione per il primo inquadramento nella IX qualifica, la legge n. 254 non recava alcun sostanziale cambiamento nello stato giuridico-economico dei funzionari tecnici nel senso auspicato dalla commissione Franceschini. Un successivo tentativo in tale direzione fu fatto nel 1989 dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera con un emendamento al Progetto di legge governativo di riordinamento della dirigenza statale8 che riprendeva la formulazione della L. n. 254 citata ricomprendendo negli istituendi ‘ruoli professionali’ tutto il personale scientifico dei Beni Culturali come Personale che svolge attività professionali tecnico-scientifiche e di ricerca…”.9

Le proposte inattuate della Commissione Franceschini furono anche riprese da un Disegno di legge dei senatori Argan – illustre storico dell’arte – e Chiarante di riforma organica dell’intero settore dei Beni Culturali, presentato nel 1989,10 che contemplava, oltre alla trasformazione del Ministero in amministrazione autonoma secondo le indicazioni della commissione Franceschini, anche l’istituzione di un corpo di funzionari e dirigenti tecnico-scientifici equiparato ai docenti universitari e aperto ad interscambi professionali e scientifici con gli istituti di docenza e ricerca. Va ricordato che, sempre in tal senso, fu poco dopo istituito in Francia nel 1990 il Corps des conservateurs du Patrimoine.11


2. La vicenda legislativa e contrattuale della ‘distinta disciplina'

Nel 1997 il Governo avviò una riforma della P.A. con la L. delega n. 59/1997 (‘Bassanini 1’). Essa dispose (art. 11, comma 4) che venissero emanati decreti legislativi correttivi e integrativi del D.Lgs. n. 29 del 1993, che aveva ‘privatizzato’ il regime contrattuale del pubblico impiego demandandone ̶ con alcune eccezioni ̶ la disciplina alla contrattazione collettiva, nei quali “Il Governo…si attiene ai seguenti principi direttivi… (lett. d) prevedere che i decreti legislativi e la contrattazione …stabiliscano una distinta disciplina per i dipendenti pubblici che svolgano qualificate attività professionali, implicanti l’iscrizione ad albi, oppure tecnico-scientifiche e di ricerca”, riprendendo la formula definitoria generale del citato Progetto di legge sulla dirigenza del 1988 e della L. n. 254/1988. È da sottolineare che la ‘distinta disciplina’ non era soltanto contrattuale, ma anzitutto legislativa (delegata), in quanto la legge impartiva sul punto la delega al governo per emanare preliminarmente anche specifici decreti legislativi recanti principi direttivi in materia.

Per valutare la portata innovativa della previsione va tenuto presente che essa interveniva come norma generale-quadro su assetti contrattuali diversi che già prevedevano nel pubblico impiego analoghe discipline speciali. Nel comparto degli Enti pubblici non economici esisteva fin dal 1975 l’‘area professionisti e medici’;12 nel comparto delle Regioni e autonomie locali vi erano le ‘posizioni organizzative’ economicamente rilevanti per i dipendenti che svolgevano “funzioni di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie e/o alla iscrizione ad albi professionali o attività di studio e ricerca”;13 nel comparto degli Enti di ricerca il CCNL 1998 - 2001 confermava, alla Sez. II - Ricercatori e Tecnologi - l’articolazione, introdotta nel 1987,14 di tali professionalità su tre livelli equiparati alla docenza universitaria, inserite nell’area contrattuale dirigenziale. Di fatto la norma sulla distinta disciplina aveva quindi precipuo impatto innovativo sul comparto Ministeri, dove non ne esisteva ancora una simile per queste professionalità, e dove queste si concentravano principalmente e quasi esclusivamente nel Ministero per i beni culturali. La L. n. 59/1997 ha così portato a compimento l’iter legislativo del riconoscimento ordinamentale delle professionalità tecnico-scientifiche dei Beni culturali, in quanto svolgenti attività specialistiche di rilevante pubblico interesse nella tutela e trattamento del patrimonio storico, le cui istanze erano così state infine accolte non solo dalle principali forze politiche, ma anche dal Governo stesso.15

Il D.Lgs. delegato n. 396/1997, all’art. 1, comma 1, nel sostituire l’art. 45 del D.Lgs. n. 29/1993 (t.u. del pubblico impiego ‘privatizzato’), ha poi disposto, al comma 3, ultimo periodo, del nuovo articolo, che “Per le figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure tecnico scientifici e di ricerca, sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto”. Il decreto, oltre alle minori modifiche terminologiche, ha sostanzialmente ampliato l’ambito categoriale del personale compreso nella distinta disciplina aggiungendo alle due categorie previste dalla Legge delega la categoria delle “figure professionali” che “svolgono compiti di direzione” e la relativa specificazione “in posizione di elevata responsabilità”. La norma è stata poi recepita integralmente nell’art. 40, comma 2, ultimo periodo, del nuovo t.u. del pubblico impiego, D.Lgs. n. 165/2001.

La specificazione aggiuntiva della “posizione di elevata responsabilità” – solo apparentemente premessa a tutte le tre categorie, come ha precisato la giurisprudenza16 – trovava la sua precipua ragion d’essere nella necessità di escludere dall’ambito della terza categoria aggiunta le figure professionali di livello inferiore (allora area “B”, per le quali non era richiesta la laurea per l’accesso) a quella delle prime due categorie, tutte appartenenti, secondo la normativa vigente citata, all’area direttiva apicale (allora area “C”). Rimaneva tuttavia il disallineamento della categoria aggiunta con queste ultime derivante dal fatto che, mentre le loro ‘qualificate attività professionali e tecnico-scientifiche e di ricerca’ erano attribuzioni istituzionali precipue e permanenti dei rispettivi profili professionali, i ‘compiti di direzione’ di unità organiche non dirigenziali erano bensì previsti, ma in via temporanea e contingente, per tutti i funzionari dell’area direttiva “C”.17

Il successivo contratto collettivo del comparto dei Ministeri per il quadriennio 1998-2001 ha di fatto attuato immediatamente e separatamente questa parte della normativa sulla distinta disciplina disponendo all’art. 18 l’istituzione delle ‘posizioni organizzative’ appositamente remunerate per gli incarichi “di direzione di unità organizzativa, caratterizzate da un elevato grado di autonomia gestionale” conferiti ai funzionari di area “C”. Per le altre due categorie destinatarie della distinta disciplina caratterizzate da qualificate funzioni professionali istituzionali, il predetto contratto collettivo ha invece previsto all’art. 13 la creazione nell’area “C” “di una separata area dei “professionisti dipendenti”, nella quale confluiscono i lavoratori inquadrati nella VII, VIII e IX qualifica che espletano una attività che richiede, in base alla laurea, l’abilitazione all’esercizio della professione e/o l’iscrizione ad albi professionali “(lett. b), nella quale, in forza della Dichiarazione congiunta n. 4 del medesimo contratto “si intendono comprese le figure professionali che svolgono attività tecnico-scientifiche e di ricerca, di cui all’art. 11, comma 4, lett. d, della Legge n. 59/1997”, e ha istituito (art. 37) una apposita Commissione paritetica ARAN-OO.SS. che avrebbe dovuto acquisire gli elementi utili a tal fine e terminare i lavori entro il 30 aprile 1999, dopo di che, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. b, “Le parti si impegnano a negoziare... b) entro il 31 dicembre 1999... la disciplina nell’area “C” della separata area dei professionisti sulla base delle risultanze della Commissione prevista dall’art.37”, l’attivazione della quale doveva quindi intendersi prevista decorrente dal 01.01.2000.

La Commissione terminò i lavori nel marzo 2002 senza formulare una proposta operativa di attuazione della nuova disciplina, e quindi la negoziazione prevista dall’art. 35 citato non si svolse.18 Nella sua relazione finale la Commissione tuttavia espose come un risultato acquisito che “mentre le leggi ordinistiche consentono l’individuazione certa dei dipendenti appartenenti a figure per cui è prevista l’abilitazione professionale e l’iscrizione ad albi, l’esame della normativa (L. n. 254/1988, D.P.R. n. 805/1975 e relativa regolamentare) evidenzia la specifica realtà del Ministero per i beni e le attività culturali per quanto attiene al personale che svolge attività tecnico-scientifica e di ricerca, i cui requisiti hanno il pregio di essere formalizzati nei rispettivi (più sopra elencati) profili professionali ex D.P.R. n. 1219/1984”.

Nel frattempo erano nate diffuse controversie, sostenute da sindacati di categoria dei funzionari amministrativi, sulla mancata estensione al pubblico impiego ‘privatizzato’ dal D.Lgs. n. 29/1993 della categoria dei “quadri” intermedi fra gli impiegati e i dirigenti, introdotta nell’art. 2095 c.c. dalla L. n. 190/1985, mai attuata nel pubblico impiego a causa dell’opposizione delle OO.SS. confederali a tale estensione.19 Si giunse in tal senso al contratto collettivo nazionale di interpretazione autentica dell’art. 13 del CCNL 1998-2001, stipulato il 21-06-2001, che ha dichiarato che esso “non prevede la categoria di Quadro, a motivo del fatto che, ai sensi dell’art. 40, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001, la disciplina speciale prevista per i dipendenti che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi oppure tecnico-scientifici e di ricerca, consente alle parti di non procedere all’automatica trasposizione della Legge n. 190 del 1985 nel sistema classificatorio pubblico”. Il medesimo CCNL di interpretazione autentica ha riconosciuto che “L’unica previsione vincolante, per quanto attiene le fonti, si rinviene nell’art. 11, comma 4, lettera d, della Legge delega n. 59 del 1997, con riferimento ai dipendenti pubblici che svolgono qualificate attività professionali, implicanti l’iscrizione ad albi oppure tecnico-scientifiche e di ricerca”.

Va ricordato che le medesime organizzazioni sindacali di categoria dei funzionari amministrativi (Dirstat) che avevano sostenuto l’introduzione dei ‘quadri’ anche nel pubblico impiego ottennero poi che la L. n. 145/2002 sulla dirigenza, con l’art. 7, comma 3, introducesse nel t.u. n. 165/2001 un art. 17-bis istitutivo della “vicedirigenza” e di un’apposita relativa area contrattuale separata, che però rimase inattuato contrattualmente e fu poi ridimensionato da una successiva norma di interpretazione autentica (art. 8 L. n. 15/2009), la quale dichiarava che la vicedirigenza è disciplinata esclusivamente dalla contrattazione collettiva, che ha (solo) facoltà di introdurla, precludendo così i riconoscimenti giudiziari ope legis della qualifica e trattamento di ‘quadro’. L’art. 17-bis fu infine soppresso nel 2012 dall’art. 5, comma 13, del D.L. n. 95.

Il successivo CCNL dei Ministeri 2002-2005, stipulato il 12 giugno 2003, nel prevedere all’art. 9 l’istituzione di un’altra “Commissione paritetica per il sistema classificatorio”, ha demandato ad essa, fra l’altro, il compito di “formulare proposte in ordine alla verifica della disciplina dell’area… dei professionisti”. Anche i lavori di questa Commissione sono però rimasti senza alcun esito.

È poi intervenuta in materia la L. n. 229/2003 che, all’art. 14, comma 2, ha integrato l’art. 40, comma 2, ultimo periodo, del D.Lgs. n. 165/2001, che aveva intanto recepito integralmente la citata disposizione istitutiva della distinta disciplina dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 396/1997, indicando che la distinta disciplina per i dipendenti che svolgono compiti tecnico-scientifici e di ricerca è destinata per “gli archeologi e gli storici dell'arte aventi il requisito di cui all’articolo 1, comma 3, della Legge 7 luglio 1988, n. 254, nonché per gli archivisti di Stato, i bibliotecari e gli esperti di cui all'articolo 2, comma 1, della medesima legge”, cioè per tutti profili professionali dei funzionari tecnico-scientifici (non ‘professionisti’) del Ministero per i beni culturali. Tale intervento, che riprende le indicazioni della Commissione paritetica ARAN-OO.SS. sopra riportate, può plausibilmente ricondursi sotto il profilo teleologico all’intento del legislatore di ‘sbloccare’ sul punto le trattative allora in corso per il predetto CCNL 2002-2005, che però si conclusero poco prima del prolungato iter parlamentare della norma.

Ma nemmeno il successivo CCNL Ministeri 2006-2009, stipulato il 14-09-2007, ha attuato la distinta disciplina dell’‘area dei professionisti’ e funzionari tecnico-scientifici, in quanto si è limitato a prevedere, agli artt. 35 e 37, che si sarebbe dovuta tenere un’ulteriore sessione contrattuale integrativa sulle tematiche riguardanti, fra l’altro, le “discipline previste… da specifiche disposizioni di legge, nonché le posizioni di coloro che svolgono attività… che richiedono l’iscrizione agli albi oppure che espletano compiti tecnico-scientifici e di ricerca”. Tale sessione però non si è tenuta e la ‘distinta disciplina’ contrattuale prevista dalla Legge n. 59/1997 e dal D.Lgs. n. 396/1997 non è stata più attuata nel comparto dei Ministeri.

Si deve quindi concludere che, mentre le parti contrattuali da una parte hanno reiteratamente riconosciuto la cogenza della norma legislativa sulla distinta disciplina e espresso l’impegno ad attuarla, ingenerando così nei funzionari destinatari un fondato affidamento sulla conclusione positiva della vicenda contrattuale, d’altra parte non sono pervenute – per motivi mai ufficialmente emersi – a una definizione operativa della disciplina, per la quale non mancavano peraltro modelli di analoghe discipline già esistenti a cui ispirarsi. Non risulta infatti da alcun documento che tale mancata attuazione possa trovare spiegazione in una particolare complicazione o difficoltà nel definire i particolari operativi della disciplina, né nel rifiuto di una parte contrattuale di accettare una proposta dell’altra, ovvero in una divergenza di merito su una concreta ipotesi di accordo, e tanto meno in impedimenti di ordine finanziario, non essendo la norma di legge quantitativamente vincolante in tal senso.

L’epilogo della vicenda normativa della ‘distinta disciplina’ si ebbe infine con l’intervento dell’art. 54 del D.Lgs. n. 150/2009, che ha sostituito nell’art. 40, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 la disposizione cogente sullo stabilimento della ‘distinta disciplina’ con altra assai più generica, che prevedeva che “Nell’ambito dei comparti di contrattazione possono essere costituite apposite sezioni contrattuali per specifiche professionalità”, attribuendo espressamente alla contrattazione collettiva una mera facoltà discrezionale in merito.20


3. La vicenda giudiziaria

3.1. Giudizio di primo grado

Constatata la definitiva inosservanza del precetto di legge istitutivo della ‘distinta disciplina’ da parte dell’Amministrazione quale parte contrattuale, un nutrito gruppo (188) di funzionari tecnico scientifici romani del Ministero dei beni culturali con più di 25 anni di carriera nel livello direttivo apicale (“C3 Super”), al quale sono attribuite le funzioni tecnico-scientifiche e di ricerca indicate dalla Legge n. 59/1997 e le più ‘elevate responsabilità’ istituzionali, rappresentato dall’Avv. G. Pasquale Mosca, ha presentato nel 2008 ricorso al Tribunale di Roma – Sezione lavoro contro il Ministero quale articolazione del Governo/parte contrattuale collettiva pubblica, domandando in via principale di “accertare e dichiarare il diritto dei ricorrenti di vedersi attribuita la distinta disciplina” prevista dalla L. n. 59/1997 e dal D.Lgs. n. 396/1997 e di “condannare l’Amministrazione convenuta all’attribuzione ai ricorrenti della distinta disciplina dei professionisti e funzionari tecnico-scientifici equiparati e alla corresponsione di quanto dovuto a titolo di differenze retributive non percepite”, in quanto il presumibile trattamento economico degli appartenenti alla ‘distinta disciplina’ poteva presumersi poziore sotto l’aspetto economico di quello contrattuale generale dei funzionari del comparto Ministeri in cui erano inquadrati,21 e “al risarcimento del danno”, in termini di danno alla professionalità e da riduzione di chances di ulteriori progressioni di carriera.

I funzionari hanno sottolineato che dal tenore testuale della normativa legislativa sulla distinta disciplina emerge un vero e proprio dovere, ovvero obbligo, per le parti contrattuali collettive – e quindi per l’Amministrazione convenuta22 – di ‘stabilire’ e attribuire agli appartenenti alle loro figure professionali, destinatarie indicate espressamente dalla Legge n. 229/2003, la distinta disciplina, con i presumibili connessi benefici economici.

I funzionari hanno sostenuto che, se il diritto soggettivo è la pretesa che nel rapporto giuridico è correlata all’altrui dovere od obbligo23, quando la legge che disciplina il loro rapporto di lavoro (il D.Lgs. n. 165/2001) ha disposto per l’Amministrazione (nella qualità di parte contrattuale collettiva/datrice di lavoro) un obbligo – e non una mera facoltà – di stabilire per le loro figure professionali una speciale, presumibilmente poziore sotto il profilo economico, ‘distinta disciplina’, è sorta per loro, quali destinatari certi della medesima indicati dalla legge una corrispettiva posizione di diritto soggettivo all’attribuzione dei vantaggi professionali ed economici implicati dalla medesima.

Quanto alla clausola aggiunta in sede delegata (D.Lgs. n. 396/1997) per cui apparentemente tutte le figure professionali indicate dal detto decreto avrebbero dovuto svolgere i rispettivi ‘compiti’ “in posizione di elevata responsabilità”, hanno ricordato che la sopra citata sent. Cass. n. 4253/2005 ha dichiarato che tale espressione è da considerarsi esclusivamente riferita alle figure professionali che svolgono ‘compiti di direzione’, aggiunte in tale sede ed esposto di essere comunque individualmente in possesso di tale requisito, sia legalmente in quanto appartenenti alle figure apicali del personale non dirigente a cui è attribuita istituzionalmente la posizione di più elevata responsabilità, sia materialmente, in quanto individualmente incaricati di funzioni di elevata responsabilità, sulla quale circostanza di fatto hanno ritualmente chiesto eventuale istruttoria di accertamento individuale, anche mediante prova testimoniale.

L’azione dei funzionari nei confronti dell’Amministrazione si configurava così come duplice:

1) di adempimento nei confronti dell’Amministrazione quale parte contrattuale collettiva obbligata dalla legge e dai contratti collettivi allora vigenti a stabilire la distinta disciplina nella quale, di conseguenza, avrebbero dovuto essere tutti inquadrati di diritto;

2) di risarcimento del danno nei confronti dell’Amministrazione quale parte contrattuale collettiva responsabile del danno derivante dal ritardo nell’attuazione della distinta disciplina, che avrebbe dovuto decorrere dal 1.1. 2000, data prevista dagli artt. 13 e 35 del primo contratto collettivo del comparto Ministeri 1998-2001.

Ma, essendo il predetto ritardo, con il citato ius superveniens dell’art. 54 del D.Lgs. 150/2009, che ha soppresso l’obbligo di stabilimento della disciplina, divenuto nel corso del giudizio inadempimento definitivo ratione temporis,24 sopravviveva di conseguenza la sola azione di risarcimento nei confronti dell’Amministrazione quale parte contrattuale collettiva responsabile solidale del danno, alla quale era solo strumentale l’accertamento dell’inadempimento. Costituendo infatti il precetto si legge di stabilire la distinta disciplina un obbligo collettivo di facere (di risultato) a prestazione indivisibile per le parti contrattuali, per l’inadempimento di esso si configura una responsabilità solidale degli obbligati ai sensi degli artt. 1317, 1319 e 1307 c.c., che poteva venir autonomamente imputata a ciascuna delle parti, potendo quindi i soggetti lesi chiedere il risarcimento del danno derivante anche ad una sola di esse.25

Il Giudice del lavoro del tribunale di Roma dott.ssa R. Quartulli, con la sentenza n. 17064 del 04-11-2010, ha rigettato il ricorso, rilevando in primo luogo che nessuna delle norme legislative e contrattuali invocate dai lavoratori contiene una disciplina sufficientemente specifica dell’area separata dei professionisti dipendenti immediatamente applicabile dal giudice. In particolare, per quanto concerne la materia della classificazione del personale, ha osservato che, mentre le norme legislative sul pubblico impiego (D.Lgs. n. 165/2001) dettano “regole del tutto peculiari” immediatamente applicabili soltanto per la categoria dei dirigenti, per quanto riguarda la ‘distinta disciplina’, “tutta la normativa invocata contiene un costante riferimento alla necessità di una preventiva determinazione della disciplina in sede di accordi sindacali. Ne consegue che in mancanza dell’introduzione della disciplina specifica i ricorrenti non possono vantare l’inquadramento rivendicato”.

È da osservare che, essendo la causa petendi dei funzionari, ovvero la circostanza di fatto della quale lamentavano l’illiceità, appunto la mancata introduzione nei contratti collettivi della ‘distinta disciplina’ destinata dalla legge alle loro professionalità, appare a prima vista del tutto tautologico e inconferente l’argomento del giudice per cui tale stessa circostanza sarebbe il motivo del rigetto. Il giudice infatti si è limitato a dichiarare l’inapplicabilità (logica) della nozione di ‘inquadramento’, che presuppone l’esistenza, nell’ordinamento professionale, di un determinato ‘quadro’, ovvero status giuridico-economico, nel quale il dipendente viene ‘inserito’ mediante l’attribuzione della relativa qualifica e delle relative funzioni e retribuzioni, alla fattispecie della mancata attuazione della distinta disciplina, in cui un ‘quadro’ in tal senso per definizione non esiste e un inquadramento’ nel quale è quindi impossibile ex adiecto. Dato che la mancata esistenza della disciplina è un fatto pacifico – anzi, è la causa petendi - del quale il giudice non può presupporre l’ignoranza da parte dei ricorrenti (come se avessero chiesto l’‘inquadramento’ nel senso sopra esposto in una disciplina che erroneamente ritenevano in qualche modo esistente giuridicamente), tale affermazione deve considerarsi la risposta logica a un petitum immediato interpretato nel senso che i funzionari avessero chiesto al giudice di effettuare un ‘inquadramento’ giudiziale ope legis in una ‘distinta disciplina’ contrattuale che il giudice stesso avrebbe dovuto stabilire in sostituzione di quella contrattuale mancante, avente i presumibili effetti giuridici ed economici di quella. La norma di legge sullo stabilimento della ‘distinta disciplina’ è però talmente generica da non offrire al giudice le necessarie indicazioni precontrattuali per poter operare un simile provvedimento (ovvero, il giudice non è in grado di poter provvedere all’esecuzione specifica integrando il contratto non concluso ai sensi dell’art. 2932 c.c.), per cui risulta impossibile accogliere un petitum immediato così interpretato. in tali termini.

Ma il petitum immediato va individuato dal giudice non in base a un mera e autonoma lettura letterale della prospettazione della parte, bensì in funzione logica del contesto della causa petendi e del petitum mediato sostanziale26 (in specie, “vedersi attribuita”, in ogni modo di giustizia, la ‘disciplina’ prevista dalla legge, come avevano domandato i funzionari in via principale), attribuendo ad esso in base al principio di conservazione degli atti una presumibile ragionevolezza “nel senso in cui esso abbia effetto [favorevole al petente], piuttosto che nel senso in cui non ne avrebbe”27 – come ha falsamente fatto il giudice. È corretta la premessa implicita del giudice, secondo cui il petitum sostanziale dei funzionari avrebbe avuto l’effetto desiderato solo se la contrattazione avesse adempiuto al dettato di legge stabilendo i dettagli operativi necessari per un ‘inquadramento’ nella distinta disciplina (che sarebbe poi seguito di diritto per i funzionari in base alla L. n. 229/2003 che ne indicava come destinatarie le figure professionali a cui appartenevano), ma la conseguenza corretta che doveva trarne era che il petitum immediato implicito corretto doveva essere individuato in un provvedimento di condanna dell’Amministrazione a concludere il contratto collettivo sul punto.28

Nel caso in cui sia precluso al giudice di poter provvedere all’esecuzione specifica integrando il contratto non concluso ai sensi dell’art. 2932 c.c., infungibile per mancanza di sufficienti indicazioni precontrattuali in tal senso gli è infatti consentito, ai sensi dell’art. 612 c.p.c., quando “la domanda non investe scelte e atti autoritativi dell’amministrazione (come per definizione non sono gli atti negoziali), di condannare l’Amministrazione quale parte inadempiente a un ‘facere’,29 in specie, a contrarre ovvero, rectius, ad attuare un concreto tentativo di giungere a un accordo contrattuale sul punto convocando, come era nei suoi poteri e come è di usuale prassi giudiziaria nei confronti di pubbliche amministrazioni,30 la contrattazione integrativa peraltro già prevista dall’art. 35 del CCNL 1998-2001, condanna che avrebbe un effetto obbligatorio immediato alla stregua di quello del tentativo di conciliazione fra le parti nel processo del lavoro imposto dagli artt. 410 e 412-bis c.p.c., salvo poi eventualmente qualificare come illecito un mancato accordo e far derivare da esso un determinato effetto, p. es. di risarcimento del danno. Al momento della sentenza, l’azione dei ricorrenti residuale al predetto ius superveniens, di cui il giudice non ha tenuto alcun conto era infatti soltanto quella di risarcimento del danno derivante dall’inosservanza della legge da parte dell’Amministrazione quale parte contrattuale responsabile solidalmente, da accertare in via meramente strumentale, a prescindere dalla forma dell’eventuale condanna all’adempimento che il giudice avrebbe potuto emettere, ormai irrilevante a tal fine e quindi il predetto effetto del detto provvedimento avrebbe pienamente potuto pienamente accogliere il petitum mediato sostanziale residuo dei ricorrenti. Ma, come vedremo, è l’esclusione pregiudiziale dell’ipotesi di ritenere l’Amministrazione, quale parte contrattuale, obbligata dalla legge ad attuare la distinta disciplina (e quindi responsabile dell’inadempimento), a precludere in effetti al giudice tale più corretta individuazione del petitum immediato, piuttosto che la falsa alternativa adottata.

Sulla questione principale, se dalla norma della legge istitutiva della distinta disciplina derivasse ai funzionari il vantato diritto a vedersela attribuita contrattualmente, il giudice non si è specificamente pronunciato in senso negativo, ma si è limitato ad escluderlo implicitamente affermando in modo del tutto generico e indiretto che le norme istitutive della distinta disciplina conferivano “una delega piena alla contrattazione collettiva per quanto concerne i requisiti di appartenenza all’area separata dei professionisti dipendenti nonché la disciplina del trattamento economico, dei passaggi interni, ecc.”. Nello stesso senso della precedente va l’altra affermazione del giudice, che la generalizza ulteriormente, secondo cui “il legislatore ha inteso affidare all’autonomia collettiva un processo di ampia delegificazione della disciplina del rapporto di lavoro pubblico”. Si deve pertanto logicamente dedurre che secondo il giudice la “delegificazione” generale della disciplina del rapporto di lavoro pubblico e la (presunta) “delega piena” della legge alla contrattazione per quanto riguarda l’attuazione (o meno) della distinta disciplina ha implicitamente comportato che il predetto diritto dovesse considerarsi insussistente, senza però addurre una specifica motivazione riferibile espressamente al tenore della predetta norma, come se la citata “delega piena” implicasse anche una facoltà della contrattazione di non stabilire la distinta disciplina, malgrado il precetto vincolante della relativa norma di legge, cosa che i testi legislativi non consentono affatto di affermare.

Essendo già stata ‘delegata’ alla contrattazione collettiva la competenza sulla disciplina del rapporto di lavoro pubblico dall’art. 2 del D.Lgs. n. 29/1993 e succ. mod., l’atto con cui la legge ha demandato alla contrattazione l’attuazione della distinta disciplina non consiste nel conferimento di un potere che la contrattazione non avrebbe, ovvero di una vera e propria ‘delega’,31 ma soltanto nell’assegnazione ad essa di un particolare compito normativo. La questione si riduce quindi alla valutazione della ‘modalità deontica’ dell’assegnazione di tale compito, se cioè essa è cogente ovvero ‘vincolante’, come hanno riconosciuto le stesse parti contrattuali nel citato accordo di interpretazione autentica del 2001, oppure se è meramente autorizzatoria, e tale ‘modalità deontica’ va anzitutto accertata mediante l’esame dei testi di riferimento.

La portata precettiva obbligatoria della disposizione sulla distinta disciplina della Legge delega n. 59/1997 emerge chiaramente da un puntuale esame ermeneutico del testo della disposizione più complessa della lett. d) dell’art. 11, comma 4, della L. delega n. 59/1997, in base al principio ubi voluit. Nella parte precedente alla istituzione della distinta disciplina, detta disposizione impartiva al legislatore delegato il compito di “prevedere che i decreti legislativi e la contrattazione possano distinguere la disciplina [generale] relativa ai dirigenti da quella concernente le specifiche tipologie professionali [dirigenziali]”, usando in modo espresso il verbo ‘potere’ (“possano”) ove il legislatore delegante intendeva espressamente conferire una mera facoltà, mentre nella parte dello stesso periodo immediatamente seguente sulla distinta disciplina disponeva “…e stabiliscano una distinta disciplina…” usando invece qui direttamente il congiuntivo presente iussivo “stabiliscano” senza la premessa del verbo ausiliario “potere”, evidentemente differenziando così ‘deonticamente’ i due precetti nel senso che il secondo sulla distinta disciplina è inteso come un comando imperativo e non più come una mera autorizzazione o ‘facoltizzazione’ come il primo. Inoltre, la predetta disposizione, nel conferire al governo la delega legislativa con la formula “prevedere che i decreti legislativi e la contrattazione …stabiliscano altresì una distinta disciplina…”, con la congiunzione “e” si articola in due distinti precetti aventi il medesimo oggetto – lo stabilimento della distinta disciplina – rivolti a due soggetti, ai quali assegna i rispettivi compiti; un primo precetto è rivolto al legislatore delegato e prevede che i decreti delegati ‘stabiliscano’ preliminarmente la distinta disciplina, cioè che la istituiscano di principio impartendo i criteri generali che la regolano e un secondo è rivolto direttamente alle parti contrattuali collettive e prevede che “la contrattazione” ‘stabilisca’ successivamente (nei dettagli attuativi di sua competenza) la distinta disciplina secondo i criteri eventualmente impartiti dai decreti delegati. Se la legge delega avesse voluto affidare esclusivamente alla contrattazione collettiva lo stabilimento della disciplina avrebbe presumibilmente soltanto detto che i decreti delegati dovevano “prevedere che la contrattazione stabilisca una distinta disciplina”, senza impartire anche ad essi il compito di ‘stabilirla’.

Il Governo, nell’esercitare la delega, non ha introdotto nel decreto delegato n. 396/1997 particolari criteri o modalità a cui avrebbe dovuto conformarsi l’attuazione contrattuale in dettaglio della ‘distinta disciplina’ e si è limitato a impartire direttamente il precetto di stabilire operativamente la disciplina alla contrattazione collettiva, evidentemente lasciando così a quest’ultima il massimo margine di autonomia sul quomodo. Ma intanto ̶ è da rilevare ̶ con l’esercizio stesso della delega in materia, il legislatore delegato ha assolto al primo precetto della legge delega di ‘stabilire’ preliminarmente la distinta disciplina, cosa che ha fatto in linea di principio almeno quanto all’an e al quid. Pertanto la ‘distinta disciplina’, introdotta nell’ordinamento dalla Legge delega n. 59/1997, deve considerarsi formalmente istituita e introdotta nell’ordinamento dal D.Lgs. n. 396/1997.

Il predetto decreto, all’art. 1, comma 1, ha poi nel medesimo senso espressamente disposto che per le figure professionali destinatarie “…sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto”. L’“uso dell’indicativo presente” da parte di un testo legislativo (nel caso “sono stabilite” e non “possono essere stabilite” o equivalenti) “…è sicuro indice della prescrizione di un obbligo”, come ha ribadito più volte la Corte costituzionale,32 e quindi la disposizione imperativa del D.Lgs. delegato n. 396/1997 deve intendersi nello stesso senso di quella della Legge delega n. 59/1997, e cioè che impone ai soggetti che costituiscono le parti contrattuali collettive l’obbligo di stabilire operativamente la distinta disciplina. Tale obbligo, sotto il profilo della formazione del contratto collettivo, è di ordine precontrattuale e consiste in una specifica (parzialmente atipica) fattispecie di obbligo a contrarre avente ad oggetto non un apposito intero contratto, ma solo un determinato contenuto di un successivo stipulando contratto.

A condurre alla stessa conclusione della cogenza imperativa della norma sulla distinta disciplina è la sua considerazione alla luce del canone ermeneutico del legislatore ‘non ridondante’, per il quale “è da escludere l’attribuzione ad un enunciato normativo di un significato che già viene attribuito ad altro enunciato normativo… più generale del primo”.33 Quando una norma specifica è relativa ad un solo aspetto di una materia o a una sola parte degli oggetti già contemplati da un’altra norma più generale, si deve presumere che in effetti il legislatore abbia inteso conferire alla norma più specifica un significato diverso, ovvero un quid pluris giuridico rispetto ad una mera – ridondante – esemplificazione particolare della norma generale, in specie quella del D.Lgs. n. 29/1993 che conferisce alla contrattazione la competenza, e quindi la facoltà generale, di disciplinare il rapporto di lavoro pubblico. Tale quid pluris, nel caso della norma sulla distinta disciplina, non può che essere quindi di portata precettiva, nel senso che il legislatore ha voluto conferire a tale norma specifica uno speciale valore precettivo cogente che non poteva intendesi ricompreso nella sola attribuzione generale di competenza normativa alla contrattazione collettiva, nel senso che ha inteso garantire con certezza che la distinta disciplina, il cui stabilimento attuativo pur rientra nell’ambito di iniziativa e competenza della contrattazione, sia in effetti realizzata concretamente. Contrariamente opinando, il semplice conferimento alla contrattazione da parte della legge di una facoltà in merito a una disciplina particolare sarebbe inutiliter datum, in contrasto col principio generale di conservazione degli atti che impone il “criterio secondo cui l’interpretazione della norma deve essere tale da attribuire alla medesima una qualche utilità”, ampiamente condiviso dalla giurisprudenza.34 Sempre contrariamente opinando, si giungerebbe più in generale all’assurdo di considerare di principio tutti gli eventuali precetti formalmente imperativi ovvero ‘cogenti’ contenuti nelle leggi incidenti sul pubblico impiego, come i numerosi del t.u. D.Lgs. n. 165/2001, affievoliti a semplici ‘proposte’ o ‘suggerimenti’ per la contrattazione,35 come se nel nostro ordinamento fosse precluso alla legge di impartire precetti imperativi in materia di lavoro pubblico.

A questo punto c’è da chiedersi in base a quale possibile ratio giuridica implicita il giudice ha potuto giungere alla sua conclusione disattendendo tacitamente tutti gli elementi testuali ed ermeneutici sopra e a lui esposti e comunque presumibilmente noti in base al principio iura novit curia, senza mostrare, come fa, nelle motivazioni un ragionamento logico conducente dal testo della norma specifica in materia alla sua conclusione che andasse oltre le due apodittiche e generiche affermazioni sopra riportate.

Tali affermazioni possono essere ricondotte a una ratio di diritto implicita dalla quale dipendono logicamente, che si può provvisoriamente esplicitare nel senso che ad avviso del giudice la contrattazione collettiva non era in alcun modo obbligata a ottemperare al precetto di legge sullo stabilimento della distinta disciplina, sulla base di un motivo prevalente di diritto, estraneo al testo della rispettiva norma di legge, dal quale non viene dedotto. La tesi alternativa, cioè che secondo il giudice fosse invece, come sarebbe stato più logico e coerente con il tenore della decisione, anzitutto la norma di legge sulla disciplina a non aver valore precettivo cogente, non trova infatti alcun riscontro nel testo della sentenza, che non fa alcuno specifico riferimento al testo della norma, non contesta espressamente le tesi contrarie dei ricorrenti sopra esposte e si limita a considerare legittima la mancata attuazione della distinta disciplina con le sole motivazioni dette.

È da rilevare che il giudice non ha nemmeno a tal fine ritenuto, p. es., di qualificare specificamente la mancata attuazione della disciplina come una legittima deroga (nella forma-limite della non applicazione) alla norma sulla distinta disciplina da parte della contrattazione collettiva.36 Anche considerando la ‘non applicazione’ di una norma di legge una forma-limite della deroga alla medesima, e quindi la mancata attuazione della distinta disciplina come una possibile ‘deroga’ dei contratti nazionali alle rispettive leggi istitutive, non si rinviene infatti una norma di legge che autorizzi la contrattazione collettiva a operare tale deroga riguardo alla norma sulla distinta disciplina.

L’unica, generica, facoltà di deroga alla legge in materia di rapporto di lavoro pubblica conferita alla contrattazione collettiva che si rinviene è quella introdotta dall’art. 2 del D.Lgs. n. 80/1998, che ha modificato l’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 29/1993 prevedendo che “Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano37 discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi…”, disposizione poi recepita dal D.Lgs. n. 165/2001 all’art. 2, comma 2, e rimasta in vigore (con le varianti apportate dal D.Lgs. n. 150/2009) nella forma riportata fino al 2017.38

La disposizione di deroga in questione è stata introdotta dal legislatore delegato, in accoglimento di forti pressioni delle OO.SS., nel manifesto intento di apprestare uno strumento per ‘riassorbire’ contrattualmente l’impatto che particolari norme di legge autonome e immediatamente applicabili a ristrette categorie di pubblici dipendenti – le c.d. ‘leggine’ fatte ‘passare’ da singoli parlamentari al di fuori della programmazione dell’attività legislativa delegata del Governo in materia – alterando in modo scoordinato l’assetto normativo contrattuale vigente, che sono sostanzialmente volte a eludere o ‘aggirare’ su punti particolari. Ma fra tali ‘leggine’ autonome derogabili non rientra per definizione il t.u. organico sul pubblico impiego D.Lgs. n. 165/2001 e quindi in particolare non vi può positivamente rientrare la norma che dispone lo stabilimento della ‘distinta disciplina’, compresa nell’art. 40, comma 2, del medesimo decreto, che questo, insieme con tutte le sue disposizioni, “fatte salve” dalla ‘delegificazione’ rende quindi inderogabile dalla contrattazione,39 all’art. 2, comma 2, dove conferisce alla contrattazione le competenze normative generali sul rapporto di lavoro pubblico. Il D.Lgs. n. 165/2001, che è la legge-quadro sul rapporto di lavoro pubblico, continuamente aggiornato nel corso del tempo, reca peraltro una serie di disposizioni che disciplinano direttamente vari aspetti del rapporto di lavoro pubblico40 che rientrerebbero tutti logicamente nella disciplina generale del medesimo rapporto, la competenza normativa sulla quale è attribuita dall’art. 2, comma 2, del medesimo decreto alla contrattazione collettiva ‘privatizzata’, costituenti il “dominio delle disposizioni legali inderogabili” dai contratti collettivi,41 che possono, tutt’al più, recepirle e integrarle con relative diverse modalità attuative di dettaglio (come, p. es., hanno fatto più volte per le norme in materia disciplinare del t.u. n. 165/2001). Ciò è indirettamente confermato dal fatto che tutte le successive norme di legge in materia di pubblico impiego sono intervenute in forma di modifiche al l D.Lgs. n. 165/2001 e non in forma autonoma, in quanto in tal modo rimangono espressamente inderogabili dalla contrattazione sotto la copertura della predetta norma di salvaguardia dell’art. 2 del predetto decreto, il quale ripartisce le rispettive competenze normative.

L’inderogabilità della norma sulla distinta disciplina ha quindi un fondamento autonomo che prescinde del tutto sia dalle modifiche intervenute sulla predetta norma di deroga che – ancor più – dalle soluzioni proposte in dottrina al controverso problema dell’operatività e della legittimità costituzionale della ridetta norma di deroga.42 Il punto di tutta la citata discussione dottrinale che rileva in questa sede è che nessuno degli autori coinvolti ha mai sostenuto e nemmeno prospettato che l’ambito operativo della predetta norma di deroga possa estendersi alle stesse disposizioni del testo quadro sul pubblico D.Lgs. n. 165/2001 (fra cui all’art. 40, comma 2, quella sulla distinta disciplina), che dall’art. 2, comma 2, del medesimo decreto, sono “fatte salve” (dalla ‘delegificazione’), per cui non è a tale norma che possa in alcun modo ricondursi oggettivamente la predetta ratio della decisione del giudice.

Si deve quindi concludere, per esclusione, che la ratio implicita della decisione del giudice debba più esattamente essere individuata nella tesi della sussistenza di una competenza normativa esclusiva della contrattazione collettiva in materia di rapporto di lavoro pubblico, sistematicamente prevalente sulla competenza normativa del legislatore,43 prescindente da qualsiasi fondamento positivo, tale da precludere la considerazione dell’ipotesi stessa della possibilità che la legge ponga un obbligo o vincolo qualsivoglia alla contrattazione collettiva. L’‘assoluta’ autonomia contrattuale collettiva del pubblico impiego ‘privatizzato’ sarebbe in tal senso addirittura più ‘ampia’ di quella prevista in generale per l’autonomia contrattuale privata dall’art. 1322 c.c., che pur ne circoscrive l’ambito entro i “limiti [anche positivi] imposti dalla legge” (si pensi p. es. ai contratti di locazione ad uso abitativo).

Una simile radicale tesi di ordine sistematico riecheggia peraltro, portandolo ad un insostenibile estremo, un orientamento dottrinale giuslavoristico, formatosi dapprima in relazione alle tematiche del rapporto di lavoro privato e più di recente emerso anche in relazione al rapporto di lavoro pubblico, che a quello privato va gradualmente assimilandosi sotto alcuni aspetti (p. es. telelavoro, valutazione della performance, premialità, ecc.).44 Tale orientamento si richiama oggettivamente a una posizione radicale espressa in origine da G. Giugni nel 1960, per cui l’ordinamento intersindacale, del quale l’autonomia contrattuale è espressione ai sensi dell’art. 39 Cost., sarebbe un “potere sociale organizzato” che si qualifica dal punto di vista giuridico addirittura come ‘ordinamento autonomo’ alternativo a quello statale.45 Una parte della dottrina giuslavorista rimasta più tenacemente ‘liberistica’, ancora integralmente aderente a tale orientamento radicale, continua a vedere nell’intervento della legge sugli ordinamenti professionali e sugli altri rapporti contrattuali un’indebita e illecita interferenza del legislatore con le libertà sindacali e l’autonomia contrattuale, spingendosi fino ad attribuire di principio alla contrattazione collettiva “un’illimitata facoltà di deroga, anche in peius, nei riguardi di norme di legge”.46 Evidentemente la sopra descritta ratio implicita della conclusione del giudice va ricondotta a tale più spinta frangia di orientamento, peraltro superata ormai largamente dalla parte più equilibrata e prevalente della dottrina.47

Occorre però anche ricordare in merito che la Corte costituzionale ha negato, nelle fondamentali sentenze n. 419/2000 (p.to 1548), 697/1988 e 141/1980, la sussistenza di una più generale riserva normativa sulla disciplina dei rapporti di lavoro favore dell’autonomia sindacale che possa richiamarsi all’art. 39, comma 3, Cost., il quale va più correttamente interpretato come norma di garanzia della libertà sindacale che come attribuzione di una riserva normativa alla contrattazione collettiva49”. La stessa Corte ha ribadito che il legislatore può intervenire sul contenuto dei contratti collettivi “con ciò fissando un inderogabile limite generale all’autonomia contrattuale delle parti» (sent. Corte cost. n. 19/2013), e più in generale che “il legislatore statale ben può intervenire…a conformare gli istituti del rapporto di impiego pubblico attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità” (sent. n. 95/2007), precisando che vi sono norme costituzionali (artt. 3, 4, 35, 36, 37, 97) le quali “non soltanto consentono, ma impongono al legislatore di emanare norme che incidono nel campo dei rapporti di lavoro” (sent. n. 106/1962), e quindi limitano l’ambito disponibile alla competenza della contrattazione collettiva, ed ha infine escluso in generale che gli accordi contrattuali collettivi siano “liberi di derogare alle disposizioni di legge in evidente contrasto col principio di legalità” (sent. n. 89/2013). Pur se la disposizione sulla distinta disciplina non è stata finora sottoposta allo scrutinio diretto della Corte costituzionale, non è pertanto plausibile che la sua interpretazione nel senso che la legge non può avere di principio efficacia sulla contrattazione collettiva, implicitamente presupposta dal giudice, possa essere ritenuta legittima costituzionalmente.

Se infatti è genericamente vero che il legislatore ha inteso avviare con la legge delega n. 421/1992 quello che il giudice chiama con vaga espressione un “processo di ampia delegificazione”, è anche vero che qualunque ‘ampiezza’ si voglia attribuire a tale ‘delegificazione’, che peraltro è stata anche notevolmente ‘ristretta’ dalle riforme ‘Brunetta del 2009 rispetto alla sua introduzione con la L. 421/1992, come ha registrato la dottrina che ha parlato addirittura di ‘rilegificazione’ del rapporto di lavoro pubblico,50 essa non è mai stata completa, nel senso che rimangono pur sempre per l’autonomia contrattuale “spazi preclusi a causa del dominio delle disposizioni legali inderogabili” (sent. Cass. 6063/2008).51 Come ha ribadito la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, sussistono di principio, come esposto, delle limitazioni, anche positive, che l’autonomia contrattuale incontra per effetto di disposizioni di legge incidenti sulla disciplina del pubblico impiego. La ragione è che quest’ultimo riveste un “carattere di specialità che deriva dall’applicazione dei principi di cui all’art. 97 Cost., tali da collocare il rapporto di lavoro pubblico a metà strada tra il modello pubblicistico e quello privatistico (così C. Cost. nelle sent. n. 313 del 1996 n. 309 del 1997)” (sent. Cass. n. 26377/2008), derivante dal rilievo di pubblico interesse delle attività dei dipendenti pubblici, e specialmente dei ‘funzionari’ ai sensi degli artt. 97 e 98 Cost., che giustifica che possano esser dettate a livello legislativo alcune regole immediatamente incidenti a tal fine sul loro rapporto di lavoro. Ci riferiamo alle “sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità dei funzionari” (specialmente dei dirigenti, ma non solo), alle quali la L. n. 421/1992, all’art. 2, comma 1, lett. c) ha aggiunto l’“autonomia professionale nello svolgimento delle attività scientifiche” che rileva specialmente per le attività ‘tecnico-scientifiche e di ricerca’ svolte dai funzionari tecnico-scientifici dei Beni Culturali, come p. es. l’individuazione dei beni e del loro contesto storico di provenienza ai fini della loro tutela, trattamento e fruizione. Vige così in tal senso una riserva ‘assoluta’ di legge che prevede la sottrazione integrale alla contrattualizzazione privatizzata della disciplina di alcune categorie (p. es. carriera diplomatica, carriera prefettizia) e una riserva ‘relativa’ di legge per alcuni aspetti della disciplina del rapporto di lavoro di altre categorie di elevata qualificazione dei funzionari pubblici ‘privatizzati’, che viene così parzialmente sottratta al libero gioco della contrattazione collettiva, nel quale sulla tutela degli interessi pubblici relativi a tali poco numerose categorie potrebbero prevalere altri interessi corporativi di categorie più numerose esprimenti una preponderante rappresentazione sindacale.52 In tal senso si deve ritenere che la ratio dell’affidamento preliminare da parte del legislatore delegante della L. n. 59/1997 ai decreti delegati di un primo ‘stabilimento’ della distinta disciplina vada individuata nell’intento di consentire al legislatore delegato l’eventuale esercizio della riserva relativa di legge quanto ai criteri direttivi di attuazione della disciplina attinenti alle predette materie relativamente riservate, come ha del resto chiaramente precisato la giurisprudenza di legittimità, che ha affermato che nella L. n. 59/1997 “obiettivo minimo del legislatore è il riconoscimento delle specifiche professionalità e delle sfere di autonomia e responsabilità ricollegate a talune attività professionali” (sent. Cass. n. 4253/2005, conf. n. 27694/2011).

Tale sistema di ‘concorrenza’ delle fonti si articola precipuamente su due rispettivi livelli distinti gerarchicamente ma funzionalmente complementari; esso da una parte mantiene la supremazia gerarchica della legge e dall’altra riconosce all’autonomia collettiva un ambito operativo contrattuale di sua competenza normativa, finalizzato ad assicurare la corrispondenza fra retribuzioni e qualità e quantità del lavoro (art. 36 Cost.), l’esercizio dei diritti sindacali dei lavoratori (art. 39 Cost.), nonché l’efficienza e la coerenza organica dell’assetto contrattuale complessivo del lavoro pubblico (art. 97 e 98 Cost.), e pertanto tale sistema appare pienamente compatibile con la precettività cogente di norme di legge come quella sulla ‘distinta disciplina’ conformi ai suoi principi ispiratori.


3.2. Giudizio di appello

I funzionari hanno presentato nel 2011 ricorso in appello per la riforma della predetta sentenza del Giudice del lavoro di Roma, domandando in via principale, tenuto conto del sopraddetto ius interveniens dell’art. 54 del D.Lgs. n. 150/2009 che ha soppresso la ‘distinta disciplina’ e quindi estinto l’azione di adempimento, di condannare l’Amministrazione convenuta, quale parte contrattuale collettiva obbligata dalla legge medesima a stabilirla, “al risarcimento del danno [già ritualmente richiesto in primo grado] per la mancata attuazione della ‘distinta disciplina’”, all’attribuzione concreta della quale ritenevano di avere ratione temporis diritto. I funzionari hanno contestato la conclusione di rigetto del primo giudice in quanto palesemente infondata alla luce di una puntuale lettura dei testi normativi (sopra esposta), hanno ribadito che la loro posizione di diritto sorgeva dall’obbligo di stabilire la distinta disciplina nel contratto collettivo che le norme istitutive (L. n. 59/1997 e D.Lgs. n. 396/1997) ponevano alle parti contrattuali e dall’univoca indicazione dei profili professionali a cui appartenevano come destinatari certi della disciplina da parte della L. n. 229/2003.

I funzionari hanno in particolare contestato la genericità, apoditticità e inconferenza delle apparenti motivazioni di tale conclusione, che si sono limitate a richiamarsi al “processo di ampia delegificazione della disciplina del rapporto di lavoro pubblico” affidato dal legislatore all’“autonomia collettiva e a una presunta non meglio precisata “delega piena” conferita dal legislatore alla medesima “per quanto concerne i requisiti di appartenenza all’area separata dei professionisti dipendenti”, disattendendo le norme di legge (L. n. 229/20039) che invece li stabilivano direttamente includendovi le figure professionali dei ricorrenti e hanno sostenuto che il thema decidendum non era se la contrattazione collettiva avesse o meno la competenza di emanare le predette norme di dettaglio attuative, ma se essa fosse obbligata o meno dalla legge ad attuare la distinta disciplina, con presumibili conseguenze di vantaggio professionale ed economico per i destinatari.

I ricorrenti hanno ribadito che, a differenza di quanto traspare dalla tesi del giudice di primo grado, il processo di delegificazione del rapporto di pubblico impiego non ha l’effetto di rendere inefficace la fonte legislativa ma, piuttosto, quello di trasferire alla contrattazione collettiva la regolamentazione della parte della disciplina del lavoro pubblico non riservata assolutamente alla legge. I funzionari hanno ribadito che la mancata determinazione contrattuale dei contenuti attuativi della distinta disciplina è da qualificarsi, come sopra esposto, come mera inosservanza di fatto della legge, e non come legittima deroga (in forma di ‘non applicazione’) alla legge da questa autorizzata e tanto meno come esercizio di una ‘facoltà’ generale della contrattazione collettiva di non applicare la legge incidente sul rapporto di lavoro pubblico.

I funzionari appellanti hanno insistito sulla configurabilità dell’inadempimento dell’Amministra-zione convenuta, quale parte contrattuale collettiva, all’obbligo di stabilire la distinta disciplina ad essa posto dalla legge, da essa stessa riconosciuta “vincolante” nel CCNL di interpretazione autentica del 2001 citato e in reiterati impegni contrattuali a stabilirla del pari citati, che a loro avviso costituivano a loro volta fonte di ordine precontrattuale del loro diritto, e della conseguente responsabilità solidale dell’Amministrazione. Hanno inoltre ricordato che l’Amministrazione convenuta non ha dimostrato in giudizio che la determinazione contrattuale della disciplina non si è conclusa per causa ad essa non imputabile (art. 1218 c.c.), né di aver esercitato pienamente a tal fine i sovraordinati poteri di indirizzo nei confronti dell’ARAN – sua rappresentante – che l’art. 41 del D.Lgs. n. 165/2001 conferisce ad essa proprio in ordine all’eventualità che l’autonomia collettiva non rispetti i dettati legislativi incidenti nel suo ambito di competenza.

In subordine alla sussistenza di un loro diritto soggettivo, i funzionari hanno prospettato, quale titolo al risarcimento del danno per la mancata attuazione della distinta disciplina, la sussistenza di un loro interesse legittimo (di diritto privato) all’attuazione della distinta disciplina, meritevole di tutela, in quanto fondato sulla formazione e radicamento di un affidamento sull’esito positivo dell’attuazione contrattuale della disciplina prevista dalle norme di legge (n. 59 e n. 396/1997), reiteratamente recepita come vincolante e annunciata come imminente dai contratti collettivi sopra citati, affidamento divenuto poi ragionevole certezza con la L. n. 229/2003 che confermava nominativamente i loro profili professionali quali destinatari della disciplina. Si era così infatti formata a loro avviso una “situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole” dalla quale, secondo la storica sent. Cass. S.U. n. 500/1999 (p.to 9),53 può sorgere una posizione tutelabile di interesse legittimo nei confronti della p.a. (di diritto privato, trattandosi di attività negoziale). I funzionari hanno lamentato che l’ingiusta vanificazione di tale affidamento ha determinato un danno esistenziale, oltre che economico, per la frustrazione della loro dignità professionale54 e per l’alterata programmazione delle loro carriere.55

I funzionari hanno rilevato in merito che i destinatari certi della disciplina, se pur ‘terzi’ estranei all’attività negoziale contrattuale della p.a., erano legittimamente interessati al suo esito positivo nei loro confronti, alla stessa stregua di come la giurisprudenza ha riconosciuto che il dirigente in attesa di incarico è legittimamente interessato all’esito positivo dell’attività negoziale istruttoria dell’amministrazione finalizzata al conferimento dell’incarico.56 Quando tale esito positivo viene precluso dalla illecita violazione da parte della p.a. dei canoni di correttezza, diligenza e buona fede (ai quali possono aggiungersi, per la p.a., in base al principio di legalità che deve presiedere a tutta la sua attività, le norme che regolano l’attività in questione, l’inosservanza delle quali rileva alla stregua di violazione del canone di correttezza), dovrebbe scattare la tutela del dipendente leso ai sensi dell’art. 2043 c.c. , come ha affermato la giurisprudenza di legittimità in materia.57

La Corte d’appello di Roma, (dott. F. Curcuruto pres., dott.ssa F. Perra cons. rel.) con sentenza n. 10522 del 04-12-2013, confermava la sentenza di rigetto del Tribunale, ritenendo che la decisione impugnata fosse “basata su una corretta interpretazione della normativa in materia”. La Corte ha fatto propria la motivazione tautologica del primo giudice sull’inapplicabilità immediata delle disposizioni sulla distinta disciplina affermando che “la previsione normativa invocata dagli appellanti, nonché la disposizione pattizia attuativa di cui all’art.13 del CCNL 1998-2001, pur prevedendo l’istituzione di una disciplina - area separata dei professionisti dipendenti, non era direttamente applicabile ma necessitava, per l’attuazione, dell’intervento delle parti contrattuali a livello nazionale che doveva valutare gli elementi [attuativi di dettaglio] espressamente previsti dall’art. 37 del CCNL 1998-2001…”, per cui nessun diritto potevano vantare gli appellanti in forza delle predette disposizioni.

A supporto indiretto della sua decisione la Corte territoriale ha affermato genericamente che “nel sistema legislativo del pubblico impiego c.d. privatizzato non solo la disciplina del rapporto è demandata alla contrattazione collettiva ma questa deve anche tenere conto dei limiti di spesa e di bilancio come previsto espressamente dall’art. 54 D.Lgs. 150/2009”, senza però dimostrare che l’attuazione della distinta disciplina – per la quale la legge non determinava alcun quantitativo minimo di spesa – sia stata specificamente preclusa da tale circostanza. La Corte non ha peraltro tenuto conto che i fondi del bilancio statale dedicati al finanziamento dei contratti collettivi, e in particolare ai trattamenti economici di base (c.d. ‘tabellari’), non sono mai ripartiti per categorie di personale, sulle rispettive risorse per le quali esistono comunque non trascurabili margini di flessibilità interna.58

La Corte ha poi appoggiato indirettamente la sua decisione a un altrettanto generico richiamo ad un’“affinità” – cioè non a un’“analogia” in senso giuridicamente stretto – tra la questione di causa e l’istituzione della qualifica e area della ‘vicedirigenza’ per i funzionari ministeriali laureati di VIII e IX qualifica con almeno cinque anni di anzianità, introdotta dall’art. 7 della L. n. 145/2002 come art. 17-bis nel D.Lgs. n. 165/2001, richiamando la sent. Cass. S.U. n. 14656/2011 sull’“«area» della vice-dirigenza” ,59 la quale ha affermato che la legge “nel prefigurare una nuova qualifica dei dipendenti pubblici ̶ quella di ‘vice dirigente’ ̶ ne ha demandato ‘la disciplina dell’istituzione’, e quindi innanzi tutto l'istituzione, alla contrattazione collettiva” e che si trattava quindi, in sostanza, “di una disciplina che, nell’immediato, non era autoapplicativa”, analogamente a quella prevista per i ‘quadri’ dalla L. n. 190/1985, sulla quale ha riportato il soprariferito revirement della giurisprudenza di legittimità sull’applicazione diretta della L. n. 190/1985 sulla categoria dei ‘quadri’, osservando che la norma di interpretazione autentica dell’art. 8 della L. n. 15/2009 ha dichiarato che la norma introduttiva della vice dirigenza si deve intendere nel senso che “…la vicedirigenza è disciplinata esclusivamente ad opera e nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale del comparto di riferimento, che ha facoltà di introdurre una specifica previsione costitutiva al riguardo”. La riportata sentenza ha quindi ritenuto che, secondo tale norma l’istituzione della vicedirigenza non deve considerarsi operata immediatamente dalla legge in modo che ne possa derivare un eventuale diritto alla qualifica di vicedirigente per i destinatari indicati dalla legge medesima.

La Corte territoriale ha inoltre rilevato che il diritto rivendicato dai ricorrenti non sarebbe neppure individuabile in base alla norma di legge (L. n. 229/2003), che ha indicato le professionalità ovvero profili professionali destinatari della disciplina, in quanto tale indicazione dovrebbe essere integrata dalla valutazione dell’ulteriore requisito della “posizione di elevata responsabilità” di cui all’art. 1 del D.Lgs. delegato n. 396/1997, discostandosi implicitamente senza alcuna motivazione apparente dalla sent. Cass. n. 4253/2005 addotta dai ricorrenti, per la quale l’apparente requisito generale della ‘posizione di elevata responsabilità’ va in effetti riferito solo alle figure che svolgono compiti di direzione.

Quanto al mancato esercizio del potere di indirizzo dell’Amministrazione nei confronti dell’ARAN, invocato dagli appellanti quale mezzo disponibile all’Amministrazione stessa per adempiere nel CCNL 1998-2001 ai dettati della legge incidenti sulla contrattazione collettiva al fine di connotare una mancanza della sufficiente diligenza nell’adempiere l’obbligazione richiesta in generale dall’art. 1176 c.c. da parte dell’Amministrazione, e quindi il suo concorso di responsabilità per l’inadempimento, la Corte si è limitata a osservare tautologicamente che tale potere non riguardava le OO.SS. quale parte collettiva e che i singoli lavoratori non erano quindi intitolati a contestarne l’esercizio. Va anzitutto notata l’inconferenza dell’osservazione, in quanto i funzionari non hanno contestato giudizialmente l’illegittimità di tale mancato specifico atto endoprocedimentale di indirizzo della p.a., che, essendo di per sé di natura non negoziale, non è nemmeno impugnabile davanti al giudice ordinario. È poi da rilevare che, pur se il predetto potere di indirizzo, riguardando solo la parte pubblica della contrattazione, non può in linea di principio predeterminare unilateralmente il contenuto del contratto collettivo che deve scaturire dalla negoziazione, va tenuto presente che fra i poteri dell’ARAN vi sarebbe stato quello di convocare unilateralmente le sezioni di contrattazione integrativa appositamente previste dalle sopra citate norme contrattuali per l’attuazione conclusiva della distinta disciplina, cosa che parimenti non ha dimostrato di aver fatto, e che è funzione precipua del Governo quale parte contrattuale collettiva assicurare il rispetto delle leggi incidenti sul rapporto di lavoro pubblico, che giustifica il ruolo ‘asimmetrico’ e più incisivo della parte pubblica nella contrattazione collettiva che essa ha nel nostro ordinamento.60

Infine, per quanto riguardava la prospettazione subordinata della sussistenza di una lesione di un interesse legittimo dei funzionari all’attuazione della distinta disciplina, la Corte d’appello ne ha precluso l’esame stesso, affermando che questa costituisse “una nuova domanda ai sensi dell’art. 2043 c.c.”, non formulata in primo grado e quindi inammissibile in appello, tesi che è stata implicitamente rigettata dalla in sede di cassazione dalla Suprema Corte, come si dirà.


3.3. Giudizio di cassazione

Nel 2014 i funzionari hanno presentato ricorso per cassazione della sentenza di appello.

Con il primo motivo hanno dedotto la violazione delle disposizioni legislative e contrattuali sullo stabilimento della distinta disciplina, sottolineando il carattere imperativo delle prime61 e censurando la sentenza di appello per aver mancato di riconoscere la sussistenza ratione temporis di un diritto soggettivo dei destinatari all’attribuzione della distinta disciplina derivante dall’obbligo che le citate norme di legge ponevano alla contrattazione collettiva – e quindi all’Amministrazione quale parte contrattuale – di stabilirla per le figure professionali a cui appartenevano.

I funzionari hanno contestato l’affermazione della Corte territoriale secondo cui tale diritto non poteva sussistere in mancanza dell’attuazione contrattuale della disciplina, che ha continuato a interpretare, come il primo giudice, in modo riduttivo e quindi inesatto la loro domanda come richiesta di “inquadramento” in una ‘distinta disciplina’, ovviamente impossibile in assenza del suo stabilimento contrattuale, e ha considerato quindi, con argomento palesemente tautologico, causa dell’insussistenza del diritto dei funzionari la stessa inadempienza alla legge che glielo attribuiva da parte della contrattazione collettiva.

Così facendo – hanno rilevato i funzionari – la Corte territoriale ha dimostrato di non aver individuato correttamente la causa petendi della controversia, che era la mancata attuazione contrattuale operativa della disciplina alle figure professionali dei ricorrenti e di non aver tenuto conto dello ius superveniens dell’art. 54 del D.Lgs. n. 150/2009, che ha soppresso l’obbligo di stabilire la disciplina, per cui l’azione dei funzionari non poteva più vertere su una (presunta) pretesa di ‘inquadramento’ diretto in essa, ma verteva ormai solo sul risarcimento del danno per la sua mancata attuazione.

La Corte d’appello – hanno lamentato i ricorrenti – ha confermato la decisione del giudice di prime cure motivando di fatto per relationem alla sua sentenza senza esibire un percorso “logico autonomo di ragionamento” che dalle circostanze di fatto e dalla normativa di riferimento l’abbia portata autonomamente alla medesima conclusione (sent. Cass. n. 7673/2019), senza contestare specificamente la fondatezza dei loro argomenti riferiti agli elementi testuali e contestuali sistematici della predetta norma, limitandosi a richiamare apoditticamente una presunta “affinità” (termine atecnico di mero valore retorico) della ‘vicenda’ giudiziaria della distinta disciplina con quella della ‘vicedirigenza’ conclusa dalla sopra citata sent. Cass. S.U. n. 14656/2011, in forza della quale – si deduce – ha implicitamente ritenuto che si dovesse attribuire anche alla norma istitutiva della distinta disciplina un carattere meramente facoltativo.

Va ricordato in merito che la giurisprudenza consolidata della S.C. ha precisato che il ricorso in sede giudiziaria all’analogia come ratio decidendi deve essere limitato esclusivamente al caso, consentito in sede interpretativa dall’art. 12 Prel., in cui “manchi nell’ordinamento una specifica disposizione regolante la fattispecie concreta e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria”.62 Ma sulla materia della distinta disciplina non vi era alcun ‘vuoto normativo’, in quanto esisteva su di essa tutta la specifica ed autosufficiente normativa legislativa e contrattuale più sopra esposta, per cui non era comunque processualmente giustificato un ricorso all’analogia con altra materia sostituivo dell’esame delle specifiche norme esistenti su quella in esame.

In merito poi a tale presunta “affinità”, i ricorrenti hanno osservato anzitutto che la citata norma sulla vicedirigenza della L. n. 145/2002 era oggettivamente e sistematicamente molto diversa da quella sulla distinta disciplina sotto almeno due aspetti fondamentali.

Anzitutto, la L. n. 145/2002 prevedeva che “La contrattazione…disciplina l’istituzione di un’apposita area della vicedirigenza…”, demandando così alla contrattazione l’istituzione stessa della vice dirigenza, come ha osservato la citata sent. Cass. S.U. n. 14656/2011,63 costituendo la contrattazione collettiva come unica fonte sia dell’istituzione che dell’attuazione della vicedirigenza stessa, mentre la L. delega n. 59/1997 costituiva i decreti delegati, ai quali demandava in prima istanza il compito preliminare di “stabilire” la distinta disciplina, come fonte legislativa primaria dell’istituzione della disciplina preliminare in linea di principio alla contrattazione, istituzione che il D.Lgs. n. 396/1997, esercitando la delega sul punto, ha operato imponendo imperativamente, come sopra esposto, alla contrattazione di stabilirne la parte attuativa, per cui non è stata affidata dalla legge in materia alla contrattazione collettiva – fonte secondaria – alcuna autonomia discrezionale quanto all’an e al quid, ma solo quella di stabilire il quomodo quanto ai dettagli operativi della disciplina secondo l’ordinaria autonomia contrattuale. Non si verifica pertanto nel caso della distinta disciplina “Il carattere ‘esclusivo’ dell’investitura della contrattazione collettiva” che la citata sent. Cass. S.U. n. 14656/2011 ha ravvisato nel caso della vicedirigenza come ratio della norma di interpretazione autentica dell’art. 8 della L. n. 15/2009 sopra citata. D’altra parte, se le materie fossero state così ‘affini’ come ritiene la Corte territoriale, la predetta norma di interpretazione autentica sarebbe presumibilmente intervenuta nello stesso senso e ai medesimi fini anche sulla norma sulla distinta disciplina, che era allora ancora in vigore.

Un altro aspetto di differenza sostanziale fra le due ‘vicende’ segnalato dai funzionari riguarda il comportamento tenuto in esse dal legislatore e dalle parti contrattuali collettive, di carattere sostanzialmente opposto. Nel citato CCNL di interpretazione autentica dell’art. 13 del CCNL Ministeri 1998-2001, mentre le parti escludevano la sussistenza di un obbligo per la contrattazione collettiva di istituire ai sensi della L. n. 190/1985 un’area “quadri” intermedi nel pubblico impiego ̶ come di fatto sarebbe stata la vicedirigenza, la cui istituzione pertanto non è mai stata prevista nei contratti collettivi del pubblico impiego negli anni (2002-2009) precedenti l’entrata in vigore della citata norma di interpretazione autentica ̶ veniva invece riconosciuto nel CCNL di interpretazione autentica del 2001 dalle medesime parti il carattere “vincolante” per la contrattazione, della disposizione della L. n. 59/1997 e del D.Lgs. n. 396/1997 sulla distinta disciplina, come dichiarato anche da espressi impegni delle parti nel predetto contratto collettivo 2002-2005 (art. 9) e in quello 2006-2009 (artt. 35 e 37) del comparto Ministeri. In tal senso il legislatore, con la L. 229/2003, è intervenuto per facilitare l’attuazione della distinta disciplina indicandone espressamente le figure destinatarie, mentre, per quanto riguarda la vice dirigenza, è intervenuto con la citata norma di interpretazione autentica della L. n. 15/2009 di fatto per bloccare l’estensione dei giudicati con cui stava venendo riconosciuto ai destinatari il diritto alla qualifica di vice dirigente, appunto espressamente fatti salvi dall’ultimo periodo dell’art. 8 della legge.64

Con il secondo motivo i ricorrenti hanno censurato la sentenza di appello per aver respinto il ricorso con il rilievo irrituale per cui, ai fini dell’individuazione dei ricorrenti quali effettivi destinatari della distinta disciplina occorreva “integrare” la loro appartenenza alle figure professionali indicate dalla L. n. 229/2003 con l’ulteriore requisito della ‘posizione di elevata responsabilità’, di cui peraltro non ha nemmeno affermato la positiva carenza generale in capo ai medesimi, disattendendo, senza alcuna specifica motivazione, la sopra citata sent. Cass. n. 4253/2005 addotta dai ricorrenti, per la quale l’apparente requisito generale della ‘posizione di elevata responsabilità’ va in effetti riferito solo alle figure che svolgono ‘compiti di direzione’. La Corte, hanno lamentato i ricorrenti, aveva peraltro “il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge”65 in materia dato che il D.Lgs. n. 396/1997 poneva l’apparente possesso del requisito della “posizione di elevata responsabilità” (a prescindere dal suo più esatto riferimento) fra gli autonomi criteri legali di individuazione come destinatarie della disciplina delle ‘figure professionali’ indicate dalla legge in base alle attribuzioni di queste (per cui la posizione di ‘elevata responsabilità’ era desumibile dalla posizione apicale. Area “C” 3, da tutti loro rivestita nell’ordinamento, alla quale questo attribuisce il massimo livello di responsabilità non dirigenziale) e non dei singoli ‘dipendenti’ eventualmente ad esse non appartenenti, che svolgevano i medesimi compiti. La legge infatti non poneva i requisiti delle predette figure professionali quali oggetto di specificazione demandato alla contrattazione collettiva, come invece ha fatto p. es. la L. n. 190/1985 per la categoria dei quadri,66 spettando quindi al giudice, alla stessa stregua degli altri soggetti a cui spettava di applicarla (contrattazione collettiva e amministrazioni datrici), di interpretare direttamente la legge ai fini della sua applicazione.

I funzionari hanno in subordine obiettato di avere allegato nel ricorso in primo grado anche il possesso fattuale individuale di tale posizione di ‘elevata responsabilità’ negli incarichi funzionali che personalmente svolgevano, chiedendone l’accertamento in via istruttoria. Tale circostanza di fatto, da loro ritualmente allegata nel ricorso in primo grado, non è stata peraltro specificamente contestata dal Ministero né in primo grado, né in appello, per cui i giudici di merito avevano il dovere di ritenerla sussistente ai sensi dell’art. 115 c.p.c.,67 restando eventualmente comunque – in alternativa – loro facoltà acquisirne in via istruttoria la prova.68 I ricorrenti hanno infine rilevato la contraddizione per cui da una parte la Corte territoriale ha ritenuto necessaria l’integrazione processuale del predetto apparente requisito e dall’altra non ha consequenzialmente proceduto ad accertarne in via istruttoria il possesso individuale, richiesto dagli stessi funzionari.

Con il terzo motivo i ricorrenti hanno censurato la statuizione della Corte territoriale di inammissibilità della prospettazione del titolo al risarcimento del danno in riferimento a lesione di interesse legittimo (di diritto privato) ex art. 2043 c.c., in quanto domanda nuova. I ricorrenti hanno esposto che tale prospettazione non era una ‘domanda’ ‘nuova’, ma soltanto una qualificazione giuridica alternativa subordinata del medesimo fatto dannoso su cui si fonda la causa petendi – la mancata attuazione della distinta disciplina – qualificazione che è comunque un potere/dovere del giudice individuare, indipendentemente dalla formulazione che ne dà la parte, come ha confermato la giurisprudenza di legittimità.69

A sostegno degli argomenti relativi al primo e al terzo motivo, i ricorrenti hanno depositato una memoria, nella quale, riguardo al primo motivo, hanno esposto che, per valutare correttamente la portata precettiva della disposizione di legge del D.Lgs. n. 396/1997 sulla distinta disciplina nei confronti dei destinatari, occorre considerarne, oltre a quelle di ordine testuale sopra riportate, anche le sue caratteristiche di ordine sistematico, ovvero la sua natura di norma ‘primaria’ che demanda la sua attuazione a una norma ‘secondaria’, nel senso corrente in giurisprudenza per connotare due norme che si trovano in un tipico rapporto di ‘concatenazione produttiva’,70 nel quale la norma primaria disciplina una materia in modo relativamente generico e aperto e dispone che i contenuti di tale disciplina o parte di essi siano ulteriormente specificati ai fini applicativi da una norma attuativa di livello subordinato, enunciando anche eventualmente i criteri direttivi di tale specificazione. In questo ‘meccanismo’, “la norma secondaria è legata da un nesso di complementarità e insieme di subordinazione funzionale alla norma primaria”71 e, tramite tale ‘nesso’ la norma primaria esplica effetti giuridici immediati peculiari.

La norma primaria può enunciare – come fa in specie quella sulla distinta disciplina – una ‘regola di relazione’ che può attribuire a determinati soggetti una situazione giuridica attiva in una forma relativamente generica e aperta, la quale richiede una ulteriore specificazione da parte della norma secondaria per essere applicata in concreto (e in tal caso per definizione non è ‘autoapplicativa’), ed enunciare una correlativa ‘regola di azione’ rivolta a un soggetto ‘normatore secondario’, la quale può conferire eventualmente ad esso il potere (di cui non fruisce) e impartisce comunque il compito (con modalità ‘deontica’ autorizzatoria nel primo caso o precettiva nel secondo) di specificare il contenuto della regola di azione ed eventualmente integrarlo con altre norme attuative di dettaglio rientranti nella sua competenza normativa.

Nel nostro ordinamento la norma primaria può così avere anche una precipua “efficacia immediata”, come ha affermato la Corte costituzionale nella sent. n. 224/1990 a proposito della tipica norma primaria che è la legge di delega, che possiede “tutte le valenze tipiche delle norme legislative”, “i principi e i criteri di cui consta” non devono essere “configurati come norme ad efficacia differita” in quanto da essi “potrebbe derivare una diretta e immediata incidenza” sulle situazioni giuridiche contemplate, nel caso esaminato, di contrasto con norme costituzionali.

In tal senso, la genericità o insufficienza di determinazione del contenuto della ‘regola di relazione’ della norma primaria (cioè la sua inapplicabilità immediata) non significa ipso facto un’inefficacia immediata assoluta della norma, in quanto essa (mediante la regola di azione) dispone con certezza la propria determinabilità ai sensi dell’art. 1346 c.c., prevedendo che sia il normatore secondario a determinare il suo contenuto secondo i tempi e criteri direttivi da essa impartiti.

I funzionari hanno quindi sostenuto che è perciò inesatta la tesi della Corte di appello secondo la quale dalla norma sulla distinta disciplina non potevano sorgere diritti per i destinatari a causa dell’indeterminazione del suo contenuto; la predetta norma primaria assume nei confronti del contratto collettivo una funzione di ordine precontrattuale, obbligando le parti contrattuali a specificare nel contratto collettivo la distinta disciplina, la quale, ancorché individuata dalla norma primaria in modo del tutto generico, lo è pur tuttavia in modo sufficiente a consentire di reperire nell’ambito ordinamentale di riferimento (le discipline contrattuali già esistenti per i professionisti, i tecnologi e i ricercatori) i tipici contenuti essenziali minimi in cui può articolarsi ai fini applicativi, come ha precisato la giurisprudenza citata.72 Pertanto, hanno concluso, quando, con la ‘regola di relazione’, la ‘regola di relazione’ della norma primaria attribuisce a ben determinati soggetti destinatari una posizione che, se pur indicata in una forma generica, si configura indubbiamente come posizione di vantaggio, essa esplica un effetto giuridico corrispettivo nei confronti di tali soggetti, per i quali costituisce in tal modo una posizione soggettiva tutelabile in forma risarcitoria in caso di mancata osservazione del precetto della norma primaria.

I funzionari hanno ricordato che tale effetto giuridico diretto della norma primaria nel ‘meccanismo di concatenazione produttiva’ sopra descritto è stato ampiamente riconosciuto nel diritto europeo dalla giurisprudenza della S.C. recettiva della nota sent. C.G.C.E. del 19-11-199173 sulla direttiva 82/76/CEE che attribuiva genericamente ai medici specializzandi una non meglio precisata ‘retribuzione’, che gli Stati avrebbero dovuto specificare nel quantum e nel quomodo con proprio provvedimento legislativo attuativo, che però lo Stato italiano non aveva emanato. Secondo tale giurisprudenza, dalla direttiva, vincolante per gli stati membri, sorge immediatamente in capo ai soggetti destinatari un “diritto soggettivo ad acquisire la titolarità del diritto” alla retribuzione (e non solo un pur ipotizzabile mero interesse legittimo),74 ovvero una peculiare figura di diritto, per così dire, di secondo ordine, a conseguire un altro diritto e non già immediatamente il bene oggetto di quest’ultimo.

Di conseguenza, pur se sul piano interno non può configurarsi un’azione di adempimento della direttiva europea, essendo la funzione legislativa incoercibile, sorge in capo a tali soggetti un loro autonomo diritto accessorio al risarcimento del danno causato dallo Stato per lesione di tale posizione di diritto, secondo il principio immanente all’ordinamento che prevede in via generale il risarcimento del danno causato da fatto illecito.75 Pertanto tale giurisprudenza ha introdotto a tutti gli effetti nel nostro ordinamento la peculiare figura astratta del ‘diritto ad acquistare un diritto’ attribuito a determinati soggetti da una norma primaria non autoesecutiva, la quale prescriva obbligatoriamente al soggetto normatore secondario la propria attuazione esecutiva e, soprattutto, ha svincolato la sussistenza dell’ordinario automatico diritto al risarcimento del danno in caso di lesione del predetto diritto da quella della disponibilità di un mezzo giudiziale di esecuzione in forma specifica dell’adempimento (per definizione insussistente nei confronti del legislatore) che, come esposto, era divenuta comunque processualmente irrilevante nel caso della distinta disciplina per l’intervento della norma soppressiva del D.Lgs. n. 150/2009.

Vi sono anche notevoli casi in cui la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto nell’ambito del nostro ordinamento nazionale gli effetti giuridici diretti di norme primarie non immediatamente applicabili ritenendoli conformi ai “principi generali dell’ordinamento, attinenti al rapporto tra fonti primarie e secondarie”.76 La posizione di vantaggio considerata tutelabile dalla predetta giurisprudenza è stata qualificata in modi diversi equivalenti (‘diritto ad acquistare la titolarità di un diritto’, ‘diritto in fieri’) che si collocano tutti nell’ambito della nozione di una peculiare figura di diritto soggettivo, per così dire, ancora ‘imperfetto’, la fonte del quale ne predispone il perfezionamento. Questo sorge in capo ai destinatari da una norma primaria non auto-applicativa, della quale manca la dovuta attuazione che l’avrebbe ‘perfezionato’ ai fini del suo concreto esercizio, al quale però il destinatario ha già un diritto ‘mediato’ quando tale attuazione, come nel caso della ‘distinta disciplina’, è a sua volta prescritta obbligatoriamente dalla legge, tanto che si potrebbe parlare in tal caso di un ‘diritto a perfezionamento obbligato’.77

I funzionari hanno infine ricordato nella memoria il principio sistematico generale strettamente pertinente alla fattispecie della mancata attuazione contrattuale della distinta disciplina enunciato dalla stessa S.C. per cui “la legge che investa la fonte collettiva del compito della propria attuazione non è derogabile dal contratto collettivo” (sent. Cass. n. 18655/2005 e n. 18829/200578).

La prima ha affermato il principio per cui “L’efficacia derogatoria riconosciuta al contratto collettivo rispetto alla legge ai sensi dell’art. 2, comma 2, seconda parte, del D.Lgs. n. 29/ 1993, come modificato dal D.Lgs. n. 80/1998, (e ora trasfuso nell’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001) presuppone che la legge della cui deroga si tratti non investa la fonte collettiva del compito della propria attuazione, poiché ove ciò accada viene meno il presupposto stesso di operatività della disciplina concernente la suddetta efficacia”, in quanto, come ha affermato la successiva sent. n. 18829, “Una legge che attribuisce alla contrattazione collettiva la funzione di attuare i propri contenuti contiene necessariamente una regola di inderogabilità, per l’evidente contraddittorietà che sussiste fra il concetto di attuazione di una regola a mezzo di ulteriori disposizioni di dettaglio e il concetto di deroga alla regola stessa... La legge, nel fare rinvio al contratto per la sua attuazione, istituisce un meccanismo specifico, che, in quanto tale, deroga al meccanismo del citato art. 2, comma 2, nel senso che lo rende non operativo”.79

Tutto il convincente e approfondito ragionamento delle predette sentenze si basa sulla peculiarità del “meccanismo specifico” di ‘concatenazione produttiva’ norma primaria-norma secondaria, alla luce della quale esse vengono a distinguere sotto il profilo sistematico due categorie di leggi che incidono sulla disciplina contrattuale del pubblico impiego:

1) le leggi che recano regole generiche o aperte, talmente indeterminate da non poter essere immediatamente applicabili al rapporto di lavoro, le quali “investono” della propria attuazione operativa la contrattazione collettiva;

2) le leggi che recano regole determinate immediatamente applicabili al rapporto di lavoro, che vanno direttamente a modificare o innovare sovrapponendosi, sullo stesso piano, alle regole già autonomamente stabilite dalla contrattazione, che sono le leggi propriamente soggette alla deroga da parte della contrattazione prevista dal D.Lgs. n. 165/2001.

Sotto il profilo sistematico, le prime, inderogabili nell’an e nel quid, sono norme primarie in quanto demandano la propria attuazione alla contrattazione per il quomodo (di fatto, sono le leggi delega e i decreti delegati con cui i governi modificano e integrano il t.u. n. 165/2001, che ne è il precipuo ‘contenitore’), mentre le seconde sono norme autonome, volte a incidere immediatamente sul rapporto di lavoro (le c.d. ‘leggine’ su particolari categorie di dipendenti pubblici). In tal senso le rilevanti sentenze sopra riportate indicano come inderogabili e vincolanti per la contrattazione le leggi- norme primarie e derogabili le leggi-norme autonome. Tale interpretazione giurisprudenziale sistematica ha il pregio di contemperare l’esigenza di salvaguardia sostanziale dell’autonomia contrattuale collettiva nel pubblico impiego nei confronti delle predette ‘leggine’ dalla quale muoveva la norma di deroga del D.Lgs. n. 165/2001 con l’altra, certamente non meno considerevole, esigenza di salvaguardare il rispetto della gerarchia delle fonti per il quale la legge è sovraordinata alla fonte contrattuale, delimitando in misura ragionevole l’ambito nel quale essa è inderogabile, che comprende la norma sulla distinta disciplina, recepita dal t.u. D.Lgs. n. 165/2001.

La Corte di Cassazione - Sezione Lavoro (dott.ssa pres. A. Torrice, cons. rel. dott.ssa F. Spena) ha pronunciato l’ordinanza, n. 31378 del 02-12-2019, che conclude con il rigetto integrale del ricorso l’annosa vicenda giudiziaria della ‘distinta disciplina’.

Per quanto riguarda la questione di diritto principale, l’ordinanza, dopo aver riassunto la normativa legislativa e contrattuale di riferimento, enuncia direttamente, senza alcun passaggio logico intermedio,80 la sommaria e apodittica conclusione per cui “Alla luce delle previsioni, di legge e di contratto, sopra indicate, appare evidente che alcun diritto all’applicazione di una «disciplina separata» poteva sorgere in favore dei dipendenti del comparto Ministeri, per mancata determinazione dei relativi contenuti”, limitandosi così a fare propria l’argomentazione tautologica dei giudici di merito per cui la lamentata mancata determinazione contrattuale dei contenuti della disciplina sarebbe la causa stessa dell’insussistenza di tale diritto.

Analogamente alla sentenza di appello, l’ordinanza esclude incidentalmente una precettività obbligatoria della normativa di legge sulla distinta disciplina nei confronti della contrattazione collettiva in ordine all’attuazione contrattuale della medesima con l’apodittica affermazione per cui detta normativa sarebbe “lungi dall’indicare una obbligazione delle parti a contrarre (avente ad oggetto la «disciplina distinta»)”, dalla quale trae la conseguenza che “Non può configurarsi una responsabilità della pubblica amministrazione nei confronti dei dipendenti per la mancata introduzione della «disciplina separata», come si sostiene con il primo motivo di ricorso…”.

L’ordinanza non motiva la riportata conclusione a partire da un’analisi testuale delle norme legislative relative alla distinta disciplina, non espone un suo autonomo percorso logico che da queste e dai fatti di causa porti a tale conclusione, prescinde onninamente – tamquam non essent – da tutte le attendibili argomentazioni proposte dai funzionari qui riportate, nonché dall’esame testuale e sistematico dell’art. 2, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 e dalla relativa circostanziata giurisprudenza di legittimità prospettati, attestanti l’‘inderogabilità’ della norma sulla distinta disciplina.

L’ordinanza si è limitata a ripetere sostanzialmente la generica asserzione di principio dei giudici di appello richiamante per analogia la ‘vicenda’ della vice dirigenza per cui “deve affermarsi l’autonomia della contrattazione collettiva nella individuazione della «distinta disciplina» delle figure professionali in questione, come già osservato dalle Sezioni Unite, nella sentenza 05/07/2011 n. 14656, in riferimento all’«area» della vice-dirigenza”, avallando così sul piano motivazionale la sufficienza della generica tesi dell’“affinità” fra la distinta disciplina e la vicedirigenza già affermata altrettanto apoditticamente dalla Corte d’appello, senza considerare né contestare i circostanziati argomenti in contrario proposti dai funzionari, ridotti alla indicazione di mere “differenze terminologiche” che l’ordinanza ritiene irrilevanti in quanto riconducibili al fatto che, “mentre per la vice-dirigenza era prevista la istituzione di un’«area» separata di contrattazione, al pari della dirigenza, per le figure professionali qui in considerazione non si è disposta la costituzione di un’ «area» di contrattazione ma semplicemente l’adozione di una «disciplina distinta» nell’ambito del contratto collettivo di comparto sicché non era necessario un preventivo accordo-quadro (di istituzione di un’area di contrattazione)”. Ma, va subito notato, non si vede come la mancanza della “necessità un accordo-quadro” nel caso della distinta disciplina (circostanza che ne rende semmai più facile l’attuazione diretta) possa escludere la precettività imperativa della relativa norma e quindi non si vede come la riportata osservazione possa logicamente confutare le tesi dei ricorrenti. A questa osservazione l’ordinanza fa poi seguire l’affermazione più generale per cui “Tale autonomia [contrattuale] presuppone necessariamente, a monte, la possibilità che le parti della contrattazione non raggiungano un accordo, come nella specie avvenuto”.

I funzionari avevano prospettato che tale mancato accordo dovesse qualificarsi come illecito per effetto dell’obbligo collettivo delle parti contrattuali a stabilire la distinta disciplina imposto dalla legge, alla stessa stregua di come nella fattispecie dell’obbligo di “comune accordo” prescritto ai genitori separati dall’art. 337-ter c.c. sulle decisioni di maggiore interesse per i figli, dal mancato accordo fra le parti la legge fa scaturire l’effetto giuridico riparatore, per cui “in caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice”. Sotto il profilo logico è quindi da rilevare che nell’affermazione sopra riportata dell’ordinanza il mancato raggiungimento dell’accordo non trova la sua legittimazione nella corrispettiva, prima da questa a sua volta affermata, mancanza di un ‘obbligo a contrarre’ nella normativa di riferimento, ma direttamente e più ‘a monte’ nel fatto generale dell’‘ampiezza’ dell’autonomia contrattuale collettiva, riconducendo quindi implicitamente la ratio motivazionale alla tesi implicita della presunta riserva normativa di quest’ultima.

A sostegno della precedente generica affermazione sull’autonomia della contrattazione collettiva, l’ordinanza osserva inoltre che nella specifica materia della distinta disciplina la S.C. “ha già affermato che sulla base del quadro normativo di fonte legale la contrattazione collettiva era libera di recepire una nozione più o meno ampia di «professionisti» (Cass. sez. lav. 19.11.2008 nr. 29828)”, come se anche la misura ‘nulla’ – cioè l’assenza della disciplina, ovvero la non applicazione della legge – rientrasse fra quelle ‘meno ampie’ consentite alla contrattazione, e ha ripetuto l’apodittica affermazione del giudice di prime cure per cui “la norma sulla «distinta disciplina», nella sua genericità, costituisce una delega molto ampia alle parti collettive, che non predetermina in maniera dettagliata i limiti della specialità della disciplina contrattuale” (Cass. sez. lav. 01.03.2005 nr. 4253)”, avallando così la tesi implicita di questo sulla ‘delega’ della legge alle parti collettive talmente ‘ampia’ da comprendere una loro facoltà generale di non applicare la legge stessa e non stabilire affatto la disciplina, ovvero sulla competenza normativa esclusiva della contrattazione collettiva, sulle implicazioni della quale ci si è già in precedenza soffermati.

Riguardo infine alla questione, cruciale ai fini della domanda di risarcimento del danno dei funzionari, se dalla normativa legislativa e contrattuale sulla distinta disciplina derivasse per i destinatari certi della medesima, in subordine a quella di diritto soggettivo, quanto meno una posizione tutelabile di legittimo interesse alla sua attuazione contrattuale e conseguente inquadramento di diritto, oggetto del terzo motivo di ricorso, l’ordinanza, pur ammettendo (implicitamente) per lo stesso fatto di essersi pronunciata sul punto come valida la domanda sul punto contrariamente a quanto fatto dalla Corte territoriale, ha omesso del tutto l’esame specifico delle più sopra esposte argomentazioni a sostegno di questa presentate dai funzionari e si è limitata a richiamare la tesi dell’‘affinità’ della distinta disciplina con la vicedirigenza della Corte di appello e le considerazioni di questa sull’‘estraneità’ dei singoli lavoratori agli atti (endoprocedimentali) di indirizzo del Governo sull’ARAN ai sensi dell’art. 41 del D.Lgs. 165/2001 più sopra riportate che, nel caso della vice dirigenza, escludevano, secondo la richiamata sent. Cass. S.U. n. 14656/2011, una posizione tutelabile di interesse legittimo dei dipendenti destinatari, affermando apoditticamente che “Per le considerazioni sopra svolte [quelle sopra riportate a proposito dell’atto di indirizzo del Governo] neppure è configurabile una posizione soggettiva dei dipendenti tutelata a livello di interesse legittimo, come già ritenuto da questa Corte in riferimento alla mancata istituzione dell’area della vice-dirigenza (Cass. sezione lavoro 06/02/2018, n. 2829; 06/11/2018 nr. 28247)”.

Ma – si deve notare ̶ la sentenza Cass. S.U. n. 14656/2011, su cui tale affermazione si fonda, si pronunciava sulla posizione tutelabile di interesse legittimo di diritto pubblico, rivendicata da dipendenti destinatari della distinta disciplina nei confronti della mancata adozione da parte del Governo di un atto amministrativo non negoziale a rilevanza interna di indirizzo relativo all’equiparazione delle loro qualifiche a quelle indicate dalla L. n. 145/2002, mentre i funzionari destinatari della distinta disciplina, le figure dei quali erano già specificamente individuate dalla L. n. 229/2003 non hanno contestato in via principale alcun mancato atto di indirizzo dell’Amministrazione (che hanno solo menzionato come mezzo di adempimento ad essa disponibile), ma la mancata attuazione contrattuale della distinta disciplina, rivendicando, in subordine, una relativa posizione tutelabile di diritto. D’altra parte, in base al principio di conservazione degli atti era del tutto irragionevole supporre che i ricorrenti avessero contestato in via principale davanti al giudice ordinario una presunta lesione di un interesse legittimo di diritto pubblico (per mancata adozione di un atto amministrativo), che per definizione non avrebbe potuto avere riconoscimento a causa dell’incompetenza dello stesso in materia (confermata dalla citata sent. Cass. S.U. n. 14656/201181).

Nel nostro ordinamento la valutazione della posizione di interesse legittimo, ontologicamente distinta da quella di diritto soggettivo, si basa, per il suo accertamento, su specifici ben diversi parametri oggettivi – quelli più sopra esposti relativi alla formazione e radicamento dell’interesse legittimo all’attuazione contrattuale della disciplina – che l’ordinanza non ha così nemmeno esaminato, pronunciandosi su una fattispecie di interesse legittimo (di diritto pubblico) palesemente diversa da quella da cui muoveva la causa petendi e su cui verteva la domanda dei funzionari.


4. Considerazioni finali

La materia dell’attuazione contrattuale della ‘distinta disciplina’ era certamente complessa: riguardava più soggetti giuridici diversi (le parti contrattuali collettive, con l’amministrazione che agiva nella duplice veste autoritativa o negoziale e i dipendenti che vantavano diritti autonomi), era disciplinata da due fonti – la legge e il contratto – di ordine diverso e presentava, come si è visto, alcune situazioni e rapporti giuridici peculiari relativamente atipici’, sui quali non si è ancora generalizzata una definizione specifica convenzionale nel diritto (l’‘obbligo a contrarre’ nella forma dell’inserimento di determinati contenuti nel contratto, posto dalla legge alle parti contrattuali collettive, atipico rispetto a quello previsto dagli artt. 1679 e 2597 c.c. e 132 Cod. ass., la posizione di ‘diritto ad acquistare la titolarità di un diritto’ derivante ai destinatari certi dalle norme legislative primarie sulla distinta disciplina, la responsabilità solidale delle parti contrattuali collettive quali normatori secondari collettivamente obbligati e inadempienti, i limiti della facoltà di deroga alla legge della contrattazione posti dal D.Lgs. n. 165/2001 stesso), che incidono tutti sul tema dei rapporti fra la legge e l’autonomia contrattuale collettiva, di rilevanza fondamentale per il settore del lavoro pubblico.

La materia della ‘distinta disciplina’ per i funzionari tecnico scientifici, inoltre, non era stata ancora mai specificamente esaminata dalla giurisprudenza, se non incidentalmente, riguardo a pretese di altre diverse categorie di dipendenti non previste espressamente dalla legge,82 incomparabilmente meno fondate di quelle oggetto della vicenda in questione, e quindi la giurisprudenza non le aveva ancora approfondite nel merito relativo alle categorie contemplate espressamente dalla legge. Diversi aspetti giuridici specificamente riconducibili alla situazione dei funzionari destinatari della distinta disciplina sono peraltro, come esposto, stati esaminati dalla giurisprudenza in altri contesti specifici, dai quali essa ha tratto principi generali condivisibili (primo fra tutti quello dell’inderogabilità delle ‘leggi che investono la contrattazione della propria attuazione’ enunciato dalle sent. Cass. n. 18655/2005 e n. 18829/2005) che si sarebbero potuti e dovuti applicare anche ai corrispondenti aspetti della materia della ‘distinta disciplina’, alla quale la giurisprudenza esposta offriva nel suo complesso, se utilizzata in modo attento e imparziale, tutti gli strumenti di riferimento necessari per una specifica positiva soluzione conforme ai principi ordina mentali generali pertinenti da essa affermati.

Ma i giudici di questa vicenda, come risulta oltre ogni dubbio da tutta la precedente esposizione, non hanno evidentemente voluto né esaminare, né utilizzare, anche rimodulandoli, tali strumenti giurisprudenziali esercitando attivamente e diligentemente il potere-dovere iura novit curia, che invece hanno disatteso, motivando in modo sommario e sbrigativo per relationem e ripetendo meccanicamente come ‘slogan’ massime apodittiche generiche e sostanzialmente inconferenti al thema decidendum (la posizione di diritto, o in subordine di interesse legittimo di diritto privato, derivante dalla legge ai destinatari designati della distinta disciplina), allineandosi sistematicamente sull’insostenibile tesi implicita della competenza normativa esclusiva della contrattazione collettiva in materia di rapporti di lavoro, anche pubblico, diametralmente contraria ai principi stabiliti in materia dalla Corte costituzionale.

A fondamento delle loro conclusioni i giudici di questa vicenda non hanno mai posto un esame testuale approfondito della normativa implicata e del suo contesto sistematico positivo (p. es. non hanno mai confrontato la loro tesi implicita astratta dell’autonomia collettiva ‘assoluta’ con la norma che autorizza positivamente questa a derogare alla legge dell’art. 2 del D.Lgs. n. 165/2001), né hanno esibito un ragionamento compiuto, ovvero percorso logico concatenato, con cui dalle premesse normative si giunge alla loro conclusione (emblematico il caso dell’ordinanza della S.C. che la trae immediatamente dopo il mero elenco delle norme, in violazione delle regole deontologiche vigenti), appoggiando poi la conclusione apodittica su altre argomentazioni accessorie secondo un tipico stile paratattico di carattere precipuamente retorico, piuttosto che giuridico,83 non menzionando mai, se non altro per contestarle, le circostanziate argomentazioni addotte dai funzionari per segnalare e sostanziare gli aspetti giuridici peculiari della complessa fattispecie della ‘distinta disciplina’.

Sul piano processuale i giudici hanno poi apparentemente frainteso e sostanzialmente alterato domanda e petitum dei funzionari, attribuendo loro pretese irragionevoli per definizione irricevibili (come nel caso del preteso ‘inquadramento’ diretto nella distinta disciplina e della prospettazione della posizione di un interesse legittimo di diritto pubblico), hanno erroneamente e irritualmente presupposto la carenza dei requisiti legali per l’attribuzione della disciplina ribaltandone a loro onere l’ eventuale accertamento già richiesto in primo grado e hanno infine inesattamente assimilato per presunta analogia – senza alcuna necessità o giustificazione – la fattispecie in esame della distinta disciplina alla fattispecie sostanzialmente diversa della ‘vicedirigenza’, sulla quale si erano formati giudicati contrari. La convergenza di questi elementi con le omissioni sistematiche di letture puntuali della normativa e di confronti con la giurisprudenza di legittimità pertinente segnalata dai funzionari, con il ricorso sbrigativo a un’argomentazione meramente apodittica, nonché con la stessa genericità e vaghezza dell’insostenibile tesi implicita della riserva normativa assoluta della contrattazione collettiva – ratio decidendi di tutte le conformi pronunce di questa vicenda giudiziaria – appare palesemente rivelatrice di un condiviso atteggiamento pregiudizialmente preclusivo della possibilità astratta stessa che dei dipendenti pubblici possano far valere diritti derivanti dalla legge nei confronti dei contratti collettivi e invocare una responsabilità delle parti contrattuali collettive per la loro violazione.84

Per cercar di dare a tutta questa vicenda giudiziaria un plausibile senso complessivo che non si limiti alla mera constatazione dei fatti e dei comportamenti dei giudici, resta da cercare di ipotizzare le possibili spiegazioni – a questo punto inevitabilmente extragiuridiche – di tale sistematico atteggiamento preclusivo dei giudici dei vari gradi. In tal senso, l’obiettiva complessità della tematica implicata – di per sé ovviamente insufficiente a giustificarlo – sembra essersi prestata a una condivisa trasparente tendenza dei giudici a precludere il contenzioso stesso sulla materia della distinta disciplina. Dato che la soppressione della relativa norma obbligatoria da parte del D.Lgs. n. 150/2009 aveva ormai escluso un eventuale impatto diretto sull’assetto contrattuale esistente di un esito favorevole ai dipendenti nel caso in specie, sembra più plausibile che tale atteggiamento rientrasse piuttosto in una ‘politica giudiziaria’ più generale, preclusiva in radice del contenzioso derivante dalle pretese delle alte professionalità del pubblico impiego di rivendicare posizioni di diritto attribuite loro da speciali riconoscimenti legislativi non attuati dalla contrattazione collettiva, come era avvenuto per le ben diverse altre fattispecie, assimilate, se pur impropriamente, a tal fine alla ‘distinta disciplina, quelle dei ‘quadri’ e dei ‘vicedirigenti’, per le quali erano peraltro probabilmente valse anche considerazioni relative a un loro eventuale ben maggiore impatto economico sugli assetti contrattuali esistenti, che in tanti casi hanno indotto il favor per l’Amministrazione.85 Ciò spiegherebbe anche la ben scarsa convinzione giuridica (dimostrata dalla sommarietà apodittica delle relative motivazioni) con cui i giudici si sono allineati sull’assioma dell’assoluta ‘autonomia collettiva’ nella disciplina del pubblico impiego, che esclude – appunto non paradossalmente come potrebbe sembrare – lo stesso ruolo incisivo nella materia dei giudici quali interpreti della legge.

Mentre nell’ambito del diritto europeo l’evoluzione giurisprudenziale dell’interpretazione del meccanismo giuridico della concatenazione norma primaria - norma secondaria ha, come sopra esposto, “infranto il dogma antico dell’irresponsabilità del legislatore postulando la sua responsabilità non solo per violazione, ma anche per mancata attuazione di una direttiva comunitaria”,86 dobbiamo constatare che i giudici di questa ‘vicenda’ hanno voluto, per motivi che con il diritto vivente hanno poco a che fare, addirittura estendere anacronisticamente tale dogma tralatizio allo stato-parte contrattuale (di diritto privato), attribuendo alla contrattazione collettiva del pubblico impiego un’“autonomia”, ovvero competenza normativa, assoluta e una conseguente assoluta irresponsabilità che nemmeno gli stati-legislatori hanno più in Europa.

Rimane solo da rammaricarsi che le preponderanti esigenze di politica giudiziaria che hanno travolto in modo sbrigativo e indiscriminato le istanze dei destinatari della distinta disciplina, fra cui sono i funzionari pubblici che tutelano il patrimonio storico del nostro Paese, abbiano così fatto perdere un’importante occasione per l’approfondimento in sede giurisdizionale del tema del rapporto fra legge e contratto collettivo nel pubblico impiego, tanto rilevante per il nostro ordinamento e per i diritti individuali dei lavoratori, che un oggettivo e ampio esame sistematico della fattispecie della ‘distinta disciplina’ avrebbe comunque potuto fornire in generale, come abbiamo cercato qui di dimostrare.

1 Rispettivamente la Direzione generale delle Antichità e Belle Arti e la Direzione generale delle Accademie e Biblioteche del Ministero della pubblica istruzione e la Direzione generale degli Archivi di Stato del Ministero dell’interno.

2 Per la salvezza dei beni culturali in Italia: atti e documenti della Commissione d'indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, 3 vol. Colombo, Roma 1967.

3 Op. cit., vol. I, p. 118.

4 I tre rispettivi ‘Consigli superiori’ consultivi nazionali confluirono nell’unico Consiglio nazionale per i beni culturali, articolato in cinque ‘comitati di settore’ per tipologia di beni, nel quale era presente la componente elettiva di 18 rappresentanti (l’elettorato attivo e passivo era esteso a tutti i funzionari e i dirigenti) del ‘personale scientifico’.

5 Atto Senato X Lg.ra, n. 988.

6 La ratio della minore anzianità richiesta ai funzionari ‘tecnici’ derivava storicamente da quella di un anno in meno già richiesta a tale categoria per il passaggio da consigliere a direttore di sezione ex D.P.R. 1077/1970, art. 15, in ragione della maggiore durata del corso universitario e di specializzazione.

7 Tutti profili di cui alla tabella annessa al D.P.R. n. 805/1975. Gli ‘esperti’ tecnici erano sia ingegneri, chimici, ecc. che avevano abilitazione professionale (e rientravano già nell’art. 1) che fisici e altri che ne erano privi. I profili professionali definiti dal D.P.R. n. 1219/1984, avevano riconosciuto lo svolgimento da parte di tutti i funzionari tecnico scientifici di attività di ricerca scientifica, di studio, consulenza, ed elaborazione” nei rispettivi campi disciplinari

8 Atto Camera X legislatura, n. 3464.

9Indicato nella tab. I, n. 2-7 annessa al D.P.R. n. 805/1975”, v. Boll. Giunte e Commissioni della Camera, X leg.ra, 4.5.1989, pp. 13 e 15. Il progetto non fu poi approvato per interruzione della legislatura.

10 Atto Senato, X leg.ra, n. 1904. Anche l’iter di questo disegno fu interrotto con la legislatura.

11 Con decreto n. 90-404 del 16.5.1990. I funzionari sono selezionati per concorso ogni anno in piccolo numero, formati dai corsi quinquennali dell’Institut National du Patrimoine e ripartiti su cinque ‘specialità’ tecniche. Il Corps è articolato su tre livelli di un’unica carriera e i membri possono indifferentemente svolgere sia funzioni tecniche e di ricerca, che funzioni direttive, al più alto livello anche di grandi istituti o servizi nazionali.

12 Istituita come ‘ruolo professionale’ dall’art. 15 della L. n. 70/1975, allora confermata dal CCNL 1998 - 2001 enti pubblici del 16/02/1999, artt. 33 e ss.

13 CCNL del 31.3.1999 di revisione del sistema di classificazione professionale, art. 8.

14 Dall’allora ministro dell’Università A. Ruberti con il contratto collettivo degli enti di ricerca D.P.R. n. 568/1987.

15 La norma fu introdotta nel disegno di legge delega (A.C. XIII leg.ra n. 2699), poi L. n. 59/1997, in Commissione Affari costituzionali della Camera con due emendamenti di identico tenore degli on. P. Corsini (capogruppo Democratici di Sinistra) e F. Frattini (capogruppo Forza Italia), “accettati dalla Commissione e dal Governo” (Atti Camera XIII leg.ra, Resoconto Stenografico, Aula 29.1.1997, pp. 11296 e 11297).

16 La sent. Cass. n. 4253/2005, cit., ha dichiarato che “è plausibile … che l’inserimento dell’espressione, apparentemente più impegnativa, «in posizione di elevata responsabilità» abbia un valore meramente descrittivo o ricognitivo quanto alle funzioni dei professionisti, e spieghi invece una specifica funzione di migliore delineazione della fattispecie con riferimento alla figura, introdotta dalla normativa delegata, del soggetto (non dirigente) che svolge funzioni di direzione” A tale conclusione concorre anche la considerazione che la predetta figura è stata aggiunta dal decreto delegato in palese eccesso di delega.

17 Cfr. D.P.R. 1219/1984 che prevedeva bensì per tutti i profili professionali ex direttivi della VIII qualifica, fra le altre, una eventuale mansione di direzione di “unità organica anche a rilevanza esterna non riservata a dirigenti”, ma non la attribuiva a nessun profilo come funzione peculiare inderogabile.

18 Ufficiosamente è trapelato che la mancata definizione operativa fosse dovuta a contrasti interni incomponibili sull’ampliamento dell’area della disciplina anche a professionisti non laureati preteso da alcune OO.SS.

19 In tali controversie era emerso nei primi anni ’90 un orientamento favorevole per cui alcuni giudici di merito attribuirono la qualifica di ‘quadro’ a pubblici dipendenti, dapprima confermato dalla Suprema Corte (Sent. Cass. n. 2246/1995; n. 12214/1998; n. 275/1999; n. 5953/1999; n. 2758/1999; n. 10338/2000; n. 21652/2006). Successivamente, in particolare la sent. Cass. n.14193/2005, ha rappresentato il primo revirement (cfr. anche Cass. n. 6063/2008), poi consolidato (v. in ultimo Cass. S.U. n. 14656/2011), con cui la S.C. ha rilevato che nel D.Lgs. quadro sul pubblico impiego D.Lgs. n. 165/2001 non è prevista espressamente una categoria dei ‘quadri’, bensì (dal 2002) la categoria dei vice dirigenti, equivalente sotto il profilo ordinamentale in quanto intermedia fra impiegati e dirigenti, e che il regime configurato dagli art. 2 e 40 del D.Lgs. n. 165/2001 escludeva l’obbligo di trasposizione della categoria dei quadri ex art. 2095 c.c. nel pubblico impiego.

20 La contrattazione collettiva ha poi esercitato la facoltà di cui alla predetta norma solo con il CCNL del nuovo comparto Funzioni Centrali (nel quale sono confluiti Ministeri, Agenzie ed enti non economici, alcuni dei quali già comprendevano un’‘area professionisti’) per il quadriennio 2019-2021, che ha previsto all’art. 13 una nuova (quarta) ‘Area delle ‘elevate professionalità’, di fatto equivalente alla ‘distinta disciplina’ della L. n. 59/1997, nella quale confluiscono i dipendenti che “svolgono funzioni di elevato contenuto professionale e specialistico…attraverso la responsabilità di moduli o strutture organizzative”. Ma l’attuazione dell’area, è ancora (maggio 2023) incompiuta.

21 Le discipline contrattuali già esistenti per i professionisti degli enti pubblici non economici e per i ricercatori e i tecnologi degli enti di ricerca comportavano trattamenti e progressioni economiche (fino all’equiparazione del terzo livello al professore universitario ordinario) sensibilmente superiori a quelli dei funzionari di posizione C3 del comparto Ministeri, in cui erano inquadrati i ricorrenti.

22 Il Ministero convenuto era legittimato passivamente, quale articolazione del Governo, a stare in giudizio per la Presidenza del Consiglio dei ministri nella sua qualità di titolare della contrattazione collettiva di comparto e quindi di corresponsabile della mancata attuazione della distinta disciplina (in solido con le OO.SS.), in quanto la difesa erariale non aveva sollevato tempestiva eccezione di legittimazione passiva nella prima udienza utile ai sensi dell’art. 4 della L. n. 260/1958 (cfr. sent. Cass. S.U. n. 30649/2018), come rimasto pacifico in causa.

23 Come afferma sinteticamente la moderna dottrina (W. Newcomb Hohfeld).

24 Successivamente al sopra citato CCNL 2006-2009 è stato avviato con l’art. 9, commi 17-21, del D.L. n. 78/2010 il blocco della contrattazione nel pubblico impiego, poi prorogato fino al 2015 da successive leggi di bilancio.

25 Il litisconsorzio passivo delle parti responsabili solidalmente (nel caso, le OO.SS.) non è infatti obbligatorio (sent. Cass. n. 6342/2004), restando alla parte convenuta l’azione per rivalersi sulle parti debitrici non convenute.

26L’interpretazione della domanda…attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte”, sent. Cass. n. 24495/2006.

27 Sent. Cass. n. 5814/1995.

28 Un’“istanza” infatti, pur “non espressamente proposta può ritenersi implicitamente introdotta e virtualmente contenuta nella domanda dedotta in giudizio quando si trovi in rapporto di connessione necessaria con il petitum e la causa petendi” (Sent. Cass. n. 6727/1991).

29 Sent. Cass. S.U. n. 26108/2007 e succ. conformi fino a S.U. n. 20571/2013. V. anche sent. Cass. n. 4184/2013: “...La sentenza di condanna ad un facere…è diversa dalla sentenza costitutiva prevista dall’art. 2932 c.c. perché, a differenza di quella, non produce di per sé stessa l'effetto…invocato dalla parte, ma impone alla controparte di svolgere l’attività negoziale necessaria a che quell’effetto si produca… la condanna a contrarre non eccede i limiti della cognizione del giudice investito dalla domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre”.

30 V. p. es. sent. Trib. Frosinone, sez. lav., del 19.6.2018; Trib. Varese, II sez. civ., del 27.3.2018; Trib. Palmi del 31.7.2007.

31 La ‘delega’ “si verifica quando un’autorità normativa attribuisce ad altri la facoltà o il dovere di compiere in tutto o in parte la regolamentazione giuridica di un settore di sua competenza” (L’Universale. La grande enciclopedia tematica. Garzanti, Milano 2003, vol. 25, Diritto, tomo I, p. 442).

32 Sent. n. 95/2007, p.to 5.1; conforme la sent. n. 192/2007, “…l'indicativo presente «è» si riferisca, nella sua imperatività…”, (p.to 3.2).

33 G. Tarello, L’interpretazione della legge. Giuffré, Milano, 1980, p. 371.

34 S. Zorzetto, Repetita iuvant? Sulle ridondanze del diritto. Università di Milano, Facoltà di giurisprudenza, Dipartimento “Cesare Beccaria”, Sezione di filosofia e sociologia del diritto, Quaderni di filosofia analitica del diritto, n. 13, Giuffré, Milano 2016, p. 126 (v. in particolare le pp. 115-133 sull’uso dell’argomento o canone del ‘legislatore non ridondante’ nella prassi giurisprudenziale).

35 Ovvero semplicemente “messi dalla legge sul tavolo della contrattazione” (per essere eventualmente da questa presi in considerazione), come si è espressa l’Avvocatura dello Stato nel suo controricorso in primo grado.

36 Nell’uso, la nozione di ‘deroga’ ha ricevuto un’accezione atecnica estesa alla situazione in cui dall’ordinamento “è attribuito ad un’autorità di disporre che il caso sia sottratto alla regola”, come si esprime G.U. Rescigno, per cui essa “coincide con una disapplicazione” (Enciclopedia del diritto, vol. XII, Giuffré, Milano 1964, p. 305; Dizionario del diritto pubblico, Giuffré, Milano 2004, vol. I, p. 27). Ma la ‘disapplicazione’ di una norma di legge è atto che spetta esclusivamente a un giudice nel corso di un giudizio, ai fini della risoluzione di un’antinomia fra norme e con esso non solo il caso viene dichiaratamente ‘sottratto’ a una regola (‘pars destruens’), ma viene anche sottoposto ad altra regola prevalente (‘pars construens’). La detta situazione va quindi qualificata come ‘deroga in forma di non applicazione della normaderogata’, costituita dalla sola ‘pars destruens’ della disapplicazione e occorre pur sempre, come ha sottolineato Rescigno, che l’‘autorità’ sia a sua volta autorizzata a effettuarla dalla legge, altrimenti sarebbe un mero “mancato rispetto della legge tout court” (C. Pagotto, La disapplicazione della legge, Giuffré, Milano 2008, p. 15.)

37 Tale termine esclude quindi cronologicamente dalla facoltà di deroga le leggi, come quelle (n. 59/1997 e n. 396/1997) sulla distinta disciplina, emanate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 80/1998.

38 Il D.Lgs. n. 75/2017, con l’art. 1, co. 1, lett. a), ha inserito nella citata disposizione di deroga del D.Lgs. n. 165/2001, dopo la parola “introducano” le parole “o che abbiano introdotto”, estendendo il novero delle leggi che possono essere derogate dai successivi contratti collettivi a tutte quelle già emanate all’entrata in vigore della novellazione stessa (22.6.2017) e quindi anche prima di quella della norma del D.Lgs. n. 80/1998. Ma per “successivi contratti”, dai quali, secondo il contesto così novellato, anche le leggi precedenti all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 80/1998 possono essere derogate, devono intendersi quelli che sarebbero stati stipulati dopo l’entrata in vigore della novellazione del 2017, non avendo questa introdotto alcuna retroattività (sanatoria) riguardo ai contratti precedenti, fra cui quelli più sopra citati che avrebbero dovuto attuare la ‘distinta disciplina’, i quali non possono quindi considerarsi (retroattivamente) autorizzati nemmeno dal D.Lgs. n. 75/2017 a derogare alla legge.

39 L’aggiunta, da parte dell’art. 33, comma 1, del D.Lgs. n. 150/2009, dopo le parole “fatte salve le diverse disposizioni

contenute nel presente decreto” nel primo periodo del comma 2 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 165/2001, delle parole “che costituiscono disposizioni a carattere imperativo” ha palese valenza interpretativa piuttosto che innovativa, dato che “bastano già l’impianto e le finalità del D.Lgs. n. 165/2001 a fondare il carattere imperativo alle sue disposizioni” dovendosi attribuire la predetta aggiunta a una più generale dichiarazione della “riconsiderazione [da parte del legislatore] degli assetti all’interno del sistema delle fonti” nel senso di un rafforzamento della competenza legislativa sulla disciplina del pubblico impiego (L. Fiorillo, “Il sistema delle fonti e il rapporto fra legge e contratto collettivo”, in L. Fiorillo e A. Perulli (dir. da) “Il lavoro alle dipendenze della pubbliche amministrazioni”, vol. I, Giappichelli, Torino 2013, pp. 3-24, p. 13.

40 P. es. al titolo IV, artt. 51-57 le norme su mansioni, incompatibilità, codice di comportamento, sanzioni disciplinari.

41 Sent. Cass. 6063/2008 e 14193/2005, la quale ha chiarito che “…sono le norme ora raccolte nel D.Lgs. 165/2001 a costituire lo statuto del lavoro contrattuale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, nel quale si rinviene il corpus di regole imperative non derogabili dal contratto collettivo, siccome si tratta proprio della fonte di legittimazione dei poteri di autonomia”.

42 V. una rassegna, con ampia bibliografia, di A. Riccardi e V. Speziale, Il rapporto tra fonti unilaterali e contratto collettivo, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, vol. V, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, t. I, UTET, Torino 2004, pp. 156-179. I costituzionalisti, p. es. G. Zagrebelsky e G.U. Rescigno (Legge e contratto collettivo nel pubblico impiego. L’art. 2-bis del D.Lgs. n. 29/1993, come modificato dal D.Lgs. n. 546/1993”, in “Lavoro e diritto”, 1994, n. 4, p. 521), hanno considerato tale norma costituzionalmente illegittima, escludendo che una legge possa legittimamente vincolare leggi future assoggettandole ad essere derogate da una fonte di livello inferiore; una parte dei giuslavoristi, pur apprezzandone l’intento, l’ha criticata per insufficienza di validità costituzionale nella sua formulazione (M. Rusciano, p. es., sostiene che “Il problema di difendere i contratti collettivi dagli interventi legislativi micro-sezionali che ne minerebbero alla base il disegno…sul piano giuridico formale… si risolverebbe alla radice soltanto se una norma costituzionale, cioè gerarchicamente superiore, garantisse espressamente una sorta di ‘riserva di contrattazione’”, Le fonti: negoziatore pubblico e contratti collettivi di diritto privato, in “Lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2007, fasc. 2, p. 333; nello stesso senso L. Zoppoli, Il ruolo della legge nella disciplina del lavoro pubblico in L. Zoppoli, a c. di, Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Editoriale Scientifica, Napoli 20112, pp. 15-59, p. 25), mentre un’altra consistente parte l’ha ritenuta legittima e ha escogitato diversi ‘meccanismi’ giuridici in base ai quali la sua operatività potrebbe giustificarsi nel quadro sistematico delle fonti sulla disciplina del pubblico impiego, p. es. V. Speziale, R. Guastini e C. Padula (I contratti collettivi per il pubblico impiego: una fonte normativa fonte di problemi, in https://www.osservatoriosullefonti.it, contributo n. 14 del 25.3.2011).

43 Secondo il criterio prioritario di ordinamento sistematico delle fonti ‘per competenza’, indipendente da quello per gerarchia. (M. Luciani, Fonti del diritto. In: Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, voL. 6, Milano 2007, pp. 469-485, p. 476).

44 V. una sintesi aggiornata in E. Ghera, Il contratto collettivo tra natura negoziale e fonte collettiva, “Rivista di diritto del lavoro, 2012, I, pp. 195 e ss.

45 G. Giugni, Introduzione allo studio della autonomia collettiva, Giuffré, Milano, 1960, p. 48.

46 Così descrive tale tesi C. Cester, La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali”, n. 119, 2008, p. 412.

47 Lo stesso Giugni, in diverse occasioni, riequilibrò la sua posizione, convenendo che si doveva “trovare un punto di equilibrio fra i due tipi di strumenti” a causa dell’emergente insufficienza dell’autonomia sindacale a garantire la tutela dei diritti dei lavoratori (per la quale occorse poi l’intervento del legislatore con lo ‘Statuto’ L. n. 300/1970), in polemica con i deputati della CISL che si erano opposti al d. d. L. (poi L. n. 604/1966) sui licenziamenti, al quale aveva collaborato, in difesa di un’“intransigente posizione di principio” contraria a ogni intervento del legislatore in materia di lavoro (F. Liso, Una pagina della storia del diritto del lavoro, in “Rivista Italiana di Diritto del Lavoro”, fasc.1, marzo 2021, p. 3 e ss.). Nello stesso senso G. M. Ballistreri, registra un più generale mutamento nella stessa ‘teoria dell’ordinamento sindacale’ degli anni ’60, di cui Giugni fu esponente, qualificandone la posizione radicale originaria come ‘interpretazione sociologica’ piuttosto che ‘legale’ del ruolo dei sindacati (Sindacato: autonomia e legge. Giuffré, Milano 2016, p. 72). La dottrina più recente ha confermato l’insussistenza nel nostro ordinamento di una riserva di competenza in materia di lavoro pubblico a favore della contrattazione collettiva, salvo che per i trattamenti retributivi (L. Zoppoli, op. cit., p. 27), ricordando che “poiché la tutela giuridica dei lavoratori si è sempre più spostata a livello legislativo… la legge concorre con il contratto collettivo alla determinazione delle condizioni dei rapporti di lavoro”, “l’efficacia della contrattazione collettiva sui rapporti di lavoro non può non operare all’interno del diritto statuale” (G. Prosperetti, L’autonomia collettiva e i diritti sindacali, Utet giuridica, S. Mauro Torinese 2014, p. 2; p.130).

48Va altresì disattesa la censura riferita al parametro di cui all’art. 39 Cost... non essendovi alcuna riserva legislativa e contrattuale a favore dei sindacati (sentenze n. 697 del 1988, n. 141 del 1980).

49 F. Santoro Passarelli, Autonomia collettiva, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, vol. IV, 1959, p. 373.

50 L. Zoppoli, op. cit., p. 35. I confini fra le due fonti sono stati spostati secondo questo autore a favore della fonte unilaterale per via degli ‘sforamenti’ della contrattazione per appropriarsi di materie organizzative riservate dalla legge all’Amministrazione. Nello stesso senso L. Fiorillo, op. cit., p. 7.

51 La sent. Cass. n. 10353/2004 ha precisato che i diritti derivanti ai lavoratori da autonoma fonte legislativa sono “indisponibili” da parte della contrattazione collettiva, in quanto “le organizzazioni sindacali hanno solo la rappresentanza negoziale dei lavoratori e non quella legale”.

52 Questa circostanza si verificava riguardo al Ministero per i beni culturali, avente una particolare composizione di personale ‘squilibrata’ rispetto a quella degli altri ministeri, dove a fronte di 2.000 funzionari ca. dell’area direttiva apicale ‘C’ erano compresi 14.000 ca. ‘assistenti’ e ‘custodi’ di musei, scavi e istituti delle aree ‘B’ ed ‘A’.

53 Sentenza storica che ha sancito l’introduzione nel nostro ordinamento della figura (giurisprudenziale) dell’‘interesse legittimo di diritto privato’ che si verifica quando “la pubblica amministrazione agisce con i poteri del privato datore di lavoro”.

54 La sent. Cass. n. 21223/2009 definisce l’“aspettativa di sviluppo della professionalità del lavoratore” quale “espressione... della dignità umana”, in quanto “il lavoro non è solo strumento di sostentamento economico, ma è anche strumento di accrescimento della professionalità e di affermazione della propria identità a livello individuale e nel contesto sociale” (sent. Cass. nn. 9965 e 9966/2012, conf. n. 17372/2014).

55 Molti di loro hanno p.es. rinunciato a concorrere alla dirigenza contando su un sensibile sufficiente miglioramento economico della loro posizione di funzionari tecnico-scientifici.

56 La procedura di individuazione del titolare di un incarico dirigenziale è una fase endoprocedimentale non autoritativa, ovvero negoziale unilaterale (sent. Cass. 21700/2013, p.to 2.1), preliminare alla stipula del contratto individuale di lavoro (fase negoziale bilaterale, sent. Cass. n. 4275/2007). Il dirigente di ruolo è titolare di un interesse legittimo all’esito positivo dell’intera procedura negoziale di conferimento di un incarico, la lesione del quale è tutelabile ai sensi dell’art. 2043 c.c. (ex multis sent. Cass. n. 3880/2006).

57La situazione soggettiva lesa dovrà qualificarsi come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, all’ampia categoria di diritti di cui all’art. 2907 c.c.”, che sono “suscettibili di tutela giurisdizionale anche in forma risarcitoria”, come ha precisato la sent. Cass. n. 7495/2015; conformi Cass. S.U. nn. 10724/2002, 8375/2006, 14104/2006, 10153/2012.

58 P. es. la Legge di bilancio 1999, n. 449/1998, alla tab. all. A reca la semplice voce complessiva “Rinnovi contrattuali” (compreso il CCNL 1998-2001 poi stipulato il 16.2.1999) per i relativi incrementi di spesa: 904 milioni al 1999, 905 al 2000 e 905 al 2001 (G.U. 29.12.1998, suppl. ord., p. 97).

59 Ricorso per giurisdizione di un gruppo di funzionari statali, sul quale la citata sentenza, nel confermare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella materia, aveva incidentalmente escluso che la norma legislativa sulla vicedirigenza fosse autoapplicativa, anche solo riguardo alla mera qualifica nominale di ‘vicedirigente’, riconosciuta da precedente giurisprudenza di merito (Sent. Trib. Roma sez, Lav. 7 marzo 2008, n. 4399, e 17 luglio 2009, n. 12847).

60Le caratteristiche della contrattazione collettiva del lavoro pubblico sono sensibilmente diverse da quelle del lavoro privato…perché i vincoli costituzionali riguardanti ruolo e funzioni delle pubbliche amministrazioni non possono non toccare anche l’area del lavoro pubblico (artt. 81 e 97 Cost)... Diversamente dal modello contrattuale del settore privato,… la contrattazione collettiva del settore pubblico si svolge secondo un modello formalizzato dalla legge...Ne consegue che i tratti peculiari di questa contrattazione non sono riconducibili alle ricostruzioni privatistiche dell’autonomia collettiva…” (M. Rusciano, Contrattazione collettiva nel pubblico impiego 1. Profili generali. Treccani-Diritto on line, 2015).

61

62 Sent. Cass. n. 13982/2018, 18546/2016, 2656/2015, 9852/2002.

63 La sent. Cass. S.U. n. 14656/2011 ha osservato che la legge “demanda «la disciplina dell'istituzione» [della vice dirigenza], e quindi innanzi tutto l'istituzione, alla contrattazione collettiva, in piena sintonia con il riparto delle fonti di disciplina del rapporto quale definito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.”

64 In tal senso, fra le molte, p. es. sent. n. 12847/2009 del giudice del lavoro del Tribunale di Roma dott. E. Grisanti, che ha sostenuto che la predetta norma, malgrado il nomen iuris di ‘interpretazione autentica’, non può essere ritenuta effettivamente tale, in quanto sarebbe nel caso inutiliter data, avendo la contrattazione collettiva già il potere e quindi la facoltà di istituire anche speciali ‘discipline’, ma va più correttamente interpretata, secondo il principio di conservazione degli atti, come norma innovativa avente il palese intento di “svuotare di contenuto precettivo”, la norma istitutiva della vicedirigenza della L. n. 145/2002, e come tale deve essere ritenuta inefficace a tal fine e disapplicata in quanto opera ‘implicitamente un’abrogazione al di fuori delle modalità previste dall’ordinamento’ (art. 15 Prel.). In seguito all’intervento della norma di interpretazione autentica, che aveva dichiarato l’insussistenza di un obbligo della contrattazione a istituire la vice dirigenza (cosa che non è avvenuta per la ‘distinta disciplina’) la giurisprudenza di legittimità si è orientata uniformemente sul rigetto delle relative istanze in assenza dell’istituzione contrattuale della categoria (ex multis, v. sent. Cass., SS.UU., n. 14656/2011 cit.; Cass. n. 28208/2011). La vicedirigenza fu abrogata dall’art. 5, comma 13, del D.L. n. 95/2012.

65 Sent. Cass. S.U. Pen. n. 23016/2004.

66 L. n. 190/1985, art. 2, comma 2: “I requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri sono stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale…”.

67 P. es. sent. Cass. 3727/2012 per cui il giudice “dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato …e dovrà perciò ritenerlo sussistente”; sent. Cass. 8213/2013, per cui “la mancata contestazione di un fatto addotto dalla controparte ne rende superflua la prova”.

68 Sent. Cass. 3951/2012.

69 Una domanda che prospetta un “diverso titolo giuridico della pretesa” può considerarsi nuova, e quindi inammissibile quale mutatio libelli ai sensi dell’art. 345 c.p.c., solo quando comporti anche il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato” e quindi della causa petendi (sent. Cass. 27890/2008, conf. 7524/2005, S.U. n. 15408/2003) o “alteri l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, sì da porre in essere, in definitiva, una pretesa diversa per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in precedenza” (sent. Cass. n. 978/2000 e numerose conformi).

70 Per es. sent. Cass. n. 4857/2014, S.U. 27493/2013, S.U. 5574/2012.

71 Sent. Corte cost., n. 380/1991, p.to 3.

72 Sent. Cass. n. 4253/2005 e la conforme n. 27694/2011, cit., per le quali nella L. n. 59/1997, riguardo alla ‘distinta disciplina’, “obiettivo minimo del legislatore è il riconoscimento delle specifiche professionalità e delle sfere di autonomia e responsabilità ricollegate a talune attività professionali”.

73 Cause riunite C-6-90 e C-9-90 (Francovich et aL. c/ Repubblica Italiana e succ. conf.).

74 Come si esprime la sent. Cass. S.U n. 9147/2009.

75 G. Amato ha osservato che “l’imperatività della norma primaria non è tanto derivante dalla presenza di una specifica sanzione per la sua violazione, quanto dalle garanzie che contro tale violazione offre il più ampio sistema di norme in cui è inserita” (Rapporti fra norme primarie e norme secondarie, Giuffré, Milano 1962, p. 10).

76 La sent. Cass. n. 3744/2003 ha esaminato un caso contemplato dall’art. 99, comma 2, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), che prevedeva che il giudice conciliatore supplente di altro conciliatore di comune viciniore ha diritto “ad una indennità da determinarsi nel regolamento”, affermando che “il tenore letterale e la portata logica [della norma citata] non fanno sorgere dubbi sull’immediata precettività della stessa, indipendentemente dall’emanazione delle norme regolamentari”. Un analogo autonomo effetto precettivo immediato di una norma primaria non immediatamente applicabile è stato individuato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in tema del “premio risultati”, attribuito ai ‘quadri’ delle Ferrovie dello Stato dall’art. 49, p.to 5, del CCNL dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato 1990-1992, demandando ad accordi integrativi la sua quantificazione, che ha affermato (ex multis sent. Cass. n. 1706/2003) che la citata disposizione primaria ha un valore precettivo “non programmatico”, il quale “viene a configurare un diritto perfetto all’attribuzione del premio de quo, devolvendo alla contrattazione integrativa soltanto la determinazione relativa al concreto contenuto di tale voce della retribuzione” (sent. cit.). Un analogo tipo di situazione è contemplato dalla giurisprudenza sulla regolazione della giurisdizione sulle istanze di istruzione preventiva ai sensi degli artt. 692 e ss. c.p.c. (p. es. sentt. Cass., SS.UU., n. 443/1988 e n. 2994/1986), secondo la quale essa va riconosciuta al giudice ordinario se risulta l’“oggettiva possibilità” di incardinare il giudizio di merito davanti a lui, ovvero l’“attuale esistenza di una situazione qualificabile come aspettativa di un diritto in fieri o suscettibile di evolvere in diritto soggettivo in futuro, secondo un criterio di probabilità (e non di mera ipoteticità), in un diritto soggettivo”, equiparabile, ai fini giurisdizionali, a “posizione di diritto soggettivo”.

77 Già nel XIX sec. fu contestato l’assorbimento, tuttora meccanicamente tralatizio, della nozione di ‘diritto’ in quella di ‘diritto perfetto’, cioè “la facoltà di esigere ciò cui un altro è obbligato in modo che, qualora sia renitente, è lecito costringerlo”, secondo l’icastica definizione del giurista P. Baroli (Diritto naturale e pubblico, Feraboli, Cremona 1837, p. 92). l’A. osserva che anche il ‘diritto imperfetto’, che si può definire come “la facoltà di esigere quelle cose, alle quali un altro è invero obbligato, ma non può essere lecitamente costretto”, ha una peculiare consistenza giuridica di diritto soggettivo, in quanto la parte di esso relativa alla validità della pretesa è perfetta, anche se non lo è la parte relativa alla disponibilità della coercizione del debitore. L’evoluzione del moderno sistema sanzionatorio generale dell’inadempimento delle obbligazioni e della lesione dei diritti e interessi tutelati che consente di sopperire in forma risarcitoria a tali lesioni ha aperto la strada al riconoscimento giurisprudenziale, sopra esposto, alla figura di ‘diritto ad acquistare un diritto’ o ‘diritto in fieri’, qualificabile ‘diritto imperfetto’ come prefigurato dal Baroli.

78 (Pres. dott. S. Mattone, cons. rel. dott. F. Curcuruto). Le sentenze vertevano su controversie in materia di trasferimento agli enti locali del personale ATA della Scuola, al quale l’art. 8 della L. n. 124/1999 disponeva fosse conservata l’anzianità pregressa. Sulle modalità del trasferimento i decreti esecutivi (che, ricorda la sentenza, “costituiscono componente integrativa essenziale della legge medesima”) prevedevano una contrattazione collettiva attuativa che però aveva disatteso la legge sul punto.

79 La predetta sentenza svolge in merito un più ampio ragionamento, affermando che “Nel momento in cui la legge rinvia al contratto collettivo… il contratto collettivo assume la funzione di gestione degli assetti che la legge ha disegnato nelle linee fondamentali... Il meccanismo delineato dall’art. 2, comma 2, del D.Lgs. 165/2001, presuppone l’assenza di una specifica relazione fra una determinata legge e il contratto come mezzo per la sua attuazione. Ciò si desume dalla funzione che la detta è chiamata ad assolvere… con essa si è inteso evitare che nelle materie in cui la pattuizione collettiva aveva avuto modo di esplicarsi con regole di portata generale…l’intervento settoriale del legislatore… rompesse il quadro unitario e ri-frammentasse la disciplina”… “nel momento in cui la stessa legge prevede che il contratto debba integrarne il contenuto con norme di dettaglio, si è del tutto fuori dalla situazione in cui il contratto è chiamato a dettare nuovamente norme di carattere generale, idonee a sostituire una disciplina settoriale di fonte legale. La derogabilità della legge da parte del contratto qui non avrebbe valenza di una riappropriazione da parte dell’autonomia collettiva di uno spazio indebitamente sottrattole, ma darebbe vita ad un sistema intrinsecamente contraddittorio nel quale una determinata composizione di interessi raggiunta in sede legislativa si presenterebbe esplicitamente come provvisoria, individuando nel contratto una possibile fonte di norme espressive di un assetto di interessi completamente diverso…”.

80 E denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di omessa motivazione della sentenza qualora il giudice indichi gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento senza compierne alcuna approfondita disamina logica e giuridica (ord. Cass. n. 20533/2014).

81 La sentenza verteva infatti su un ricorso per giurisdizione di funzionari amministrativi destinatari della vicedirigenza contro una sentenza del Consiglio di Stato che confermava il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla mancata adozione dell’atto di indirizzo del Governo all’ARAN sull’equiparazione delle loro posizioni professionali appartenenti ad altre amministrazioni (Università degli Studi e di Agenzie fiscali), diverse da quelle destinatarie della vice dirigenza nel comparto dei Ministeri, previsto dalla L. n. 145/2002, atto ritenuto dal Consiglio di Stato endoprocedimentale a rilevanza esclusivamente interna, sul quale la sentenza dichiarò che “…si inserisce in un rapporto di mandato tra le pubbliche amministrazioni e l’ARAN al quale sono estranei non solo le associazioni sindacali dei dipendenti, quali controparti contrattuali, ma anche i dipendenti stessi”, per cui questi “non hanno alcuna situazione tutelata per orientare l’attività di indirizzo in un senso piuttosto che in un altro

82 Ci riferiamo alla ‘vicenda’ conclusa con rigetto dalla citata sent. Cass. n. 4253/2005 su ricorso di dipendenti professionisti non laureati (iscritti a ‘collegi’) di enti pubblici che chiedevano l’attribuzione della distinta disciplina per i professionisti per le attività dei quali la Legge n. 59/1997 prevedeva l’iscrizione ad “albi”, nel nostro ordinamento riservati ai laureati.

83Le affermazioni «ulteriori» contenute nella motivazione della sentenza, consistenti in argomentazioni rafforzative di quella costituente la premessa logica della statuizione contenuta nel dispositivo, vanno considerate di regola superflue, qualora l’argomentazione principale sia sufficiente a reggere la pronuncia adottata.” (Sent. Cass. 10134/2004).

84 Di fatto, “Il giudizio si forma come conseguenza dell’atteggiamento psicologico del giudice conseguente agli stimoli indotti da determinati stati di fatto o determinate norme giuridiche che costituiscono l’oggetto della cognizione…” (S. Evangelista, Motivazione, sent. civ., Enciclopedia del diritto, vol. XXVII, Giuffré, Milano 1977, p. 161), atteggiamento alla cui formazione può naturalmente concorrere la previa conoscenza in generale dei fatti e norme in cui possono rientrare quelli oggetto del giudizio.

85 Gli appartenenti alle categorie dei ‘quadri’ o ‘vicedirigenti’ ed equiparabili sarebbero stati circa 60.000 nel pubblico impiego contrattualizzato (stima Confedir). Si ricorda che i ricorrenti nella vicenda in questione si erano ridotti in sede di cassazione a 57.

86 C. Pagotto, La disapplicazione della legge, cit., p. 215.